Prefazione.............Pag.V
Inferno............."1
Purgatorio............."361
Paradiso............."705
Indice dlle
illustrazioni........"1047
Indice illustrativo dei
singoli canti della "Commedia"...."1079
Indice dei
nomi............."1095
Nel mezzo del cammin di
nostra vita
mi ritrovai per una
selva oscura,
ché la diritta via era
smarrita.
Ahi quanto a dir qual
era è cosa dura
esta selva selvaggia e
aspra e forte
che nel pensier rinova
la paura!
Tanto è amara che poco è
più morte;
ma per trattar del ben
ch´i´ vi trovai,
dirò de l´altre cose ch´i´
v´ho scorte.
Io non so ben ridir com´
i´ v´intrai,
tant´ era pien di sonno
a quel punto
che la verace via
abbandonai.
Ma poi ch´i´ fui al piè
d´un colle giunto,
là dove terminava
quella valle
che m´avea di paura il
cor compunto,
guardai in alto e vidi
le sue spalle
vestite già de´ raggi
del pianeta
che mena dritto altrui
per ogne calle.
Allor fu la paura un
poco queta,
che nel lago del cor m´era
durata
la notte ch´i´ passai
con tanta pieta.
E come quei che con
lena affannata,
uscito fuor del pelago
a la riva,
si volge a l´acqua
perigliosa e guata,
così l´animo mio, ch´ancor
fuggiva,
si volse a retro a
rimirar lo passo
che non lasciò già mai
persona viva.
Poi ch´èi posato un
poco il corpo lasso,
ripresi via per la
piaggia diserta,
sì che ´l piè fermo
sempre era ´l più basso.
Ed ecco, quasi al
cominciar de l´erta,
una lonza leggera e
presta molto,
che di pel macolato era
coverta;
e non mi si partia
dinanzi al volto,
anzi ´mpediva tanto il
mio cammino,
ch´i´ fui per ritornar
più volte vòlto.
Temp´ era dal principio
del mattino,
e ´l sol montava ´n sù
con quelle stelle
ch´eran con lui quando
l´amor divino
mosse di prima quelle
cose belle;
sì ch´a bene sperar m´era
cagione
di quella fiera a la
gaetta pelle
l´ora del tempo e la
dolce stagione;
ma non sì che paura non
mi desse
la vista che m´apparve
d´un leone.
Questi parea che contra
me venisse
con la test´ alta e con
rabbiosa fame,
sì che parea che l´aere
ne tremesse.
Ed una lupa, che di
tutte brame
sembiava carca ne la
sua magrezza,
e molte genti fé già
viver grame,
questa mi porse tanto
di gravezza
con la paura ch´uscia
di sua vista,
ch´io perdei la
speranza de l´altezza.
E qual è quei che
volontieri acquista,
e giugne ´l tempo che
perder lo face,
che ´n tutti suoi
pensier piange e s´attrista;
tal mi fece la bestia
sanza pace,
che, venendomi ´ncontro,
a poco a poco
mi ripigneva là dove ´l
sol tace.
Mentre ch´i´ rovinava
in basso loco,
dinanzi a li occhi mi
si fu offerto
chi per lungo silenzio
parea fioco.
Quando vidi costui nel
gran diserto,
"Miserere di
me", gridai a lui,
"qual che tu sii,
od ombra od omo certo!".
Rispuosemi: "Non
omo, omo già fui,
e li parenti miei furon
lombardi,
mantoani per patrïa
ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor
che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ´l
buono Augusto
nel tempo de li dèi
falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di
quel giusto
figliuol d´Anchise che
venne di Troia,
poi che ´l superbo Ilïón
fu combusto.
Ma tu perché ritorni a
tanta noia?
perché non sali il
dilettoso monte
ch´è principio e cagion
di tutta gioia?".
"Or se´ tu quel
Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì
largo fiume?",
rispuos´ io lui con
vergognosa fronte.
"O de li altri
poeti onore e lume,
vagliami ´l lungo
studio e ´l grande amore
che m´ha fatto cercar
lo tuo volume.
Tu se´ lo mio maestro e
´l mio autore,
tu se´ solo colui da cu´
io tolsi
lo bello stilo che m´ha
fatto onore.
Vedi la bestia per cu´
io mi volsi;
aiutami da lei, famoso
saggio,
ch´ella mi fa tremar le
vene e i polsi".
"A te convien
tenere altro vïaggio",
rispuose, poi che
lagrimar mi vide,
"se vuo´ campar d´esto
loco selvaggio;
ché questa bestia, per
la qual tu gride,
non lascia altrui
passar per la sua via,
ma tanto lo ´mpedisce
che l´uccide;
e ha natura sì malvagia
e ria,
che mai non empie la
bramosa voglia,
e dopo ´l pasto ha più
fame che pria.
Molti son li animali a
cui s´ammoglia,
e più saranno ancora,
infin che ´l veltro
verrà, che la farà
morir con doglia.
Questi non ciberà terra
né peltro,
ma sapïenza, amore e
virtute,
e sua nazion sarà tra
feltro e feltro.
Di quella umile Italia
fia salute
per cui morì la vergine
Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso
di ferute.
Questi la caccerà per
ogne villa,
fin che l´avrà rimessa
ne lo ´nferno,
là onde ´nvidia prima
dipartilla.
Ond´ io per lo tuo me´
penso e discerno
che tu mi segui, e io
sarò tua guida,
e trarrotti di qui per
loco etterno;
ove udirai le disperate
strida,
vedrai li antichi
spiriti dolenti,
ch´a la seconda morte
ciascun grida;
e vederai color che son
contenti
nel foco, perché speran
di venire
quando che sia a le
beate genti.
A le quai poi se tu
vorrai salire,
anima fia a ciò più di
me degna:
con lei ti lascerò nel
mio partire;
ché quello imperador
che là sù regna,
perch´ i´ fu´
ribellante a la sua legge,
non vuol che ´n sua
città per me si vegna.
In tutte parti impera e
quivi regge;
quivi è la sua città e
l´alto seggio:
oh felice colui cu´ ivi
elegge!".
E io a lui:
"Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu
non conoscesti,
acciò ch´io fugga
questo male e peggio,
che tu mi meni là dov´
or dicesti,
sì ch´io veggia la
porta di san Pietro
e color cui tu fai
cotanto mesti".
Allor si mosse, e io li
tenni dietro.
Lo giorno se n´andava,
e l´aere bruno
toglieva li animai che
sono in terra
da le fatiche loro; e
io sol uno
m´apparecchiava a
sostener la guerra
sì del cammino e sì de
la pietate,
che ritrarrà la mente
che non erra.
O muse, o alto ingegno,
or m´aiutate;
o mente che scrivesti
ciò ch´io vidi,
qui si parrà la tua
nobilitate.
Io cominciai:
"Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s´ell´
è possente,
prima ch´a l´alto passo
tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo
il parente,
corruttibile ancora, ad
immortale
secolo andò, e fu
sensibilmente.
Però, se l´avversario d´ogne
male
cortese i fu, pensando
l´alto effetto
ch´uscir dovea di lui,
e ´l chi e ´l quale
non pare indegno ad omo
d´intelletto;
ch´e´ fu de l´alma Roma
e di suo impero
ne l´empireo ciel per
padre eletto:
la quale e ´l quale, a
voler dir lo vero,
fu stabilita per lo
loco santo
u´ siede il successor
del maggior Piero.
Per quest´ andata onde
li dai tu vanto,
intese cose che furon
cagione
di sua vittoria e del
papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d´elezïone,
Per recarne conforto a
quella fede
ch´è principio a la via
di salvazione.
Ma io, perché venirvi?
o chi ´l concede?
Io non Enëa, io non
Paulo sono;
me degno a ciò né io né
altri ´l crede.
Per che, se del venire
io m´abbandono,
temo che la venuta non
sia folle.
Se´ savio; intendi me´
ch´i´ non ragiono".
E qual è quei che
disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia
proposta,
sì che dal cominciar
tutto si tolle,
tal mi fec´ ïo ´n
quella oscura costa,
Perché, pensando,
consumai la ´mpresa
che fu nel cominciar
cotanto tosta.
"S´i´ ho ben la
parola tua intesa",
rispuose del magnanimo
quell´ ombra,
"l´anima tua è da
viltade offesa;
la qual molte fïate l´omo
ingombra
sì che d´onrata impresa
lo rivolve,
come falso veder bestia
quand´ ombra.
Da questa tema acciò
che tu ti solve,
dirotti perch´ io venni
e quel ch´io ´ntesi
nel primo punto che di
te mi dolve.
Io era tra color che
son sospesi,
e donna mi chiamò beata
e bella,
tal che di comandare io
la richiesi.
Lucevan li occhi suoi
più che la stella;
e cominciommi a dir
soave e piana,
con angelica voce, in
sua favella:
"O anima cortese
mantoana,
di cui la fama ancor
nel mondo dura,
e durerà quanto ´l
mondo lontana,
l´amico mio, e non de
la ventura,
ne la diserta piaggia è
impedito
sì nel cammin, che vòlt´
è per paura;
e temo che non sia già
sì smarrito,
ch´io mi sia tardi al
soccorso levata,
Per quel ch´i´ ho di
lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua
parola ornata
e con ciò c´ha mestieri
al suo campare,
l´aiuta sì ch´i´ ne sia
consolata.
I´ son Beatrice che ti
faccio andare;
vegno del loco ove
tornar disio;
amor mi mosse, che mi
fa parlare.
Quando sarò dinanzi al
segnor mio,
di te mi loderò sovente
a lui".
Tacette allora, e poi
comincia´ io:
"O donna di virtù
sola per cui
l´umana spezie eccede
ogne contento
di quel ciel c´ha minor
li cerchi sui,
tanto m´aggrada il tuo
comandamento,
che l´ubidir, se già
fosse, m´è tardi;
Più non t´è uo´ ch´aprirmi
il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che
non ti guardi
de lo scender qua giuso
in questo centro
de l´ampio loco ove
tornar tu ardi".
"Da che tu vuo´
saver cotanto a dentro,
dirotti
brievemente", mi rispuose,
"perch´ i´ non
temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole
quelle cose
c´hanno potenza di fare
altrui male;
de l´altre no, ché non
son paurose.
I´ son fatta da Dio,
sua mercé, tale,
che la vostra miseria
non mi tange,
né fiamma d´esto ´ncendio
non m´assale.
Donna è gentil nel ciel
che si compiange
di questo ´mpedimento
ov´ io ti mando,
sì che duro giudicio là
sù frange.
Questa chiese Lucia in
suo dimando
e disse: ’Or ha bisogno
il tuo fedele
di te, e io a te lo
raccomando’.
Lucia, nimica di
ciascun crudele,
si mosse, e venne al
loco dov´ i´ era,
che mi sedea con l´antica
Rachele.
Disse ’Beatrice, loda
di Dio vera,
ché non soccorri quei
che t´amò tanto,
ch´uscì per te de la
volgare schiera?
Non odi tu la pieta del
suo pianto,
non vedi tu la morte
che ´l combatte
su la fiumana ove ´l
mar non ha vanto?’.
Al mondo non fur mai
persone ratte
a far lor pro o a
fuggir lor danno,
com´ io, dopo cotai
parole fatte,
venni qua giù del mio
beato scanno,
fidandomi del tuo
parlare onesto,
ch´onora te e quei ch´udito
l´hanno".
Poscia che m´ebbe
ragionato questo,
li occhi lucenti
lagrimando volse,
er che mi fece del
venir più presto.
E venni a te così com´
ella volse:
d´inanzi a quella fiera
ti levai
che del bel monte il
corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché,
perché restai,
Perché tanta viltà nel
core allette,
Perché ardire e
franchezza non hai,
poscia che tai tre
donne benedette
curan di te ne la corte
del cielo,
e ´l mio parlar tanto
ben ti promette?".
Quali fioretti dal
notturno gelo
chinati e chiusi, poi
che ´l sol li ´mbianca,
si drizzan tutti aperti
in loro stelo,
tal mi fec´ io di mia
virtude stanca,
e tanto buono ardire al
cor mi corse,
ch´i´ cominciai come
persona franca:
"Oh pietosa colei
che mi soccorse!
e te cortese ch´ubidisti
tosto
a le vere parole che ti
porse!
Tu m´hai con disiderio
il cor disposto
sì al venir con le
parole tue,
ch´i´ son tornato nel
primo proposto.
Or va, ch´un sol volere
è d´ambedue:
tu duca, tu segnore e
tu maestro".
Così li dissi; e poi
che mosso fue,
intrai per lo cammino
alto e silvestro.
`Per me si va
ne la città dolente,
Per me si va ne l´etterno
dolore,
Per me si va tra la
perduta gente.
Giustizia mosse il mio
alto fattore;
fecemi la divina
podestate,
la somma sapïenza e ´l
primo amore.
Dinanzi a me non fuor
cose create
se non etterne, e io
etterno duro.
Lasciate ogne speranza,
voi ch´intrate´.
Queste parole di colore
oscuro
vid´ ïo scritte al
sommo d´una porta;
Per ch´io:
"Maestro, il senso lor m´è duro".
Ed elli a me, come
persona accorta:
"Qui si convien
lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che
qui sia morta.
Noi siam venuti al loco
ov´ i´ t´ho detto
che tu vedrai le genti
dolorose
c´hanno perduto il ben
de l´intelletto".
E poi che la sua mano a
la mia puose
con lieto volto, ond´
io mi confortai,
mi mise dentro a le
segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e
alti guai
risonavan per l´aere
sanza stelle,
Per ch´io al cominciar
ne lagrimai.
Diverse lingue,
orribili favelle,
Parole di dolore,
accenti d´ira,
voci alte e fioche, e
suon di man con elle
facevano un tumulto, il
qual s´aggira
sempre in quell´ aura sanza
tempo tinta,
come la rena quando
turbo spira.
E io ch´avea d´error la
testa cinta,
dissi: "Maestro,
che è quel ch´i´ odo?
e che gent´ è che par
nel duol sì vinta?".
Ed elli a me:
"Questo misero modo
tegnon l´anime triste
di coloro
che visser sanza ´nfamia
e sanza lodo.
Mischiate sono a quel
cattivo coro
de li angeli che non
furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma
per sé fuoro.
Caccianli i ciel per
non esser men belli,
né lo profondo inferno
li riceve,
ch´alcuna gloria i rei
avrebber d´elli".
E io: "Maestro,
che è tanto greve
a lor che lamentar li
fa sì forte?".
Rispuose:
"Dicerolti molto breve.
Questi non hanno
speranza di morte,
e la lor cieca vita è
tanto bassa,
che ´nvidïosi son d´ogne
altra sorte.
Fama di loro il mondo
esser non lassa;
misericordia e
giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor,
ma guarda e passa".
E io, che riguardai,
vidi una ´nsegna
che girando correva
tanto ratta,
che d´ogne posa mi
parea indegna;
e dietro le venìa sì
lunga tratta
di gente, ch´i´ non
averei creduto
che morte tanta n´avesse
disfatta.
Poscia ch´io v´ebbi
alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l´ombra
di colui
che fece per viltade il
gran rifiuto.
Incontanente intesi e
certo fui
che questa era la setta
d´i cattivi,
a Dio spiacenti e a´
nemici sui.
Questi sciaurati, che
mai non fur vivi,
erano ignudi e
stimolati molto
da mosconi e da vespe
ch´eran ivi.
Elle rigavan lor di
sangue il volto,
che, mischiato di
lagrime, a´ lor piedi
da fastidiosi vermi era
ricolto.
E poi ch´a riguardar
oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d´un
gran fiume;
Per ch´io dissi:
"Maestro, or mi concedi
ch´i´ sappia quali
sono, e qual costume
le fa di trapassar
parer sì pronte,
com´ i´ discerno per lo
fioco lume".
Ed elli a me: "Le
cose ti fier conte
quando noi fermerem li
nostri passi
su la trista riviera d´Acheronte".
Allor con li occhi
vergognosi e bassi,
temendo no ´l mio dir
li fosse grave,
infino al fiume del
parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir
per nave
un vecchio, bianco per
antico pelo,
gridando: "Guai a
voi, anime prave!
Non isperate mai veder
lo cielo:
i´ vegno per menarvi a
l´altra riva
ne le tenebre etterne,
in caldo e ´n gelo.
E tu che se´ costì,
anima viva,
Pàrtiti da cotesti che
son morti".
Ma poi che vide ch´io
non mi partiva,
disse: "Per altra
via, per altri porti
verrai a piaggia, non
qui, per passare:
Più lieve legno convien
che ti porti".
E ´l duca lui:
"Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove
si puote
ciò che si vuole, e più
non dimandare".
Quinci fuor quete le
lanose gote
al nocchier de la
livida palude,
che ´ntorno a li occhi
avea di fiamme rote.
Ma quell´ anime, ch´eran
lasse e nude,
cangiar colore e
dibattero i denti,
ratto che ´nteser le
parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor
parenti,
l´umana spezie e ´l
loco e ´l tempo e ´l seme
di lor semenza e di lor
nascimenti.
Poi si ritrasser tutte
quante insieme,
forte piangendo, a la
riva malvagia
ch´attende ciascun uom
che Dio non teme.
Caron dimonio, con
occhi di bragia
loro accennando, tutte
le raccoglie;
batte col remo
qualunque s´adagia.
Come d´autunno si levan
le foglie
l´una appresso de l´altra,
fin che ´l ramo
vede a la terra tutte
le sue spoglie,
similemente il mal seme
d´Adamo
gittansi di quel lito
ad una ad una,
Per cenni come augel
per suo richiamo.
Così sen vanno su per l´onda
bruna,
e avanti che sien di là
discese,
anche di qua nuova
schiera s´auna.
"Figliuol
mio", disse ´l maestro cortese,
"quelli che muoion
ne l´ira di Dio
tutti convegnon qui d´ogne
paese;
e pronti sono a
trapassar lo rio,
ché la divina giustizia
li sprona,
sì che la tema si volve
in disio.
Quinci non passa mai
anima buona;
e però, se Caron di te
si lagna,
ben puoi sapere omai
che ´l suo dir suona".
Finito questo, la buia
campagna
tremò sì forte, che de
lo spavento
la mente di sudore
ancor mi bagna.
La terra lagrimosa
diede vento,
che balenò una luce
vermiglia
la qual mi vinse
ciascun sentimento;
e caddi come l´uom cui
sonno piglia.
Ruppemi l´alto sonno ne
la testa
un greve truono, sì ch´io
mi riscossi
come persona ch´è per
forza desta;
e l´occhio riposato
intorno mossi,
dritto levato, e fiso
riguardai
er conoscer lo loco dov´
io fossi.
Vero è che ´n su la
proda mi trovai
de la valle d´abisso
dolorosa
che ´ntrono accoglie d´infiniti
guai.
Oscura e profonda era e
nebulosa
tanto che, per ficcar
lo viso a fondo,
io non vi discernea
alcuna cosa.
"Or discendiam qua
giù nel cieco mondo",
cominciò il poeta tutto
smorto.
"Io sarò primo, e
tu sarai secondo".
E io, che del color mi
fui accorto,
dissi: "Come verrò,
se tu paventi
che suoli al mio
dubbiare esser conforto?".
Ed elli a me: "L´angoscia
de le genti
che son qua giù, nel viso
mi dipigne
quella pietà che tu per
tema senti.
Andiam, ché la via
lunga ne sospigne".
Così si mise e così mi
fé intrare
nel primo cerchio che l´abisso
cigne.
Quivi, secondo che per
ascoltare,
non avea pianto mai che
di sospiri
che l´aura etterna
facevan tremare;
ciò avvenia di duol
sanza martìri,
ch´avean le turbe, ch´eran
molte e grandi,
d´infanti e di femmine
e di viri.
Lo buon maestro a me:
"Tu non dimandi
che spiriti son questi
che tu vedi?
Or vo´ che sappi,
innanzi che più andi,
ch´ei non peccaro; e s´elli
hanno mercedi,
non basta, perché non
ebber battesmo,
ch´è porta de la fede
che tu credi;
e s´e´ furon dinanzi al
cristianesmo,
non adorar debitamente
a Dio:
e di questi cotai son
io medesmo.
Per tai difetti, non per
altro rio,
semo perduti, e sol di
tanto offesi
che sanza speme vivemo
in disio".
Gran duol mi prese al
cor quando lo ´ntesi,
Però che gente di molto
valore
conobbi che ´n quel
limbo eran sospesi.
"Dimmi, maestro
mio, dimmi, segnore",
comincia´ io per voler
esser certo
di quella fede che
vince ogne errore:
"uscicci mai
alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi
fosse beato?".
E quei che ´ntese il
mio parlar coverto,
rispuose: "Io era
nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire
un possente,
con segno di vittoria
coronato.
Trasseci l´ombra del
primo parente,
d´Abèl suo figlio e
quella di Noè,
di Moïsè legista e
ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd
re,
Israèl con lo padre e
co´ suoi nati
e con Rachele, per cui
tanto fé,
e altri molti, e feceli
beati.
E vo´ che sappi che,
dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran
salvati".
Non lasciavam l´andar
perch´ ei dicessi,
ma passavam la selva
tuttavia,
la selva, dico, di
spiriti spessi.
Non era lunga ancor la
nostra via
di qua dal sonno, quand´
io vidi un foco
ch´emisperio di tenebre
vincia.
Di lungi n´eravamo
ancora un poco,
ma non sì ch´io non
discernessi in parte
ch´orrevol gente
possedea quel loco.
"O tu ch´onori scïenzïa
e arte,
questi chi son c´hanno
cotanta onranza,
che dal modo de li
altri li diparte?".
E quelli a me: "L´onrata
nominanza
che di lor suona sù ne
la tua vita,
grazïa acquista in ciel
che sì li avanza".
Intanto voce fu per me
udita:
"Onorate l´altissimo
poeta;
l´ombra sua torna, ch´era
dipartita".
Poi che la voce fu
restata e queta,
vidi quattro grand´
ombre a noi venire:
sembianz´ avevan né
trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò
a dire:
"Mira colui con
quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre
sì come sire:
quelli è Omero poeta
sovrano;
l´altro è Orazio satiro
che vene;
Ovidio è ´l terzo, e l´ultimo
Lucano.
Però che ciascun meco
si convene
nel nome che sonò la
voce sola,
fannomi onore, e di ciò
fanno bene".
Così vid´ i´ adunar la
bella scola
di quel segnor de l´altissimo
canto
che sovra li altri com´
aquila vola.
Da ch´ebber ragionato
insieme alquanto,
volsersi a me con
salutevol cenno,
e ´l mio maestro
sorrise di tanto;
e più d´onore ancora
assai mi fenno,
ch´e´ sì mi fecer de la
loro schiera,
sì ch´io fui sesto tra
cotanto senno.
Così andammo infino a
la lumera,
Parlando cose che ´l
tacere è bello,
sì com´ era ´l parlar
colà dov´ era.
Venimmo al piè d´un
nobile castello,
sette volte cerchiato d´alte
mura,
difeso intorno d´un bel
fiumicello.
Questo passammo come
terra dura;
Per sette porte intrai
con questi savi:
giugnemmo in prato di
fresca verdura.
Genti v´eran con occhi
tardi e gravi,
di grande autorità ne´
lor sembianti:
Parlavan rado, con voci
soavi.
Traemmoci così da l´un
de´ canti,
in loco aperto,
luminoso e alto,
sì che veder si potien
tutti quanti.
Colà diritto, sovra ´l
verde smalto,
mi fuor mostrati li
spiriti magni,
che del vedere in me
stesso m´essalto.
I´ vidi Eletra con
molti compagni,
tra ´ quai conobbi Ettòr
ed Enea,
Cesare armato con li
occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la
Pantasilea;
da l´altra parte vidi ´l
re Latino
che con Lavina sua
figlia sedea.
Vidi quel Bruto che
cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa
e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ´l
Saladino.
Poi ch´innalzai un poco
più le ciglia,
vidi ´l maestro di
color che sanno
seder tra filosofica
famiglia.
Tutti lo miran, tutti
onor li fanno:
quivi vid´ ïo Socrate e
Platone,
che ´nnanzi a li altri
più presso li stanno;
Democrito che ´l mondo
a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e
Tale,
Empedoclès, Eraclito e
Zenone;
e vidi il buono
accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi
Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca
morale;
Euclide geomètra e
Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e
Galïeno,
Averoìs, che ´l gran
comento feo.
Io non posso ritrar di
tutti a pieno,
Però che sì mi caccia
il lungo tema,
che molte volte al
fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in
due si scema:
Per altra via mi mena
il savio duca,
fuor de la queta, ne l´aura
che trema.
E vegno in parte ove
non è che luca.
Così discesi del
cerchio primaio
giù nel secondo, che
men loco cinghia
e tanto più dolor, che
punge a guaio.
Stavvi Minòs
orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l´intrata;
giudica e manda secondo
ch´avvinghia.
Dico che quando l´anima
mal nata
li vien dinanzi, tutta
si confessa;
e quel conoscitor de le
peccata
vede qual loco d´inferno
è da essa;
cignesi con la coda
tante volte
quantunque gradi vuol
che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne
stanno molte:
vanno a vicenda
ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi
son giù volte.
"O tu che vieni al
doloroso ospizio",
disse Minòs a me quando
mi vide,
lasciando l´atto di
cotanto offizio,
"guarda com´ entri
e di cui tu ti fide;
non t´inganni l´ampiezza
de l´intrare!".
E ´l duca mio a lui:
"Perché pur gride?
Non impedir lo suo
fatale andare:
vuolsi così colà dove
si puote
ciò che si vuole, e più
non dimandare".
Or incomincian le
dolenti note
a farmisi sentire; or
son venuto
là dove molto pianto mi
percuote.
Io venni in loco d´ogne
luce muto,
che mugghia come fa mar
per tempesta,
se da contrari venti è
combattuto.
La bufera infernal, che
mai non resta,
mena li spirti con la
sua rapina;
voltando e percotendo
li molesta.
Quando giungon davanti
a la ruina,
quivi le strida, il
compianto, il lamento;
bestemmian quivi la
virtù divina.
Intesi ch´a così fatto
tormento
enno dannati i peccator
carnali,
che la ragion
sommettono al talento.
E come li stornei ne
portan l´ali
nel freddo tempo, a
schiera larga e piena,
così quel fiato li
spiriti mali
di qua, di là, di giù,
di sù li mena;
nulla speranza li
conforta mai,
non che di posa, ma di
minor pena.
E come i gru van
cantando lor lai,
faccendo in aere di sé
lunga riga,
così vid´ io venir,
traendo guai,
ombre portate da la
detta briga;
per ch´i´ dissi:
"Maestro, chi son quelle
genti che l´aura nera sì
gastiga?".
"La prima di color
di cui novelle
tu vuo´ saper", mi
disse quelli allotta,
"fu imperadrice di
molte favelle.
A vizio di lussuria fu
sì rotta,
che libito fé licito in
sua legge,
per tòrre il biasmo in
che era condotta.
Ell´ è Semiramìs, di
cui si legge
che succedette a Nino e
fu sua sposa:
tenne la terra che ´l
Soldan corregge.
L´altra è colei che s´ancise
amorosa,
e ruppe fede al cener
di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui
tanto reo
tempo si volse, e vedi ´l
grande Achille,
che con amore al fine
combatteo.
Vedi Parìs,
Tristano"; e più di mille
ombre mostrommi e
nominommi a dito,
ch´amor di nostra vita
dipartille.
Poscia ch´io ebbi ´l
mio dottore udito
nomar le donne antiche
e ´ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui
quasi smarrito.
I´ cominciai:
"Poeta, volontieri
parlerei a quei due che
´nsieme vanno,
e paion sì al vento
esser leggeri".
Ed elli a me:
"Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu
allor li priega
per quello amor che i
mena, ed ei verranno".
Sì tosto come il vento
a noi li piega,
mossi la voce: "O
anime affannate,
venite a noi parlar, s´altri
nol niega!".
Quali colombe dal disio
chiamate
con l´ali alzate e
ferme al dolce nido
vegnon per l´aere, dal
voler portate;
cotali uscir de la
schiera ov´ è Dido,
a noi venendo per l´aere
maligno,
sì forte fu l´affettüoso
grido.
"O animal grazïoso
e benigno
che visitando vai per l´aere
perso
noi che tignemmo il
mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de
l´universo,
noi pregheremmo lui de la
tua pace,
poi c´hai pietà del
nostro mal perverso.
Di quel che udire e che
parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo
a voi,
mentre che ´l vento,
come fa, ci tace.
Siede la terra dove
nata fui
su la marina dove ´l Po
discende
per aver pace co´
seguaci sui.
Amor, ch´al cor gentil
ratto s´apprende,
prese costui de la
bella persona
che mi fu tolta; e ´l
modo ancor m´offende.
Amor, ch´a nullo amato
amar perdona,
mi prese del costui
piacer sì forte,
che, come vedi, ancor
non m´abbandona.
Amor condusse noi ad
una morte.
Caina attende chi a
vita ci spense".
Queste parole da lor ci
fuor porte.
Quand´ io intesi quell´
anime offense,
china´ il viso, e tanto
il tenni basso,
fin che ´l poeta mi
disse: "Che pense?".
Quando rispuosi,
cominciai: "Oh lasso,
quanti dolci pensier,
quanto disio
menò costoro al
doloroso passo!".
Poi mi rivolsi a loro e
parla´ io,
e cominciai:
"Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno
tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d´i
dolci sospiri,
a che e come concedette
amore
che conosceste i
dubbiosi disiri?".
E quella a me:
"Nessun maggior dolore
che ricordarsi del
tempo felice
ne la miseria; e ciò sa
´l tuo dottore.
Ma s´a conoscer la
prima radice
del nostro amor tu hai
cotanto affetto,
dirò come colui che
piange e dice.
Noi leggiavamo un
giorno per diletto
di Lancialotto come
amor lo strinse;
soli eravamo e sanza
alcun sospetto.
Per più fïate li occhi
ci sospinse
quella lettura, e
scolorocci il viso;
ma solo un punto fu
quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato
riso
esser basciato da
cotanto amante,
questi, che mai da me
non fia diviso,
la bocca mi basciò
tutto tremante.
Galeotto fu ´l libro e
chi lo scrisse:
quel giorno più non vi
leggemmo avante".
Mentre che l´uno spirto
questo disse,
l´altro piangëa; sì che
di pietade
io venni men così com´
io morisse.
E caddi come corpo
morto cade.
Al tornar de la mente,
che si chiuse
dinanzi a la pietà d´i
due cognati,
che di trestizia tutto
mi confuse,
novi tormenti e novi
tormentati
mi veggio intorno, come
ch´io mi mova
e ch´io mi volga, e
come che io guati.
Io sono al terzo
cerchio, de la piova
etterna, maladetta,
fredda e greve;
regola e qualità mai
non l´è nova.
Grandine grossa, acqua
tinta e neve
per l´aere tenebroso si
riversa;
pute la terra che
questo riceve.
Cerbero, fiera crudele
e diversa,
con tre gole
caninamente latra
sovra la gente che
quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli,
la barba unta e atra,
e ´l ventre largo, e
unghiate le mani;
graffia li spirti ed
iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia
come cani;
de l´un de´ lati fanno
a l´altro schermo;
volgonsi spesso i
miseri profani.
Quando ci scorse
Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e
mostrocci le sanne;
non avea membro che
tenesse fermo.
E ´l duca mio distese
le sue spanne,
prese la terra, e con
piene le pugna
la gittò dentro a le
bramose canne.
Qual è quel cane ch´abbaiando
agogna,
e si racqueta poi che ´l
pasto morde,
ché solo a divorarlo
intende e pugna,
cotai si fecer quelle
facce lorde
de lo demonio Cerbero,
che ´ntrona
l´anime sì, ch´esser
vorrebber sorde.
Noi passavam su per l´ombre
che adona
la greve pioggia, e
ponavam le piante
sovra lor vanità che
par persona.
Elle giacean per terra
tutte quante,
fuor d´una ch´a seder
si levò, ratto
ch´ella ci vide
passarsi davante.
"O tu che se´ per
questo ´nferno tratto",
mi disse,
"riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch´io
disfatto, fatto".
E io a lui: "L´angoscia
che tu hai
forse ti tira fuor de
la mia mente,
sì che non par ch´i´ ti
vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se´ che
´n sì dolente
loco se´ messo, e hai sì
fatta pena,
che, s´altra è maggio,
nulla è sì spiacente".
Ed elli a me: "La
tua città, ch´è piena
d´invidia sì che già
trabocca il sacco,
seco mi tenne in la
vita serena.
Voi cittadini mi
chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de
la gola,
come tu vedi, a la
pioggia mi fiacco.
E io anima trista non
son sola,
ché tutte queste a
simil pena stanno
per simil colpa".
E più non fé parola.
Io li rispuosi:
"Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch´a
lagrimar mi ´nvita;
ma dimmi, se tu sai, a
che verranno
li cittadin de la città
partita;
s´alcun v´è giusto; e
dimmi la cagione
per che l´ha tanta
discordia assalita".
E quelli a me:
"Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e
la parte selvaggia
caccerà l´altra con
molta offensione.
Poi appresso convien
che questa caggia
infra tre soli, e che l´altra
sormonti
con la forza di tal che
testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo
le fronti,
tenendo l´altra sotto
gravi pesi,
come che di ciò pianga
o che n´aonti.
Giusti son due, e non
vi sono intesi;
superbia, invidia e
avarizia sono
le tre faville c´hanno
i cuori accesi".
Qui puose fine al
lagrimabil suono.
E io a lui: "Ancor
vo´ che mi ´nsegni
e che di più parlar mi
facci dono.
Farinata e ´l
Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci,
Arrigo e ´l Mosca
e li altri ch´a ben far
puoser li ´ngegni,
dimmi ove sono e fa ch´io
li conosca;
ché gran disio mi
stringe di savere
se ´l ciel li addolcia
o lo ´nferno li attosca".
E quelli: "Ei son
tra l´anime più nere;
diverse colpe giù li
grava al fondo:
se tanto scendi, là i
potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel
dolce mondo,
priegoti ch´a la mente
altrui mi rechi:
più non ti dico e più
non ti rispondo".
Li diritti occhi torse
allora in biechi;
guardommi un poco e poi
chinò la testa:
cadde con essa a par de
li altri ciechi.
E ´l duca disse a me:
"Più non si desta
di qua dal suon de l´angelica
tromba,
quando verrà la nimica
podesta:
ciascun rivederà la
trista tomba,
ripiglierà sua carne e
sua figura,
udirà quel ch´in
etterno rimbomba".
Sì trapassammo per
sozza mistura
de l´ombre e de la
pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la
vita futura;
per ch´io dissi:
"Maestro, esti tormenti
crescerann´ ei dopo la
gran sentenza,
o fier minori, o saran
sì cocenti?".
Ed elli a me:
"Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la
cosa è più perfetta,
più senta il bene, e
così la doglienza.
Tutto che questa gente
maladetta
in vera perfezion già
mai non vada,
di là più che di qua
essere aspetta".
Noi aggirammo a tondo
quella strada,
parlando più assai ch´i´
non ridico;
venimmo al punto dove
si digrada:
quivi trovammo Pluto,
il gran nemico.
"Pape Satàn, pape
Satàn aleppe!",
cominciò Pluto con la
voce chioccia;
e quel savio gentil,
che tutto seppe,
disse per confortarmi:
"Non ti noccia
la tua paura; ché,
poder ch´elli abbia,
non ci torrà lo scender
questa roccia".
Poi si rivolse a quella
´nfiata labbia,
e disse: "Taci,
maladetto lupo!
consuma dentro te con
la tua rabbia.
Non è sanza cagion l´andare
al cupo:
vuolsi ne l´alto, là
dove Michele
fé la vendetta del
superbo strupo".
Quali dal vento le
gonfiate vele
caggiono avvolte, poi
che l´alber fiacca,
tal cadde a terra la
fiera crudele.
Così scendemmo ne la
quarta lacca,
pigliando più de la
dolente ripa
che ´l mal de l´universo
tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio!
tante chi stipa
nove travaglie e pene
quant´ io viddi?
e perché nostra colpa sì
ne scipa?
Come fa l´onda là sovra
Cariddi,
che si frange con
quella in cui s´intoppa,
così convien che qui la
gente riddi.
Qui vid´ i´ gente più
ch´altrove troppa,
e d´una parte e d´altra,
con grand´ urli,
voltando pesi per forza
di poppa.
Percotëansi ´ncontro; e
poscia pur lì
si rivolgea ciascun,
voltando a retro,
gridando: "Perché
tieni?" e "Perché burli?".
Così tornavan per lo
cerchio tetro
da ogne mano a l´opposito
punto,
gridandosi anche loro
ontoso metro;
poi si volgea ciascun,
quand´ era giunto,
per lo suo mezzo
cerchio a l´altra giostra.
E io, ch´avea lo cor
quasi compunto,
dissi: "Maestro
mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se
tutti fuor cherci
questi chercuti a la
sinistra nostra".
Ed elli a me:
"Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la
vita primaia,
che con misura nullo
spendio ferci.
Assai la voce lor
chiaro l´abbaia,
quando vegnono a´ due
punti del cerchio
dove colpa contraria li
dispaia.
Questi fuor cherci, che
non han coperchio
piloso al capo, e papi
e cardinali,
in cui usa avarizia il
suo soperchio".
E io: "Maestro,
tra questi cotali
dovre´ io ben
riconoscere alcuni
che furo immondi di
cotesti mali".
Ed elli a me:
"Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che
i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or
li fa bruni.
In etterno verranno a
li due cozzi:
questi resurgeranno del
sepulcro
col pugno chiuso, e
questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo
mondo pulcro
ha tolto loro, e posti
a questa zuffa:
qual ella sia, parole
non ci appulcro.
Or puoi, figliuol,
veder la corta buffa
d´i ben che son
commessi a la fortuna,
per che l´umana gente
si rabbuffa;
ché tutto l´oro ch´è
sotto la luna
e che già fu, di quest´
anime stanche
non poterebbe farne
posare una".
"Maestro
mio", diss´ io, "or mi dì anche:
questa fortuna di che
tu mi tocche,
che è, che i ben del
mondo ha sì tra branche?".
E quelli a me: "Oh
creature sciocche,
quanta ignoranza è
quella che v´offende!
Or vo´ che tu mia
sentenza ne ´mbocche.
Colui lo cui saver
tutto trascende,
fece li cieli e diè lor
chi conduce
sì, ch´ogne parte ad
ogne parte splende,
distribuendo igualmente
la luce.
Similemente a li
splendor mondani
ordinò general ministra
e duce
che permutasse a tempo
li ben vani
di gente in gente e d´uno
in altro sangue,
oltre la difension d´i
senni umani;
per ch´una gente impera
e l´altra langue,
seguendo lo giudicio di
costei,
che è occulto come in
erba l´angue.
Vostro saver non ha
contasto a lei:
questa provede,
giudica, e persegue
suo regno come il loro
li altri dèi.
Le sue permutazion non
hanno triegue:
necessità la fa esser
veloce;
sì spesso vien chi
vicenda consegue.
Quest´ è colei ch´è
tanto posta in croce
pur da color che le
dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto
e mala voce;
ma ella s´è beata e ciò
non ode:
con l´altre prime
creature lieta
volve sua spera e beata
si gode.
Or discendiamo omai a
maggior pieta;
già ogne stella cade
che saliva
quand´ io mi mossi, e ´l
troppo star si vieta".
Noi ricidemmo il
cerchio a l´altra riva
sovr´ una fonte che
bolle e riversa
per un fossato che da
lei deriva.
L´acqua era buia assai
più che persa;
e noi, in compagnia de
l´onde bige,
intrammo giù per una
via diversa.
In la palude va c´ha
nome Stige
questo tristo ruscel,
quand´ è disceso
al piè de le maligne
piagge grige.
E io, che di mirare
stava inteso,
vidi genti fangose in
quel pantano,
ignude tutte, con sembiante
offeso.
Queste si percotean non
pur con mano,
ma con la testa e col
petto e coi piedi,
troncandosi co´ denti a
brano a brano.
Lo buon maestro disse:
"Figlio, or vedi
l´anime di color cui
vinse l´ira;
e anche vo´ che tu per
certo credi
che sotto l´acqua è
gente che sospira,
e fanno pullular quest´
acqua al summo,
come l´occhio ti dice,
u´ che s´aggira.
Fitti nel limo dicon:
"Tristi fummo
ne l´aere dolce che dal
sol s´allegra,
portando dentro accidïoso
fummo:
or ci attristiam ne la
belletta negra".
Quest´ inno si
gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con
parola integra".
Così girammo de la
lorda pozza
grand´ arco tra la ripa
secca e ´l mézzo,
con li occhi vòlti a
chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d´una
torre al da sezzo.
Io dico, seguitando, ch´assai
prima
che noi fossimo al piè
de l´alta torre,
li occhi nostri n´andar
suso a la cima
per due fiammette che i
vedemmo porre,
e un´altra da lungi
render cenno,
tanto ch´a pena il potea
l´occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di
tutto ´l senno;
dissi: "Questo che
dice? e che risponde
quell´ altro foco? e
chi son quei che ´l fenno?".
Ed elli a me: "Su
per le sucide onde
già scorgere puoi
quello che s´aspetta,
se ´l fummo del pantan
nol ti nasconde".
Corda non pinse mai da
sé saetta
che sì corresse via per
l´aere snella,
com´ io vidi una nave
piccioletta
venir per l´acqua verso
noi in quella,
sotto ´l governo d´un
sol galeoto,
che gridava: "Or
se´ giunta, anima fella!".
"Flegïàs, Flegïàs,
tu gridi a vòto",
disse lo mio segnore,
"a questa volta:
più non ci avrai che
sol passando il loto".
Qual è colui che grande
inganno ascolta
che li sia fatto, e poi
se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l´ira
accolta.
Lo duca mio discese ne
la barca,
e poi mi fece intrare
appresso lui;
e sol quand´ io fui
dentro parve carca.
Tosto che ´l duca e io
nel legno fui,
segando se ne va l´antica
prora
de l´acqua più che non
suol con altrui.
Mentre noi corravam la
morta gora,
dinanzi mi si fece un
pien di fango,
e disse: "Chi se´
tu che vieni anzi ora?".
E io a lui: "S´i´
vegno, non rimango;
ma tu chi se´, che sì
se´ fatto brutto?".
Rispuose: "Vedi
che son un che piango".
E io a lui: "Con
piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti
rimani;
ch´i´ ti conosco, ancor
sie lordo tutto".
Allor distese al legno
ambo le mani;
per che ´l maestro
accorto lo sospinse,
dicendo: "Via costà
con li altri cani!".
Lo collo poi con le
braccia mi cinse;
basciommi ´l volto e
disse: "Alma sdegnosa,
benedetta colei che ´n
te s´incinse!
Quei fu al mondo
persona orgogliosa;
bontà non è che sua
memoria fregi:
così s´è l´ombra sua
qui furïosa.
Quanti si tegnon or là
sù gran regi
che qui staranno come
porci in brago,
di sé lasciando
orribili dispregi!".
E io: "Maestro,
molto sarei vago
di vederlo attuffare in
questa broda
prima che noi uscissimo
del lago".
Ed elli a me:
"Avante che la proda
ti si lasci veder, tu
sarai sazio:
di tal disïo convien
che tu goda".
Dopo ciò poco vid´ io
quello strazio
far di costui a le
fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e
ne ringrazio.
Tutti gridavano:
"A Filippo Argenti!";
e ´l fiorentino spirito
bizzarro
in sé medesmo si volvea
co´ denti.
Quivi il lasciammo, che
più non ne narro;
ma ne l´orecchie mi
percosse un duolo,
per ch´io avante l´occhio
intento sbarro.
Lo buon maestro disse:
"Omai, figliuolo,
s´appressa la città c´ha
nome Dite,
coi gravi cittadin, col
grande stuolo".
E io: "Maestro, già
le sue meschite
là entro certe ne la
valle cerno,
vermiglie come se di
foco uscite
fossero". Ed ei mi
disse: "Il foco etterno
ch´entro l´affoca le
dimostra rosse,
come tu vedi in questo
basso inferno".
Noi pur giugnemmo
dentro a l´alte fosse
che vallan quella terra
sconsolata:
le mura mi parean che
ferro fosse.
Non sanza prima far
grande aggirata,
venimmo in parte dove
il nocchier forte
"Usciteci",
gridò: "qui è l´intrata".
Io vidi più di mille in
su le porte
da ciel piovuti, che
stizzosamente
dicean: "Chi è
costui che sanza morte
va per lo regno de la
morta gente?".
E ´l savio mio maestro
fece segno
di voler lor parlar
segretamente.
Allor chiusero un poco
il gran disdegno
e disser: "Vien tu
solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per
questo regno.
Sol si ritorni per la
folle strada:
pruovi, se sa; ché tu
qui rimarrai,
che li ha´ iscorta sì
buia contrada".
Pensa, lettor, se io mi
sconfortai
nel suon de le parole
maladette,
ché non credetti
ritornarci mai.
"O caro duca mio,
che più di sette
volte m´hai sicurtà
renduta e tratto
d´alto periglio che ´ncontra
mi stette,
non mi lasciar",
diss´ io, "così disfatto;
e se ´l passar più
oltre ci è negato,
ritroviam l´orme nostre
insieme ratto".
E quel segnor che lì m´avea
menato,
mi disse: "Non
temer; ché ´l nostro passo
non ci può tòrre alcun:
da tal n´è dato.
Ma qui m´attendi, e lo
spirito lasso
conforta e ciba di
speranza buona,
ch´i´ non ti lascerò
nel mondo basso".
Così sen va, e quivi m´abbandona
lo dolce padre, e io rimagno
in forse,
che sì e no nel capo mi
tenciona.
Udir non potti quello
ch´a lor porse;
ma ei non stette là con
essi guari,
che ciascun dentro a
pruova si ricorse.
Chiuser le porte que´
nostri avversari
nel petto al mio
segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con
passi rari.
Li occhi a la terra e
le ciglia avea rase
d´ogne baldanza, e
dicea ne´ sospiri:
"Chi m´ha negate
le dolenti case!".
E a me disse: "Tu,
perch´ io m´adiri,
non sbigottir, ch´io
vincerò la prova,
qual ch´a la difension
dentro s´aggiri.
Questa lor tracotanza
non è nova;
ché già l´usaro a men
segreta porta,
la qual sanza serrame
ancor si trova.
Sovr´ essa vedestù la
scritta morta:
e già di qua da lei
discende l´erta,
passando per li cerchi
sanza scorta,
tal che per lui ne fia
la terra aperta".
Quel color che viltà di
fuor mi pinse
veggendo il duca mio
tornare in volta,
più tosto dentro il suo
novo ristrinse.
Attento si fermò com´
uom ch´ascolta;
ché l´occhio nol potea
menare a lunga
per l´aere nero e per
la nebbia folta.
"Pur a noi converrà
vincer la punga",
cominciò el, "se
non . . . Tal ne s´offerse.
Oh quanto tarda a me ch´altri
qui giunga!".
I´ vidi ben sì com´ ei
ricoperse
lo cominciar con l´altro
che poi venne,
che fur parole a le
prime diverse;
ma nondimen paura il
suo dir dienne,
perch´ io traeva la
parola tronca
forse a peggior
sentenzia che non tenne.
"In questo fondo
de la trista conca
discende mai alcun del
primo grado,
che sol per pena ha la
speranza cionca?".
Questa question fec´
io; e quei "Di rado
incontra", mi
rispuose, "che di noi
faccia il cammino alcun
per qual io vado.
Ver è ch´altra fïata
qua giù fui,
congiurato da quella
Eritón cruda
che richiamava l´ombre
a´ corpi sui.
Di poco era di me la
carne nuda,
ch´ella mi fece intrar
dentr´ a quel muro,
per trarne un spirto
del cerchio di Giuda.
Quell´ è ´l più basso
loco e ´l più oscuro,
e ´l più lontan dal
ciel che tutto gira:
ben so ´l cammin; però
ti fa sicuro.
Questa palude che ´l
gran puzzo spira
cigne dintorno la città
dolente,
u´ non potemo intrare
omai sanz´ ira".
E altro disse, ma non l´ho
a mente;
però che l´occhio m´avea
tutto tratto
ver´ l´alta torre a la
cima rovente,
dove in un punto furon
dritte ratto
tre furïe infernal di
sangue tinte,
che membra feminine
avieno e atto,
e con idre verdissime
eran cinte;
serpentelli e ceraste
avien per crine,
onde le fiere tempie
erano avvinte.
E quei, che ben conobbe
le meschine
de la regina de l´etterno
pianto,
"Guarda", mi
disse, "le feroci Erine.
Quest´ è Megera dal
sinistro canto;
quella che piange dal
destro è Aletto;
Tesifón è nel
mezzo"; e tacque a tanto.
Con l´unghie si fendea
ciascuna il petto;
battiensi a palme e
gridavan sì alto,
ch´i´ mi strinsi al
poeta per sospetto.
"Vegna Medusa: sì ´l
farem di smalto",
dicevan tutte
riguardando in giuso;
"mal non vengiammo
in Tesëo l´assalto".
"Volgiti ´n dietro
e tien lo viso chiuso;
ché se ´l Gorgón si
mostra e tu ´l vedessi,
nulla sarebbe di tornar
mai suso".
Così disse ´l maestro;
ed elli stessi
mi volse, e non si
tenne a le mie mani,
che con le sue ancor
non mi chiudessi.
O voi ch´avete li ´ntelletti
sani,
mirate la dottrina che
s´asconde
sotto ´l velame de li
versi strani.
E già venìa su per le
torbide onde
un fracasso d´un suon,
pien di spavento,
per cui tremavano
amendue le sponde,
non altrimenti fatto
che d´un vento
impetüoso per li
avversi ardori,
che fier la selva e
sanz´ alcun rattento
li rami schianta, abbatte
e porta fori;
dinanzi polveroso va
superbo,
e fa fuggir le fiere e
li pastori.
Li occhi mi sciolse e
disse: "Or drizza il nerbo
del viso su per quella
schiuma antica
per indi ove quel fummo
è più acerbo".
Come le rane innanzi a
la nimica
biscia per l´acqua si
dileguan tutte,
fin ch´a la terra
ciascuna s´abbica,
vid´ io più di mille
anime distrutte
fuggir così dinanzi ad
un ch´al passo
passava Stige con le
piante asciutte.
Dal volto rimovea quell´
aere grasso,
lo la sinistra innanzi
spesso;
e sol di quell´
angoscia parea lasso.
Ben m´accorsi ch´elli
era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e
quei fé segno
ch´i´ stessi queto ed
inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea
pien di disdegno!
Venne a la porta e con
una verghetta
l´aperse, che non v´ebbe
alcun ritegno.
"O cacciati del
ciel, gente dispetta",
cominciò elli in su l´orribil
soglia,
"ond´ esta
oltracotanza in voi s´alletta?
Perché recalcitrate a
quella voglia
a cui non puote il fin
mai esser mozzo,
e che più volte v´ha
cresciuta doglia?
Che giova ne le fata
dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben
vi ricorda,
ne porta ancor pelato
il mento e ´l gozzo".
Poi si rivolse per la
strada lorda,
e non fé motto a noi,
ma fé sembiante
d´omo cui altra cura
stringa e morda
che quella di colui che
li è davante;
e noi movemmo i piedi
inver´ la terra,
sicuri appresso le
parole sante.
Dentro li ´ntrammo sanz´
alcuna guerra;
e io, ch´avea di
riguardar disio
lizion che tal fortezza
serra,
com´ io fui dentro, l´occhio
intorno invio:
e veggio ad ogne man
grande campagna,
piena di duolo e di
tormento rio.
Sì come ad Arli, ove
Rodano stagna,
sì com´ a Pola, presso
del Carnaro
ch´Italia chiude e suoi
termini bagna,
fanno i sepulcri tutt´
il loco varo,
così facevan quivi d´ogne
parte,
salvo che ´l modo v´era
più amaro;
ché tra li avelli
fiamme erano sparte,
per le quali eran sì
del tutto accesi,
che ferro più non
chiede verun´ arte.
Tutti li lor coperchi
eran sospesi,
e fuor n´uscivan sì duri
lamenti,
che ben parean di
miseri e d´offesi.
E io: "Maestro,
quai son quelle genti
che, seppellite dentro
da quell´ arche,
si fan sentir coi
sospiri dolenti?".
E quelli a me:
"Qui son li eresïarche
con lor seguaci, d´ogne
setta, e molto
più che non credi son
le tombe carche.
Simile qui con simile è
sepolto,
e i monimenti son più e
men caldi".
E poi ch´a la man
destra si fu vòlto,
passammo tra i martìri
e li alti spaldi.
Ora sen va per un
secreto calle,
tra ´l muro de la terra
e li martìri,
lo mio maestro, e io
dopo le spalle.
"O virtù somma,
che per li empi giri
mi volvi",
cominciai, "com´ a te piace,
parlami, e sodisfammi a´
miei disiri.
La gente che per li
sepolcri giace
potrebbesi veder? già
son levati
tutt´ i coperchi, e
nessun guardia face".
E quelli a me:
"Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui
torneranno
coi corpi che là sù
hanno lasciati.
Suo cimitero da questa
parte hanno
con Epicuro tutti suoi
seguaci,
che l´anima col corpo morta
fanno.
Però a la dimanda che
mi faci
quinc´ entro satisfatto
sarà tosto,
e al disio ancor che tu
mi taci".
E io: "Buon duca,
non tegno riposto
a te mio cuor se non
per dicer poco,
e tu m´hai non pur mo a
ciò disposto".
"O Tosco che per la
città del foco
vivo ten vai così
parlando onesto,
piacciati di restare in
questo loco.
La tua loquela ti fa
manifesto
di quella nobil patrïa
natio,
a la qual forse fui
troppo molesto".
Subitamente questo
suono uscìo
d´una de l´arche; però
m´accostai,
temendo, un poco più al
duca mio.
Ed el mi disse:
"Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s´è
dritto:
da la cintola in sù
tutto ´l vedrai".
Io avea già il mio viso
nel suo fitto;
ed el s´ergea col petto
e con la fronte
com´ avesse l´inferno a
gran dispitto.
E l´animose man del
duca e pronte
mi pinser tra le
sepulture a lui,
dicendo: "Le
parole tue sien conte".
Com´ io al piè de la
sua tomba fui,
guardommi un poco, e
poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: "Chi
fuor li maggior tui?".
Io ch´era d´ubidir
disideroso,
non gliel celai, ma
tutto gliel´ apersi;
ond´ ei levò le ciglia
un poco in suso;
poi disse:
"Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a
mia parte,
sì che per due fïate li
dispersi".
"S´ei fur
cacciati, ei tornar d´ogne parte",
rispuos´ io lui,
"l´una e l´altra fïata;
ma i vostri non
appreser ben quell´ arte".
Allor surse a la vista
scoperchiata
un´ombra, lungo questa,
infino al mento:
credo che s´era in
ginocchie levata.
Dintorno mi guardò,
come talento
avesse di veder s´altri
era meco;
e poi che ´l sospecciar
fu tutto spento,
piangendo disse:
"Se per questo cieco
carcere vai per altezza
d´ingegno,
mio figlio ov´ è? e
perché non è teco?".
E io a lui: "Da me
stesso non vegno:
colui ch´attende là,
per qui mi mena
forse cui Guido vostro
ebbe a disdegno".
Le sue parole e ´l modo
de la pena
m´avean di costui già
letto il nome;
però fu la risposta così
piena.
Di sùbito drizzato gridò:
"Come?
dicesti "elli
ebbe"? non viv´ elli ancora?
non fiere li occhi suoi
lo dolce lume?".
Quando s´accorse d´alcuna
dimora
ch´io facëa dinanzi a
la risposta,
supin ricadde e più non
parve fora.
Ma quell´ altro
magnanimo, a cui posta
restato m´era, non mutò
aspetto,
né mosse collo, né piegò
sua costa;
e sé continüando al
primo detto,
"S´elli han quell´
arte", disse, "male appresa,
ciò mi tormenta più che
questo letto.
Ma non cinquanta volte
fia raccesa
la faccia de la donna
che qui regge,
che tu saprai quanto
quell´ arte pesa.
E se tu mai nel dolce
mondo regge,
perché quel popolo è sì
empio
incontr´ a´ miei in
ciascuna sua legge?".
Ond´ io a lui: "Lo
strazio e ´l grande scempio
che fece l´Arbia
colorata in rosso,
tal orazion fa far nel
nostro tempio".
Poi ch´ebbe sospirando
il capo mosso,
"A ciò non fu´ io
sol", disse, "né certo
sanza cagion con li
altri sarei mosso.
Ma fu´ io solo, là dove
sofferto
fu per ciascun di tòrre
via Fiorenza,
colui che la difesi a
viso aperto".
"Deh, se riposi
mai vostra semenza",
prega´ io lui,
"solvetemi quel nodo
che qui ha ´nviluppata
mia sentenza.
El par che voi
veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ´l
tempo seco adduce,
e nel presente tenete
altro modo".
"Noi veggiam, come
quei c´ha mala luce,
le cose", disse,
"che ne son lontano;
cotanto ancor ne
splende il sommo duce.
quando s´appressano o
son, tutto è vano
nostro intelletto; e s´altri
non ci apporta,
nulla sapem di vostro
stato umano.
Però comprender puoi
che tutta morta
fia nostra conoscenza
da quel punto
che del futuro fia
chiusa la porta".
Allor, come di mia
colpa compunto,
dissi: "Or direte
dunque a quel caduto
che ´l suo nato è co´
vivi ancor congiunto;
e s´i´ fui, dianzi, a
la risposta muto,
fate i saper che ´l fei
perché pensava
già ne l´error che m´avete
soluto".
E già ´l maestro mio mi
richiamava;
per ch´i´ pregai lo
spirto più avaccio
che mi dicesse chi con
lu´ istava.
Dissemi: "Qui con
più di mille giaccio:
qua dentro è ´l secondo
Federico
e ´l Cardinale; e de li
altri mi taccio".
Indi s´ascose; e io
inver´ l´antico
poeta volsi i passi,
ripensando
a quel parlar che mi
parea nemico.
Elli si mosse; e poi,
così andando,
mi disse: "Perché
se´ tu sì smarrito?".
E io li sodisfeci al
suo dimando.
"La mente tua
conservi quel ch´udito
hai contra te", mi
comandò quel saggio;
"e ora attendi
qui", e drizzò ´l dito:
"quando sarai
dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell´
occhio tutto vede,
da lei saprai di tua
vita il vïaggio".
Appresso mosse a man
sinistra il piede:
lasciammo il muro e
gimmo inver´ lo mezzo
per un sentier ch´a una
valle fiede,
che ´nfin là sù facea
spiacer suo lezzo.
In su l´estremità d´un´alta
ripa
che facevan gran pietre
rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele
stipa;
e quivi, per l´orribile
soperchio
del puzzo che ´l
profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in
dietro, ad un coperchio
d´un grand´ avello, ov´
io vidi una scritta
che dicea:
`Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de
la via dritta´.
"Lo nostro scender
conviene esser tardo,
sì che s´ausi un poco
in prima il senso
al tristo fiato; e poi
no i fia riguardo".
Così ´l maestro; e io
"Alcun compenso",
dissi lui, "trova
che ´l tempo non passi
perduto". Ed elli:
"Vedi ch´a ciò penso".
"Figliuol mio,
dentro da cotesti sassi",
cominciò poi a dir,
"son tre cerchietti
di grado in grado, come
que´ che lassi.
Tutti son pien di
spirti maladetti;
ma perché poi ti basti
pur la vista,
intendi come e perché
son costretti.
D´ogne malizia, ch´odio
in cielo acquista,
ingiuria è ´l fine, ed
ogne fin cotale
o con forza o con frode
altrui contrista.
Ma perché frode è de l´uom
proprio male,
più spiace a Dio; e però
stan di sotto
li frodolenti, e più
dolor li assale.
Di vïolenti il primo
cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a
tre persone,
in tre gironi è
distinto e costrutto.
A Dio, a sé, al
prossimo si pòne
far forza, dico in loro
e in lor cose,
come udirai con aperta
ragione.
Morte per forza e
ferute dogliose
nel prossimo si danno,
e nel suo avere
ruine, incendi e
tollette dannose;
onde omicide e ciascun
che mal fiere,
guastatori e predon,
tutti tormenta
lo giron primo per
diverse schiere.
Puote omo avere in sé
man vïolenta
e ne´ suoi beni; e però
nel secondo
giron convien che sanza
pro si penta
qualunque priva sé del
vostro mondo,
biscazza e fonde la sua
facultade,
e piange là dov´ esser
de´ giocondo.
Puossi far forza ne la
deïtade,
col cor negando e
bestemmiando quella,
e spregiando natura e
sua bontade;
e però lo minor giron
suggella
del segno suo e Soddoma
e Caorsa
e chi, spregiando Dio
col cor, favella.
La frode, ond´ ogne
coscïenza è morsa,
può l´omo usare in
colui che ´n lui fida
e in quel che fidanza
non imborsa.
Questo modo di retro
par ch´incida
pur lo vinco d´amor che
fa natura;
onde nel cerchio
secondo s´annida
ipocresia, lusinghe e
chi affattura,
falsità, ladroneccio e
simonia,
ruffian, baratti e
simile lordura.
Per l´altro modo quell´
amor s´oblia
che fa natura, e quel
ch´è poi aggiunto,
di che la fede spezïal
si cria;
onde nel cerchio
minore, ov´ è ´l punto
de l´universo in su che
Dite siede,
qualunque trade in
etterno è consunto".
E io: "Maestro,
assai chiara procede
la tua ragione, e assai
ben distingue
questo baràtro e ´l
popol ch´e´ possiede.
Ma dimmi: quei de la
palude pingue,
che mena il vento, e
che batte la pioggia,
e che s´incontran con sì
aspre lingue,
perché non dentro da la
città roggia
sono ei puniti, se Dio
li ha in ira?
e se non li ha, perché
sono a tal foggia?".
Ed elli a me
"Perché tanto delira",
disse, "lo ´ngegno
tuo da quel che sòle?
ovver la mente dove
altrove mira?
Non ti rimembra di
quelle parole
con le quai la tua
Etica pertratta
le tre disposizion che ´l
ciel non vole,
incontenenza, malizia e
la matta
bestialitade? e come
incontenenza
men Dio offende e men
biasimo accatta?
Se tu riguardi ben
questa sentenza,
e rechiti a la mente
chi son quelli
che sù di fuor
sostegnon penitenza,
tu vedrai ben perché da
questi felli
sien dipartiti, e perché
men crucciata
la divina vendetta li
martelli".
"O sol che sani
ogne vista turbata,
tu mi contenti sì
quando tu solvi,
che, non men che saver,
dubbiar m´aggrata.
Ancora in dietro un
poco ti rivolvi",
diss´ io, "là dove
di´ ch´usura offende
la divina bontade, e ´l
groppo solvi".
"Filosofia",
mi disse, "a chi la ´ntende,
nota non pure in una
sola parte,
come natura lo suo
corso prende
dal divino ´ntelletto e
da sua arte;
e se tu ben la tua
Fisica note,
tu troverai, non dopo
molte carte,
che l’arte vostra
quella, quanto pote,
segue, come ´l maestro
fa ´l discente;
sì che vostr´ arte a
Dio quasi è nepote.
Da queste due, se tu ti
rechi a mente
lo Genesì dal
principio, convene
prender sua vita e
avanzar la gente;
e perché l´usuriere
altra via tene,
per sé natura e per la
sua seguace
dispregia, poi ch´in
altro pon la spene.
Ma seguimi oramai che ´l
gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su
per l´orizzonta,
e ´l Carro tutto sovra ´l
Coro giace,
e ´l balzo via là oltra
si dismonta".
Era lo loco ov´ a
scender la riva
venimmo, alpestro e,
per quel che v´er´ anco,
tal, ch´ogne vista ne
sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che
nel fianco
di qua da Trento l´Adice
percosse,
o per tremoto o per
sostegno manco,
che da cima del monte,
onde si mosse,
al piano è sì la roccia
discoscesa,
ch´alcuna via darebbe a
chi sù fosse:
cotal di quel burrato
era la scesa;
e ´n su la punta de la
rotta lacca
l´infamïa di Creti era
distesa
che fu concetta ne la
falsa vacca;
e quando vide noi, sé
stesso morse,
sì come quei cui l´ira
dentro fiacca.
Lo savio mio inver´ lui
gridò: "Forse
tu credi che qui sia ´l
duca d´Atene,
che sù nel mondo la
morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, ché
questi non vene
ammaestrato da la tua
sorella,
ma vassi per veder le
vostre pene".
Qual è quel toro che si
slaccia in quella
c´ha ricevuto già ´l
colpo mortale,
che gir non sa, ma qua
e là saltella,
vid´ io lo Minotauro
far cotale;
e quello accorto gridò:
"Corri al varco;
mentre ch´e´ ´nfuria, è
buon che tu ti cale".
Così prendemmo via giù
per lo scarco
di quelle pietre, che
spesso moviensi
sotto i miei piedi per
lo novo carco.
Io gia pensando; e quei
disse: "Tu pensi
forse a questa ruina,
ch´è guardata
da quell´ ira bestial
ch´i´ ora spensi.
Or vo´ che sappi che l´altra
fïata
ch´i´ discesi qua giù
nel basso inferno,
questa roccia non era
ancor cascata.
Ma certo poco pria, se
ben discerno,
che venisse colui che
la gran preda
levò a Dite del cerchio
superno,
da tutte parti l´alta
valle feda
tremò sì, ch´i´ pensai
che l´universo
sentisse amor, per lo
qual è chi creda
più volte il mondo in
caòsso converso;
e in quel punto questa
vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece
riverso.
Ma ficca li occhi a
valle, ché s´approccia
la riviera del sangue
in la qual bolle
qual che per vïolenza
in altrui noccia".
Oh cieca cupidigia e
ira folle,
che sì ci sproni ne la
vita corta,
e ne l´etterna poi sì
mal c´immolle!
Io vidi un´ampia fossa
in arco torta,
come quella che tutto ´l
piano abbraccia,
secondo ch´avea detto
la mia scorta;
e tra ´l piè de la ripa
ed essa, in traccia
corrien centauri,
armati di saette,
come solien nel mondo
andare a caccia.
Veggendoci calar,
ciascun ristette,
e de la schiera tre si
dipartiro
con archi e asticciuole
prima elette;
e l´un gridò da lungi:
"A qual martiro
venite voi che scendete
la costa?
Ditel costinci; se non,
l´arco tiro".
Lo mio maestro disse:
"La risposta
farem noi a Chirón costà
di presso:
mal fu la voglia tua
sempre sì tosta".
Poi mi tentò, e disse:
"Quelli è Nesso,
che morì per la bella
Deianira,
e fé di sé la vendetta
elli stesso.
E quel di mezzo, ch´al
petto si mira,
è il gran Chirón, il
qual nodrì Achille;
quell´ altro è Folo,
che fu sì pien d´ira.
D’intorno al fosso
vanno a mille a mille,
saettando qual anima si
svelle
del sangue più che sua
colpa sortille".
Noi ci appressammo a
quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno
strale, e con la cocca
fece la barba in dietro
a le mascelle.
Quando s´ebbe scoperta
la gran bocca,
disse a´ compagni:
"Siete voi accorti
che quel di retro move
ciò ch´el tocca?
Così non soglion far li
piè d´i morti".
E il mio buon duca, che
già li er´ al petto,
dove le due nature son
consorti,
rispuose: "Ben è
vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien
la valle buia;
necessità ´l ci ´nduce,
e non diletto.
Tal si partì da cantare
alleluia
che mi commise quest´
officio novo:
non è ladron, né io
anima fuia.
Ma per quella virtù per
cu´ io movo
li passi miei per sì
selvaggia strada,
dànne un de´ tuoi, a
cui noi siamo a provo,
e che ne mostri là dove
si guada,
e che porti costui in
su la groppa,
ché non è spirto che
per l´aere vada".
Chirón si volse in su
la destra poppa,
e disse a Nesso:
"Torna, e sì li guida,
e fa cansar s´altra
schiera v´intoppa".
Or ci movemmo con la
scorta fida
lungo la proda del
bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno
alte strida.
lo vidi gente sotto
infino al ciglio;
e ´l gran centauro
disse: "E´ son tiranni
che dier nel sangue e
ne l´aver di piglio.
Quivi si piangon li
spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio
fero
che fe ´ Cicilia aver
dolorosi anni.
E quella fronte c´ha ´l
pel così nero,
è Azzolino; e quell´
altro ch´è biondo,
è Opizzo da Esti, il
qual per vero
fu spento dal
figliastro sù nel mondo".
Allor mi volsi al
poeta, e quei disse:
"Questi ti sia or
primo, e io secondo".
Poco più oltre il centauro
s´affisse
sovr´ una gente che ´nfino
a la gola
parea che di quel
bulicame uscisse.
Mostrocci un´ombra da l´un
canto sola,
dicendo: "Colui
fesse in grembo a Dio
lo cor che ´n su Tamisi
ancor si cola".
Poi vidi gente che di
fuor del rio
tenean la testa e ancor
tutto ´l casso;
e di costoro assai
riconobb´ io.
Così a più a più si
facea basso
quel sangue, sì che
cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso
il nostro passo.
"Sì come tu da
questa parte vedi
lo bulicame che sempre
si scema",
disse ´l centauro,
"voglio che tu credi
che da quest´ altra a
più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch´el
si raggiunge
ove la tirannia convien
che gema.
La divina giustizia di
qua punge
quell´ Attila che fu
flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in
etterno munge
le lagrime, che col
bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a
Rinier Pazzo,
che fecero a le strade
tanta guerra".
Poi si rivolse e
ripassossi ´l guazzo.
Non era ancor di là
Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo
per un bosco
che da neun sentiero
era segnato.
Non fronda verde, ma di
color fosco;
non rami schietti, ma
nodosi e ´nvolti;
non pomi v´eran, ma
stecchi con tòsco.
Non han sì aspri sterpi
né sì folti
quelle fiere selvagge
che ´n odio hanno
tra Cecina e Corneto i
luoghi cólti.
Quivi le brutte Arpie
lor nidi fanno,
che cacciar de le
Strofade i Troiani
con tristo annunzio di
futuro danno.
Ali hanno late, e colli
e visi umani,
piè con artigli, e
pennuto ´l gran ventre;
fanno lamenti in su li
alberi strani.
E ´l buon maestro
"Prima che più entre,
sappi che se´ nel
secondo girone",
mi cominciò a dire,
"e sarai mentre
che tu verrai ne l´orribil
sabbione.
Però riguarda ben; sì
vederai
cose che torrien fede
al mio sermone".
Io sentia d´ogne parte
trarre guai
e non vedea persona che
´l facesse;
per ch´io tutto
smarrito m´arrestai.
Cred´ ïo ch´ei credette
ch´io credesse
che tante voci
uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si
nascondesse.
Però disse ´l maestro:
"Se tu tronchi
qualche fraschetta d´una
d´este piante,
li pensier c´hai si
faran tutti monchi".
Allor porsi la mano un
poco avante
e colsi un ramicel da
un gran pruno;
e ´l tronco suo gridò:
"Perché mi schiante?".
Da che fatto fu poi di
sangue bruno,
ricominciò a dir:
"Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di
pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam
fatti sterpi:
ben dovrebb´ esser la
tua man più pia,
se state fossimo anime
di serpi".
Come d´un stizzo verde
ch´arso sia
da l´un de´ capi, che
da l´altro geme
e cigola per vento che
va via,
sì de la scheggia rotta
usciva insieme
parole e sangue; ond´
io lasciai la cima
cadere, e stetti come l´uom
che teme.
"S´elli avesse
potuto creder prima",
rispuose ´l savio mio,
"anima lesa,
ciò c´ha veduto pur con
la mia rima,
non averebbe in te la
man distesa;
ma la cosa incredibile
mi fece
indurlo ad ovra ch´a me
stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti,
sì che ´n vece
d´alcun´ ammenda tua
fama rinfreschi
nel mondo sù, dove
tornar li lece".
E ´l tronco: "Sì
col dolce dir m´adeschi,
ch´i´ non posso tacere;
e voi non gravi
perch´ ïo un poco a
ragionar m´inveschi.
Io son colui che tenni
ambo le chiavi
del cor di Federigo, e
che le volsi,
serrando e diserrando,
sì soavi,
che dal secreto suo
quasi ogn´ uom tolsi;
fede portai al glorïoso
offizio,
tanto ch´i´ ne perde´
li sonni e ´ polsi.
La meretrice che mai da
l´ospizio
di Cesare non torse li
occhi putti,
morte comune e de le
corti vizio,
infiammò contra me li
animi tutti;
e gli ínfiammati
infiammar sì Augusto,
che ´ lieti onor
tornaro in tristi lutti.
L´animo mio, per
disdegnoso gusto,
credendo col morir
fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra
me giusto.
Per le nove radici d´esto
legno
vi giuro che già mai
non ruppi fede
al mio segnor, che fu d´onor
sì degno.
E se di voi alcun nel
mondo riede,
conforti la memoria
mia, che giace
ancor del colpo che ´nvidia
le diede".
Un poco attese, e poi
"Da ch´el si tace",
disse ´l poeta a me,
"non perder l´ora;
ma parla, e chiedi a
lui, se più ti piace".
Ond´ ïo a lui:
"Domandal tu ancora
di quel che credi ch´a
me satisfaccia;
ch´i´ non potrei, tanta
pietà m´accora".
Perciò ricominciò:
"Se l´om ti faccia
liberamente ciò che ´l
tuo dir priega,
spirito incarcerato,
ancor ti piaccia
di dirne come l´anima
si lega
in questi nocchi; e
dinne, se tu puoi,
s´alcuna mai di tai
membra si spiega".
Allor soffiò il tronco
forte, e poi
si convertì quel vento
in cotal voce:
"Brievemente sarà
risposto a voi.
Quando si parte l´anima
feroce
dal corpo ond´ ella
stessa s´è disvelta,
Minòs la manda a la
settima foce.
Cade in la selva, e non
l´è parte scelta;
ma là dove fortuna la
balestra,
quivi germoglia come
gran di spelta.
Surge in vermena e in
pianta silvestra:
l´Arpie, pascendo poi
de le sue foglie,
fanno dolore, e al
dolor fenestra.
Come l’altre verrem per
nostre spoglie,
ma non però ch´alcuna
sen rivesta,
ché non è giusto aver
ciò ch´om si toglie.
Qui le strascineremo, e
per la mesta
selva saranno i nostri
corpi appesi,
ciascuno al prun de l´ombra
sua molesta".
Noi eravamo ancora al
tronco attesi,
credendo ch´altro ne
volesse dire,
quando noi fummo d´un
romor sorpresi,
similemente a colui che
venire
sente ´l porco e la
caccia a la sua posta,
ch´ode le bestie, e le
frasche stormire.
Ed ecco due da la
sinistra costa,
nudi e graffiati,
fuggendo sì forte,
che de la selva
rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: "Or
accorri, accorri, morte!".
E l´altro, cui pareva tardar
troppo,
gridava: "Lano, sì
non furo accorte
le gambe tue a le
giostre dal Toppo!".
E poi che forse li
fallia la lena,
di sé e d´un cespuglio
fece un groppo.
Di rietro a loro era la
selva piena
di nere cagne, bramose
e correnti
come veltri ch´uscisser
di catena.
In quel che s´appiattò
miser li denti,
e quel dilaceraro a
brano a brano;
poi sen portar quelle
membra dolenti.
Presemi allor la mia
scorta per mano,
e menommi al cespuglio
che piangea
per le rotture
sanguinenti in vano.
"O Iacopo",
dicea, "da Santo Andrea,
che t´è giovato di me
fare schermo?
che colpa ho io de la
tua vita rea?".
Quando ´l maestro fu
sovr´ esso fermo,
disse: "Chi fosti,
che per tante punte
soffi con sangue
doloroso sermo?".
Ed elli a noi: "O anime
che giunte
siete a veder lo
strazio disonesto
c´ha le mie fronde sì
da me disgiunte,
raccoglietele al piè
del tristo cesto.
I´ fui de la città che
nel Batista
mutò ´l primo padrone;
ond´ ei per questo
sempre con l´arte sua
la farà trista;
e se non fosse che ´n
sul passo d´Arno
rimane ancor di lui
alcuna vista,
que´ cittadin che poi
la rifondarno
sovra ´l cener che d´Attila
rimase,
avrebber fatto lavorare
indarno.
Io fei gibetto a me de
le mie case".
Poi che la carità del
natio loco
mi strinse, raunai le
fronde sparte
e rende´le a colui, ch´era
già fioco.
Indi venimmo al fine
ove si parte
lo secondo giron dal
terzo, e dove
si vede di giustizia
orribil arte.
A ben manifestar le
cose nove,
dico che arrivammo ad
una landa
che dal suo letto ogne
pianta rimove.
La dolorosa selva l´è
ghirlanda
intorno, come ´l fosso
tristo ad essa;
quivi fermammo i passi
a randa a randa.
Lo spazzo era una rena
arida e spessa,
non d´altra foggia
fatta che colei
che fu da´ piè di Caton
già soppressa.
O vendetta di Dio,
quanto tu dei
esser temuta da ciascun
che legge
ciò che fu manifesto a
li occhi mei!
D´anime nude vidi molte
gregge
che piangean tutte
assai miseramente,
e parea posta lor
diversa legge.
Supin giacea in terra
alcuna gente,
alcuna si sedea tutta
raccolta,
e altra andava continüamente.
Quella che giva ´ntorno
era più molta,
e quella men che giacëa
al tormento,
ma più al duolo avea la
lingua sciolta.
Sovra tutto ´l sabbion,
d´un cader lento,
piovean di foco
dilatate falde,
come di neve in alpe
sanza vento.
Quali Alessandro in
quelle parti calde
d´Indïa vide sopra ´l süo
stuolo
fiamme cadere infino a
terra salde,
per ch´ei provide a
scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò
che lo vapore
mei si stingueva mentre
ch´era solo:
tale scendeva l´etternale
ardore;
onde la rena s´accendea,
com´ esca
sotto focile, a doppiar
lo dolore.
Sanza riposo mai era la
tresca
de le misere mani, or
quindi or quinci
escotendo da sé l´arsura
fresca.
I´ cominciai:
"Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che
´ demon duri
ch´a l´intrar de la
porta incontra uscinci,
chi è quel grande che
non par che curi
lo ´ncendio e giace
dispettoso e torto,
sì che la pioggia non
par che ´l marturi?".
E quel medesmo, che si
fu accorto
ch´io domandava il mio
duca di lui,
gridò: "Qual io
fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi ´l suo
fabbro da cui
crucciato prese la
folgore aguta
onde l´ultimo dì
percosso fui;
o s´elli stanchi li
altri a muta a muta
in Mongibello a la
focina negra,
chiamando "Buon
Vulcano, aiuta, aiuta!",
sì com´ el fece a la
pugna di Flegra,
e me saetti con tutta
sua forza:
non ne potrebbe aver
vendetta allegra".
Allora il duca mio parlò
di forza
tanto, ch´i´ non l´avea
sì forte udito:
"O Capaneo, in ciò
che non s´ammorza
la tua superbia, se´ tu
più punito;
nullo martiro, fuor che
la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor
dolor compito".
Poi si rivolse a me con
miglior labbia,
dicendo: "Quei fu
l´un d´i sette regi
ch´assiser Tebe; ed
ebbe e par ch´elli abbia
Dio in disdegno, e poco
par che ´l pregi;
ma, com´ io dissi lui,
li suoi dispetti
sono al suo petto assai
debiti fregi.
Or mi vien dietro, e
guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la
rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien
li piedi stretti".
Tacendo divenimmo là ´ve
spiccia
fuor de la selva un
picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi
raccapriccia.
Quale del Bulicame esce
ruscello
che parton poi tra lor
le peccatrici,
tal per la rena giù sen
giva quello.
Lo fondo suo e ambo le
pendici
fatt´ era ´n pietra, e ´
margini dallato;
per ch´io m´accorsi che
´l passo era lici.
"Tra tutto l´altro
ch´i´ t´ho dimostrato,
poscia che noi intrammo
per la porta
lo cui sogliare a
nessuno è negato,
cosa non fu da li tuoi
occhi scorta
notabile com´ è ´l
presente rio,
che sovra sé tutte
fiammelle ammorta".
Queste parole fuor del
duca mio;
per ch´io ´l pregai che
mi largisse ´l pasto
di cui largito m´avëa
il disio.
"In mezzo mar
siede un paese guasto",
diss´ elli allora,
"che s´appella Creta,
sotto ´l cui rege fu già
´l mondo casto.
Una montagna v´è che già
fu lieta
d´acqua e di fronde,
che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa
vieta.
Rëa la scelse già per
cuna fida
del suo figliuolo, e
per celarlo meglio,
quando piangea, vi
facea far le grida.
Dentro dal monte sta
dritto un gran veglio,
che tien volte le
spalle inver´ Dammiata
e Roma guarda come süo
speglio.
La sua testa è di fin
oro formata,
e puro argento son le
braccia e ´l petto,
poi è di rame infino a
la forcata;
da indi in giuso è
tutto ferro eletto,
salvo che ´l destro
piede è terra cotta;
e sta ´n su quel, più
che ´n su l´altro, eretto.
Ciascuna parte, fuor
che l´oro, è rotta
d´una fessura che
lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran
quella grotta.
Lor corso in questa
valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige
e Flegetonta;
poi sen van giù per
questa stretta doccia,
infin, là ove più non
si dismonta,
fanno Cocito; e qual
sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui
non si conta".
E io a lui: "Se ´l
presente rigagno
si diriva così dal
nostro mondo,
perché ci appar pur a
questo vivagno?".
Ed elli a me: "Tu
sai che ´l loco è tondo;
e tutto che tu sie
venuto molto,
pur a sinistra, giù
calando al fondo,
non se´ ancor per tutto
´l cerchio vòlto;
per che, se cosa n´apparisce
nova,
non de´ addur
maraviglia al tuo volto".
E io ancor:
"Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché
de l´un taci,
e l´altro di´ che si fa
d´esta piova".
"In tutte tue
question certo mi piaci",
rispuose, "ma ´l
bollor de l´acqua rossa
dovea ben solver l´una
che tu faci.
Letè vedrai, ma fuor di
questa fossa,
là dove vanno l´anime a
lavarsi
quando la colpa pentuta
è rimossa".
Poi disse: "Omai è
tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di
retro a me vegne:
li margini fan via, che
non son arsi,
e sopra loro ogne vapor
si spegne".
Ora cen porta l´un de´
duri margini;
e ´l fummo del ruscel
di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l´acqua
e li argini.
Quali Fiamminghi tra
Guizzante e Bruggia,
temendo ´l fiotto che ´nver´
lor s´avventa,
fanno lo schermo perché
´l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la
Brenta,
per difender lor ville
e lor castelli,
anzi che Carentana il
caldo senta:
a tale imagine eran
fatti quelli,
tutto che né sì alti né
sì grossi,
qual che si fosse, lo
maestro félli.
Già eravam da la selva
rimossi
tanto, ch´i´ non avrei
visto dov´ era,
perch´ io in dietro
rivolto mi fossi,
quando incontrammo d´anime
una schiera
che venian lungo l´argine,
e ciascuna
ci riguardava come suol
da sera
guardare uno altro
sotto nuova luna;
e sì ver´ noi aguzzavan
le ciglia
come ´l vecchio sartor
fa ne la cruna.
Così adocchiato da cotal
famiglia,
fui conosciuto da un,
che mi prese
per lo lembo e gridò:
"Qual maraviglia!".
E io, quando ´l suo
braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo
cotto aspetto,
sì che ´l viso
abbrusciato non difese
la conoscenza süa al
mio ´ntelletto;
e chinando la mano a la
sua faccia,
rispuosi: "Siete
voi qui, ser Brunetto?".
E quelli: "O
figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un
poco teco
ritorna ´n dietro e
lascia andar la traccia".
I´ dissi lui:
"Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi
m´asseggia,
faròl, se piace a
costui che vo seco".
"O figliuol",
disse, "qual di questa greggia
s´arresta punto, giace
poi cent´ anni
sanz´ arrostarsi quando
´l foco il feggia.
Però va oltre: i´ ti
verrò a´ panni;
e poi rigiugnerò la mia
masnada,
che va piangendo i suoi
etterni danni".
Io non osava scender de
la strada
per andar par di lui;
ma ´l capo chino
tenea com´ uom che
reverente vada.
El cominciò: "Qual
fortuna o destino
anzi l´ultimo dì qua giù
ti mena?
e chi è questi che
mostra ´l cammino?".
"Là sù di sopra,
in la vita serena",
rispuos´ io lui,
"mi smarri´ in una valle,
avanti che l´età mia
fosse piena.
Pur ier mattina le
volsi le spalle:
questi m´apparve,
tornand´ ïo in quella,
e reducemi a ca per
questo calle".
Ed elli a me: "Se
tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso
porto,
se ben m´accorsi ne la
vita bella;
e s´io non fossi sì per
tempo morto,
veggendo il cielo a te
così benigno,
dato t´avrei a l´opera
conforto.
Ma quello ingrato
popolo maligno
che discese di Fiesole
ab antico,
e tiene ancor del monte
e del macigno,
ti si farà, per tuo ben
far, nimico;
ed è ragion, ché tra li
lazzi sorbi
si disconvien fruttare
al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo
li chiama orbi;
gent´ è avara,
invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che
tu ti forbi.
La tua fortuna tanto
onor ti serba,
che l´una parte e l´altra
avranno fame
di te; ma lungi fia dal
becco l´erba.
Faccian le bestie
fiesolane strame
di lor medesme, e non
tocchin la pianta,
s´alcuna surge ancora
in lor letame,
in cui riviva la
sementa santa
di que´ Roman che vi
rimaser quando
fu fatto il nido di
malizia tanta".
"Se fosse tutto
pieno il mio dimando",
rispuos´ io lui,
"voi non sareste ancora
de l´umana natura posto
in bando;
ché ´n la mente m´è
fitta, e or m´accora,
la cara e buona imagine
paterna
di voi quando nel mondo
ad ora ad ora
m´insegnavate come l´uom
s´etterna:
e quant´ io l´abbia in
grado, mentr´ io vivo
convien che ne la mia lingua
si scerna.
Ciò che narrate di mio
corso scrivo,
e serbolo a chiosar con
altro testo
a donna che saprà, s´a
lei arrivo.
Tanto vogl´ io che vi
sia manifesto,
pur che mia coscïenza
non mi garra,
ch´a la Fortuna, come
vuol, son presto.
Non è nuova a li
orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la
sua rota
come le piace, e ´l
villan la sua marra".
Lo mio maestro allora
in su la gota
destra si volse in
dietro e riguardommi;
poi disse: "Bene
ascolta chi la nota".
Né per tanto di men
parlando vommi
con ser Brunetto, e
dimando chi sono
li suoi compagni più
noti e più sommi.
Ed elli a me:
"Saper d´alcuno è buono;
de li altri fia
laudabile tacerci,
ché ´l tempo saria
corto a tanto suono.
In somma sappi che
tutti fur cherci
e litterati grandi e di
gran fama,
d´un peccato medesmo al
mondo lerci.
Priscian sen va con
quella turba grama,
e Francesco d´Accorso
anche; e vedervi,
s´avessi avuto di tal
tigna brama,
colui potei che dal
servo de´ servi
fu trasmutato d´Arno in
Bacchiglione,
dove lasciò li mal
protesi nervi.
Di più direi; ma ´l
venire e ´l sermone
più lungo esser non può,
però ch´i´ veggio
là surger nuovo fummo
del sabbione.
Gente vien con la quale
esser non deggio.
Sieti raccomandato il
mio Tesoro,
nel qual io vivo
ancora, e più non cheggio".
Poi si rivolse, e parve
di coloro
che corrono a Verona il
drappo verde
per la campagna; e
parve di costoro
quelli che vince, non
colui che perde.
Già era in loco onde s´udia
´l rimbombo
de l´acqua che cadea ne
l´altro giro,
simile a quel che l´arnie
fanno rombo,
quando tre ombre
insieme si partiro,
correndo, d´una torma
che passava
sotto la pioggia de l´aspro
martiro.
Venian ver´ noi, e
ciascuna gridava:
"Sòstati tu ch´a l´abito
ne sembri
esser alcun di nostra
terra prava".
Ahimè, che piaghe vidi
ne´ lor membri,
ricenti e vecchie, da
le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch´i´
me ne rimembri.
A le lor grida il mio
dottor s´attese;
volse ´l viso ver´ me,
e "Or aspetta",
disse, "a costor
si vuole esser cortese.
E se non fosse il foco
che saetta
la natura del loco, i´
dicerei
che meglio stesse a te
che a lor la fretta".
Ricominciar, come noi
restammo, ei
l´antico verso; e
quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé
tutti e trei.
Qual sogliono i campion
far nudi e unti,
avvisando lor presa e
lor vantaggio,
prima che sien tra lor
battuti e punti,
così rotando, ciascuno
il visaggio
drizzava a me, sì che ´n
contraro il collo
faceva ai piè continüo
vïaggio.
E "Se miseria d´esto
loco sollo
rende in dispetto noi e
nostri prieghi",
cominciò l´uno, "e
´l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo
animo pieghi
a dirne chi tu se´, che
i vivi piedi
così sicuro per lo ´nferno
freghi.
Questi, l´orme di cui
pestar mi vedi,
tutto che nudo e
dipelato vada,
fu di grado maggior che
tu non credi:
nepote fu de la buona
Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome,
e in sua vita
fece col senno assai e
con la spada.
L´altro, ch´appresso me
la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi,
la cui voce
nel mondo sù dovria
esser gradita.
E io, che posto son con
loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui,
e certo
la fiera moglie più ch´altro
mi nuoce".
S´i´ fossi stato dal
foco coperto,
gittato mi sarei tra
lor di sotto,
e credo che ´l dottor l´avria
sofferto;
ma perch´ io mi sarei
brusciato e cotto,
vinse paura la mia
buona voglia
che di loro abbracciar
mi facea ghiotto.
Poi cominciai:
"Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion
dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta
si dispoglia,
tosto che questo mio
segnor mi disse
parole per le quali i´
mi pensai
che qual voi siete, tal
gente venisse.
Di vostra terra sono, e
sempre mai
l´ovra di voi e li
onorati nomi
con affezion ritrassi e
ascoltai.
Lascio lo fele e vo per
dolci pomi
promessi a me per lo
verace duca;
ma ´nfino al centro
pria convien ch´i´ tomi".
"Se lungamente l´anima
conduca
le membra tue",
rispuose quelli ancora,
"e se la fama tua
dopo te luca,
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì
come suole,
o se del tutto se n´è
gita fora;
ché Guiglielmo
Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là
coi compagni,
assai ne cruccia con le
sue parole".
"La gente nuova e
i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura
han generata,
Fiorenza, in te, sì che
tu già ten piagni".
Così gridai con la
faccia levata;
e i tre, che ciò
inteser per risposta,
guardar l´un l´altro
com´ al ver si guata.
"Se l´altre volte
sì poco ti costa",
rispuoser tutti,
"il satisfare altrui,
felice te se sì parli a
tua posta!
Però, se campi d´esti
luoghi bui
e torni a riveder le
belle stelle,
quando ti gioverà
dicere "I´ fui",
fa che di noi a la
gente favelle".
Indi rupper la rota, e
a fuggirsi
ali sembiar le gambe
loro isnelle.
Un amen non saria
possuto dirsi
tosto così com´ e´
fuoro spariti;
per ch´al maestro parve
di partirsi.
Io lo seguiva, e poco
eravam iti,
che ´l suon de l´acqua
n´era sì vicino,
che per parlar saremmo
a pena uditi.
Come quel fiume c´ha
proprio cammino
prima dal Monte Viso ´nver´
levante,
da la sinistra costa d´Apennino,
che si chiama
Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel
basso letto,
e a Forlì di quel nome è
vacante,
rimbomba là sovra San
Benedetto
de l´Alpe per cadere ad
una scesa
ove dovea per mille
esser recetto;
così, giù d´una ripa
discoscesa,
trovammo risonar quell´
acqua tinta,
sì che ´n poc´ ora
avria l´orecchia offesa.
Io avea una corda
intorno cinta,
e con essa pensai
alcuna volta
prender la lonza a la
pelle dipinta.
Poscia ch´io l´ebbi
tutta da me sciolta,
sì come ´l duca m´avea
comandato,
porsila a lui
aggroppata e ravvolta.
Ond´ ei si volse inver´
lo destro lato,
e alquanto di lunge da
la sponda
la gittò giuso in quell´
alto burrato.
`E´ pur
convien che novità risponda´,
dicea fra me medesmo,
`al novo cenno
che ´l maestro con l´occhio
sì seconda´.
Ahi quanto cauti li
uomini esser dienno
presso a color che non
veggion pur l´ovra,
ma per entro i pensier
miran col senno!
El disse a me:
"Tosto verrà di sovra
ciò ch´io attendo e che
il tuo pensier sogna;
tosto convien ch´al tuo
viso si scovra".
Sempre a quel ver c´ha
faccia di menzogna
de´ l´uom chiuder le
labbra fin ch´el puote,
però che sanza colpa fa
vergogna;
ma qui tacer nol posso;
e per le note
di questa comedìa,
lettor, ti giuro,
s´elle non sien di
lunga grazia vòte,
ch´i´ vidi per quell´
aere grosso e scuro
venir notando una
figura in suso,
maravigliosa ad ogne
cor sicuro,
sì come torna colui che
va giuso
talora a solver l´àncora
ch´aggrappa
o scoglio o altro che
nel mare è chiuso,
che ´n sù si stende e
da piè si rattrappa.
"Ecco la fiera con
la coda aguzza,
che passa i monti e
rompe i muri e l´armi!
Ecco colei che tutto ´l
mondo appuzza!".
Sì cominciò lo mio duca
a parlarmi;
e accennolle che
venisse a proda,
vicino al fin d´i
passeggiati marmi.
E quella sozza imagine
di froda
sen venne, e arrivò la
testa e ´l busto,
ma ´n su la riva non
trasse la coda.
La faccia sua era
faccia d´uom giusto,
tanto benigna avea di
fuor la pelle,
e d´un serpente tutto l´altro
fusto;
due branche avea pilose
insin l´ascelle;
lo dosso e ´l petto e
ambedue le coste
dipinti avea di nodi e
di rotelle.
Con più color, sommesse
e sovraposte
non fer mai drappi
Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per
Aragne imposte.
Come talvolta stanno a
riva i burchi,
che parte sono in acqua
e parte in terra,
e come là tra li
Tedeschi lurchi
lo bivero s´assetta a far
sua guerra,
così la fiera pessima
si stava
su l´orlo ch´è di
pietra e ´l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda
guizzava,
torcendo in sù la
venenosa forca
ch´a guisa di scorpion
la punta armava.
Lo duca disse: "Or
convien che si torca
la nostra via un poco
insino a quella
bestia malvagia che colà
si corca".
Però scendemmo a la
destra mammella,
e diece passi femmo in
su lo stremo,
per ben cessar la rena
e la fiammella.
E quando noi a lei
venuti semo,
poco più oltre veggio
in su la rena
gente seder propinqua
al loco scemo.
Quivi ´l maestro
"Acciò che tutta piena
esperïenza d´esto giron
porti",
mi disse, "va, e
vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti
sian là corti;
mentre che torni,
parlerò con questa,
che ne conceda i suoi
omeri forti".
Così ancor su per la
strema testa
di quel settimo cerchio
tutto solo
andai, dove sedea la
gente mesta.
Per li occhi fora
scoppiava lor duolo;
di qua, di là
soccorrien con le mani
quando a´ vapori, e
quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di
state i cani
or col ceffo or col piè,
quando son morsi
o da pulci o da mosche
o da tafani.
Poi che nel viso a
certi li occhi porsi,
ne´ quali ´l doloroso
foco casca,
non ne conobbi alcun;
ma io m´accorsi
che dal collo a ciascun
pendea una tasca
ch´avea certo colore e
certo segno,
e quindi par che ´l
loro occhio si pasca.
E com´ io riguardando
tra lor vegno,
in una borsa gialla
vidi azzurro
che d´un leone avea
faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio
sguardo il curro,
vidine un´altra come
sangue rossa,
mostrando un´oca bianca
più che burro.
E un che d´una scrofa
azzurra e grossa
segnato avea lo suo
sacchetto bianco,
mi disse: "Che fai
tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché
se´ vivo anco,
sappi che ´l mio vicin
Vitalïano
sederà qui dal mio
sinistro fianco.
Con questi Fiorentin
son padoano:
spesse fïate mi ´ntronan
li orecchi
gridando: "Vegna ´l
cavalier sovrano,
che recherà la tasca
con tre becchi!"".
Qui distorse la bocca e
di fuor trasse
la lingua, come bue che
´l naso lecchi.
E io, temendo no ´l più
star crucciasse
lui che di poco star m´avea
´mmonito,
torna´mi in dietro da l´anime
lasse.
Trova´ il duca mio ch´era
salito
già su la groppa del
fiero animale,
e disse a me: "Or
sie forte e ardito.
Omai si scende per sì
fatte scale;
monta dinanzi, ch´i´
voglio esser mezzo,
sì che la coda non
possa far male".
Qual è colui che sì
presso ha ´l riprezzo
de la quartana, c´ha già
l´unghie smorte,
e triema tutto pur
guardando ´l rezzo,
tal divenn´ io a le
parole porte;
ma vergogna mi fé le
sue minacce,
che innanzi a buon
segnor fa servo forte.
I´ m´assettai in su
quelle spallacce;
sì volli dir, ma la
voce non venne
com´ io credetti:
`Fa che tu m´abbracce´.
Ma esso, ch´altra volta
mi sovvenne
ad altro forse, tosto
ch´i´ montai
con le braccia m´avvinse
e mi sostenne;
e disse: "Gerïon,
moviti omai:
le rote larghe, e lo
scender sia poco;
pensa la nova soma che
tu hai".
Come la navicella esce
di loco
in dietro in dietro, sì
quindi si tolse;
e poi ch´al tutto si
sentì a gioco,
là ´v´ era ´l petto, la
coda rivolse,
e quella tesa, come
anguilla, mosse,
e con le branche l´aere
a sé raccolse.
Maggior paura non credo
che fosse
quando Fetonte abbandonò
li freni,
per che ´l ciel, come
pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero
le reni
sentì spennar per la
scaldata cera,
gridando il padre a lui
"Mala via tieni!",
che fu la mia, quando
vidi ch´i´ era
ne l´aere d´ogne parte,
e vidi spenta
ogne veduta fuor che de
la fera.
Ella sen va notando
lenta lenta;
rota e discende, ma non
me n´accorgo
se non che al viso e di
sotto mi venta.
Io sentia già da la man
destra il gorgo
far sotto noi un
orribile scroscio,
per che con li occhi ´n
giù la testa sporgo.
Allor fu´ io più timido
a lo stoscio,
però ch´i´ vidi fuochi
e senti´ pianti;
ond´ io tremando tutto
mi raccoscio.
E vidi poi, ché nol
vedea davanti,
lo scendere e ´l girar
per li gran mali
che s´appressavan da
diversi canti.
Come ´l falcon ch´è
stato assai su l´ali,
che sanza veder logoro
o uccello
fa dire al falconiere
"Omè, tu cali!",
discende lasso onde si
move isnello,
per cento rote, e da
lunge si pone
dal suo maestro,
disdegnoso e fello;
così ne puose al fondo
Gerïone
al piè al piè de la
stagliata rocca,
e, discarcate le nostre
persone,
si dileguò come da
corda cocca.
Luogo è in inferno
detto Malebolge,
tutto di pietra di
color ferrigno,
come la cerchia che
dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del
campo maligno
vaneggia un pozzo assai
largo e profondo,
di cui suo loco dicerò
l´ordigno.
Quel cinghio che rimane
adunque è tondo
tra ´l pozzo e ´l piè
de l´alta ripa dura,
e ha distinto in dieci
valli il fondo.
Quale, dove per guardia
de le mura
più e più fossi cingon
li castelli,
la parte dove son rende
figura,
tale imagine quivi
facean quelli;
e come a tai fortezze
da´ lor sogli
a la ripa di fuor son
ponticelli,
così da imo de la
roccia scogli
movien che ricidien li
argini e ´ fossi
infino al pozzo che i
tronca e raccogli.
In questo luogo, de la
schiena scossi
di Gerïon, trovammoci;
e ´l poeta
tenne a sinistra, e io
dietro mi mossi.
A la man destra vidi
nova pieta,
novo tormento e novi
frustatori,
di che la prima bolgia
era repleta.
Nel fondo erano ignudi
i peccatori;
dal mezzo in qua ci
venien verso ´l volto,
di là con noi, ma con
passi maggiori,
come i Roman per l´essercito
molto,
l´anno del giubileo, su
per lo ponte
hanno a passar la gente
modo colto,
che da l´un lato tutti
hanno la fronte
verso ´l castello e
vanno a Santo Pietro,
da l´altra sponda vanno
verso ´l monte.
Di qua, di là, su per
lo sasso tetro
vidi demon cornuti con
gran ferze,
che li battien
crudelmente di retro.
Ahi come facean lor
levar le berze
a le prime percosse! già
nessuno
le seconde aspettava né
le terze.
Mentr´ io andava, li
occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì
tosto dissi:
"Già di veder
costui non son digiuno".
Per ch´ïo a figurarlo i
piedi affissi;
e ´l dolce duca meco si
ristette,
e assentio ch´alquanto
in dietro gissi.
E quel frustato celar
si credette
bassando ´l viso; ma
poco li valse,
ch´io dissi: "O tu
che l´occhio a terra gette,
se le fazion che porti
non son false,
Venedico se´ tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì
pungenti salse?".
Ed elli a me: "Mal
volontier lo dico;
ma sforzami la tua
chiara favella,
che mi fa sovvenir del
mondo antico.
I´ fui colui che la
Ghisolabella
condussi a far la
voglia del marchese,
come che suoni la
sconcia novella.
E non pur io qui piango
bolognese;
anzi n´è questo loco
tanto pieno,
che tante lingue non
son ora apprese
a dicer `sipa´
tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o
testimonio,
rècati a mente il
nostro avaro seno".
Così parlando il
percosse un demonio
de la sua scurïada, e
disse: "Via,
ruffian! qui non son
femmine da conio".
I´ mi raggiunsi con la
scorta mia;
poscia con pochi passi
divenimmo
là ´v´ uno scoglio de
la ripa uscia.
Assai leggeramente quel
salimmo;
e vòlti a destra su per
la sua scheggia,
da quelle cerchie
etterne ci partimmo.
Quando noi fummo là dov´
el vaneggia
di sotto per dar passo
a li sferzati,
lo duca disse:
"Attienti, e fa che feggia
lo viso in te di quest´
altri mal nati,
ai quali ancor non
vedesti la faccia
però che son con noi
insieme andati".
Del vecchio ponte
guardavam la traccia
che venìa verso noi da
l´altra banda,
e che la ferza
similmente scaccia.
E ´l buon maestro,
sanza mia dimanda,
mi disse: "Guarda
quel grande che vene,
e per dolor non par
lagrime spanda:
quanto aspetto reale
ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per
cuore e per senno
li Colchi del monton
privati féne.
Ello passò per l´isola
di Lenno
poi che l´ardite
femmine spietate
tutti li maschi loro a
morte dienno.
Ivi con segni e con
parole ornate
Isifile ingannò, la
giovinetta
che prima avea tutte l´altre
ingannate.
Lasciolla quivi,
gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro
lui condanna;
e anche di Medea si fa
vendetta.
Con lui sen va chi da
tal parte inganna;
e questo basti de la
prima valle
sapere e di color che ´n
sé assanna".
Già eravam là ´ve lo
stretto calle
con l´argine secondo s´incrocicchia,
e fa di quello ad un
altr´ arco spalle.
Quindi sentimmo gente che
si nicchia
ne l´altra bolgia e che
col muso scuffa,
e sé medesma con le
palme picchia.
Le ripe eran grommate d´una
muffa,
per l´alito di giù che
vi s´appasta,
che con li occhi e col
naso facea zuffa.
Lo fondo è cupo sì, che
non ci basta
loco a veder sanza
montare al dosso
de l´arco, ove lo
scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo; e quindi
giù nel fosso
vidi gente attuffata in
uno sterco
che da li uman privadi
parea mosso.
E mentre ch´io là giù
con l´occhio cerco,
vidi un col capo sì di
merda lordo,
che non parëa s´era
laico o cherco.
Quei mi sgridò:
"Perché se´ tu sì gordo
di riguardar più me che
li altri brutti?".
E io a lui: "Perché,
se ben ricordo,
già t´ho veduto coi
capelli asciutti,
e se´ Alessio
Interminei da Lucca:
però t´adocchio più che
li altri tutti".
Ed elli allor,
battendosi la zucca:
"Qua giù m´hanno
sommerso le lusinghe
ond´ io non ebbi mai la
lingua stucca".
Appresso ciò lo duca
"Fa che pinghe",
mi disse, "il viso
un poco più avante,
sì che la faccia ben
con l´occhio attinghe
di quella sozza e
scapigliata fante
che là si graffia con l´unghie
merdose,
e or s´accoscia e ora è
in piedi stante.
Taïde è, la puttana che
rispuose
al drudo suo quando
disse "Ho io grazie
grandi apo te?":
"Anzi maravigliose!".
E quinci sian le nostre
viste sazie".
O Simon mago, o miseri
seguaci
che le cose di Dio, che
di bontate
deon essere spose, e
voi rapaci
per oro e per argento
avolterate,
or convien che per voi
suoni la tromba,
però che ne la terza
bolgia state.
Già eravamo, a la
seguente tomba,
montati de lo scoglio
in quella parte
ch´a punto sovra mezzo ´l
fosso piomba.
O somma sapïenza,
quanta è l´arte
che mostri in cielo, in
terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua
virtù comparte!
Io vidi per le coste e
per lo fondo
piena la pietra livida
di fóri,
d´un largo tutti e
ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi
né maggiori
che que´ che son nel
mio bel San Giovanni,
fatti per loco d´i
battezzatori;
l´un de li quali, ancor
non è molt´ anni,
rupp´ io per un che
dentro v´annegava:
e questo sia suggel ch´ogn´
omo sganni.
Fuor de la bocca a
ciascun soperchiava
d´un peccator li piedi
e de le gambe
infino al grosso, e l´altro
dentro stava.
Le piante erano a tutti
accese intrambe;
per che sì forte
guizzavan le giunte,
che spezzate averien
ritorte e strambe.
Qual suole il
fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la
strema buccia,
tal era lì dai calcagni
a le punte.
"Chi è colui,
maestro, che si cruccia
guizzando più che li
altri suoi consorti",
diss´ io, "e cui
più roggia fiamma succia?".
Ed elli a me: "Se
tu vuo´ ch´i´ ti porti
là giù per quella ripa
che più giace,
da lui saprai di sé e
de´ suoi torti".
E io: "Tanto m´è
bel, quanto a te piace:
tu se´ segnore, e sai
ch´i´ non mi parto
dal tuo volere, e sai
quel che si tace".
Allor venimmo in su l´argine
quarto;
volgemmo e discendemmo
a mano stanca
là giù nel fondo
foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor
de la sua anca
non mi dipuose, sì mi
giunse al rotto
di quel che si piangeva
con la zanca.
"O qual che se´
che ´l di sù tien di sotto,
anima trista come pal
commessa",
comincia´ io a dir,
"se puoi, fa motto".
Io stava come ´l frate
che confessa
lo perfido assessin,
che, poi ch´è fitto,
richiama lui per che la
morte cessa.
Ed el gridò: "Se´
tu già costì ritto,
se´ tu già costì ritto,
Bonifazio?
Di parecchi anni mi
mentì lo scritto.
Se´ tu sì tosto di
quell´ aver sazio
per lo qual non temesti
tòrre a ´nganno
la bella donna, e poi
di farne strazio?".
Tal mi fec´ io, quai
son color che stanno,
per non intender ciò ch´è
lor risposto,
quasi scornati, e
risponder non sanno.
Allor Virgilio disse:
"Dilli tosto:
"Non son colui,
non son colui che credi"";
e io rispuosi come a me
fu imposto.
Per che lo spirto tutti
storse i piedi;
poi, sospirando e con
voce di pianto,
mi disse: "Dunque
che a me richiedi?
Se di saper ch´i´ sia
ti cal cotanto,
che tu abbi però la
ripa corsa,
sappi ch´i´ fui vestito
del gran manto;
e veramente fui
figliuol de l´orsa,
cupido sì per avanzar
li orsatti,
che sù l´avere e qui me
misi in borsa.
Di sotto al capo mio
son li altri tratti
che precedetter me
simoneggiando,
per le fessure de la
pietra piatti.
Là giù cascherò io
altresì quando
verrà colui ch´i´
credea che tu fossi,
allor ch´i´ feci ´l sùbito
dimando.
Ma più è ´l tempo già
che i piè mi cossi
e ch´i´ son stato così
sottosopra,
ch´el non starà
piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di
più laida opra,
di ver´ ponente, un
pastor sanza legge,
tal che convien che lui
e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di
cui si legge
ne´ Maccabei; e come a
quel fu molle
suo re, così fia lui
chi Francia regge".
Io non so s´i´ mi fui
qui troppo folle,
ch´i´ pur rispuosi lui
a questo metro:
"Deh, or mi dì:
quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima
da san Pietro
ch´ei ponesse le chiavi
in sua balìa?
Certo non chiese se non
"Viemmi retro".
Né Pier né li altri
tolsero a Matia
oro od argento, quando
fu sortito
al loco che perdé l´anima
ria.
Però ti sta, ché tu se´
ben punito;
e guarda ben la mal
tolta moneta
ch´esser ti fece contra
Carlo ardito.
E se non fosse ch´ancor
lo mi vieta
la reverenza de le
somme chiavi
che tu tenesti ne la
vita lieta,
io userei parole ancor
più gravi;
ché la vostra avarizia
il mondo attrista,
calcando i buoni e
sollevando i pravi.
Di voi pastor s´accorse
il Vangelista,
quando colei che siede
sopra l´acque
puttaneggiar coi regi a
lui fu vista;
quella che con le sette
teste nacque,
e da le diece corna
ebbe argomento,
fin che virtute al suo
marito piacque.
Fatto v´avete dio d´oro
e d´argento;
e che altro è da voi a
l´idolatre,
se non ch´elli uno, e
voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di
quanto mal fu matre,
non la tua conversion,
ma quella dote
che da te prese il
primo ricco patre!".
E mentr´ io li cantava
cotai note,
o ira o coscïenza che ´l
mordesse,
forte spingava con ambo
le piote.
I´ credo ben ch´al mio
duca piacesse,
con sì contenta labbia
sempre attese
lo suon de le parole
vere espresse.
Però con ambo le
braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s´ebbe
al petto,
rimontò per la via onde
discese.
Né si stancò d´avermi a
sé distretto,
sì men portò sovra ´l
colmo de l´arco
che dal quarto al
quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose
il carco,
soave per lo scoglio
sconcio ed erto
che sarebbe a le capre
duro varco.
Indi un altro vallon mi
fu scoperto.
Di nova pena mi conven
far versi
e dar matera al
ventesimo canto
de la prima canzon, ch´è
d´i sommersi.
Io era già disposto
tutto quanto
a riguardar ne lo
scoperto fondo,
che si bagnava d´angoscioso
pianto;
e vidi gente per lo
vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando,
al passo
che fanno le letane in
questo mondo.
Come ´l viso mi scese
in lor più basso,
mirabilmente apparve
esser travolto
ciascun tra ´l mento e ´l
principio del casso,
ché da le reni era
tornato ´l volto,
e in dietro venir li
convenia,
perché ´l veder dinanzi
era lor tolto.
Forse per forza già di
parlasia
si travolse così alcun
del tutto;
ma io nol vidi, né
credo che sia.
Se Dio ti lasci,
lettor, prender frutto
di tua lezione, or
pensa per te stesso
com´ io potea tener lo
viso asciutto,
quando la nostra
imagine di presso
vidi sì torta, che ´l
pianto de li occhi
le natiche bagnava per
lo fesso.
Certo io piangea,
poggiato a un de´ rocchi
del duro scoglio, sì
che la mia scorta
mi disse: "Ancor
se´ tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand´
è ben morta;
chi è più scellerato
che colui
che al giudicio divin
passion comporta?
Drizza la testa,
drizza, e vedi a cui
s´aperse a li occhi d´i
Teban la terra;
per ch´ei gridavan
tutti: "Dove rui,
Anfïarao? perché lasci
la guerra?".
E non restò di ruinare
a valle
fino a Minòs che
ciascheduno afferra.
Mira c´ha fatto petto
de le spalle;
perché volle veder
troppo davante,
di retro guarda e fa
retroso calle.
Vedi Tiresia, che mutò
sembiante
quando di maschio femmina
divenne,
cangiandosi le membra
tutte quante;
e prima, poi, ribatter
li convenne
li duo serpenti
avvolti, con la verga,
che rïavesse le
maschili penne.
Aronta è quel ch´al
ventre li s´atterga,
che ne´ monti di Luni,
dove ronca
lo Carrarese che di
sotto alberga,
ebbe tra ´ bianchi
marmi la spelonca
per sua dimora; onde a
guardar le stelle
e ´l mar non li era la
veduta tronca.
E quella che ricuopre
le mammelle,
che tu non vedi, con le
trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa
pelle,
Manto fu, che cercò per
terre molte;
poscia si puose là dove
nacqu´ io;
onde un poco mi piace
che m´ascolte.
Poscia che ´l padre suo
di vita uscìo
e venne serva la città
di Baco,
questa gran tempo per
lo mondo gio.
Suso in Italia bella
giace un laco,
a piè de l´Alpe che
serra Lamagna
sovra Tiralli, c´ha
nome Benaco.
Per mille fonti, credo,
e più si bagna
tra Garda e Val
Camonica e Pennino
de l´acqua che nel
detto laco stagna.
Loco è nel mezzo là
dove ´l trentino
pastore e quel di
Brescia e ´l veronese
segnar poria, s´e´
fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello
e forte arnese
da fronteggiar
Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ´ntorno più
discese.
Ivi convien che tutto
quanto caschi
ciò che ´n grembo a
Benaco star non può,
e fassi fiume giù per
verdi paschi.
Tosto che l´acqua a
correr mette co,
non più Benaco, ma
Mencio si chiama
fino a Governol, dove
cade in Po.
Non molto ha corso, ch´el
trova una lama,
ne la qual si distende
e la ´mpaluda;
e suol di state talor
essere grama.
Quindi passando la
vergine cruda
vide terra, nel mezzo
del pantano,
sanza coltura e d´abitanti
nuda.
Lì, per fuggire ogne
consorzio umano,
ristette con suoi servi
a far sue arti,
e visse, e vi lasciò
suo corpo vano.
Li uomini poi che ´ntorno
erano sparti
s´accolsero a quel
loco, ch´era forte
per lo pantan ch´avea
da tutte parti.
Fer la città sovra
quell´ ossa morte;
e per colei che ´l loco
prima elesse,
Mantüa l´appellar sanz´
altra sorte.
Già fuor le genti sue
dentro più spesse,
prima che la mattia da
Casalodi
da Pinamonte inganno
ricevesse.
Però t´assenno che, se
tu mai odi
originar la mia terra
altrimenti,
la verità nulla
menzogna frodi".
E io: "Maestro, i
tuoi ragionamenti
mi son sì certi e
prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien
carboni spenti.
Ma dimmi, de la gente
che procede,
se tu ne vedi alcun
degno di nota;
ché solo a ciò la mia
mente rifiede".
Allor mi disse:
"Quel che da la gota
porge la barba in su le
spalle brune,
fu, quando Grecia fu di
maschi vòta,
sì ch´a pena rimaser
per le cune,
augure, e diede ´l
punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la
prima fune.
Euripilo ebbe nome, e
così ´l canta
l´alta mia tragedìa in
alcun loco:
ben lo sai tu che la
sai tutta quanta.
Quell´ altro che ne´
fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che
veramente
de le magiche frode
seppe ´l gioco.
Vedi Guido Bonatti;
vedi Asdente,
ch´avere inteso al
cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi
si pente.
Vedi le triste che lasciaron
l´ago,
la spuola e ´l fuso, e
fecersi ´ndivine;
fecer malie con erbe e
con imago.
Ma vienne omai, ché già
tiene ´l confine
d´amendue li emisperi e
tocca l´onda
sotto Sobilia Caino e
le spine;
e già iernotte fu la
luna tonda:
ben ten de´ ricordar,
ché non ti nocque
alcuna volta per la
selva fonda".
Sì mi parlava, e
andavamo introcque.
Così di ponte in ponte,
altro parlando
che la mia comedìa
cantar non cura,
venimmo; e tenavamo ´l
colmo, quando
restammo per veder l´altra
fessura
di Malebolge e li altri
pianti vani;
e vidila mirabilmente
oscura.
Quale ne l´arzanà de´
Viniziani
bolle l´inverno la
tenace pece
a rimpalmare i legni
lor non sani,
ché navicar non ponno,
in quella vece
chi fa suo legno novo e
chi ristoppa
le coste a quel che più
vïaggi fece;
chi ribatte da proda e
chi da poppa;
altri fa remi e altri
volge sarte;
chi terzeruolo e
artimon rintoppa;
tal, non per foco ma
per divin´ arte,
bollia là giuso una
pegola spessa,
che ´nviscava la ripa d´ogne
parte.
I´ vedea lei, ma non
vedëa in essa
mai che le bolle che ´l
bollor levava,
e gonfiar tutta, e
riseder compressa.
Mentr´ io là giù
fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo
"Guarda, guarda!",
mi trasse a sé del loco
dov´ io stava.
Allor mi volsi come l´uom
cui tarda
di veder quel che li
convien fuggire
e cui paura sùbita
sgagliarda,
che, per veder, non
indugia ´l partire:
e vidi dietro a noi un
diavol nero
correndo su per lo
scoglio venire.
Ahi quant´ elli era ne
l´aspetto fero!
e quanto mi parea ne l´atto
acerbo,
con l´ali aperte e
sovra i piè leggero!
L´omero suo, ch´era
aguto e superbo,
carcava un peccator con
ambo l´anche,
e quei tenea de´ piè
ghermito ´l nerbo.
Del nostro ponte disse:
"O Malebranche,
ecco un de li anzïan di
Santa Zita!
Mettetel sotto, ch´i´
torno per anche
a quella terra, che n´è
ben fornita:
ogn´ uom v´è barattier,
fuor che Bonturo;
del no, per li denar,
vi si fa ita".
Là giù ´l buttò, e per
lo scoglio duro
si volse; e mai non fu
mastino sciolto
con tanta fretta a
seguitar lo furo.
Quel s´attuffò, e tornò
sù convolto;
ma i demon che del
ponte avean coperchio,
gridar: "Qui non
ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti
che nel Serchio!
Però, se tu non vuo´ di
nostri graffi,
non far sopra la pegola
soverchio".
Poi l´addentar con più
di cento raffi,
disser: "Coverto
convien che qui balli,
sì che, se puoi,
nascosamente accaffi".
Non altrimenti i cuoci
a´ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo
la caldaia
la carne con li uncin,
perché non galli.
Lo buon maestro
"Acciò che non si paia
che tu ci sia", mi
disse, "giù t´acquatta
dopo uno scheggio, ch´alcun
schermo t´aia;
e per nulla offension
che mi sia fatta,
non temer tu, ch´i´ ho
le cose conte,
perch´ altra volta fui
a tal baratta".
Poscia passò di là dal
co del ponte;
e com´ el giunse in su
la ripa sesta,
mestier li fu d´aver
sicura fronte.
Con quel furore e con
quella tempesta
ch´escono i cani a
dosso al poverello
che di sùbito chiede
ove s´arresta,
usciron quei di sotto
al ponticello,
e volser contra lui
tutt´ i runcigli;
ma el gridò:
"Nessun di voi sia fello!
Innanzi che l´uncin
vostro mi pigli,
traggasi avante l´un di
voi che m´oda,
e poi d´arruncigliarmi
si consigli".
Tutti gridaron:
"Vada Malacoda!";
per ch´un si mosse, e
li altri stetter fermi;
e venne a lui dicendo:
"Che li approda?".
"Credi tu,
Malacoda, qui vedermi
esser venuto",
disse ´l mio maestro,
"sicuro già da
tutti vostri schermi,
sanza voler divino e
fato destro?
Lascian´ andar, ché nel
cielo è voluto
ch´i´ mostri altrui
questo cammin silvestro".
Allor li fu l´orgoglio
sì caduto,
ch´e´ si lasciò cascar
l´uncino a´ piedi,
e disse a li altri:
"Omai non sia feruto".
E ´l duca mio a me:
"O tu che siedi
tra li scheggion del
ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me
ti riedi".
Per ch´io mi mossi e a
lui venni ratto;
e i diavoli si fecer
tutti avanti,
sì ch´io temetti ch´ei
tenesser patto;
così vid´ ïo già temer
li fanti
ch´uscivan patteggiati
di Caprona,
veggendo sé tra nemici
cotanti.
I´ m´accostai con tutta
la persona
lungo ´l mio duca, e
non torceva li occhi
da la sembianza lor ch´era
non buona.
Ei chinavan li raffi e
"Vuo´ che ´l tocchi",
diceva l´un con l´altro,
"in sul groppone?".
E rispondien: "Sì,
fa che gliel´ accocchi".
Ma quel demonio che
tenea sermone
col duca mio, si volse
tutto presto
e disse: "Posa,
posa, Scarmiglione!".
Poi disse a noi:
"Più oltre andar per questo
iscoglio non si può,
però che giace
tutto spezzato al fondo
l´arco sesto.
E se l´andare avante
pur vi piace,
andatevene su per
questa grotta;
presso è un altro
scoglio che via face.
Ier, più oltre cinqu´
ore che quest´ otta,
mille dugento con
sessanta sei
anni compié che qui la
via fu rotta.
Io mando verso là di
questi miei
a riguardar s´alcun se
ne sciorina;
gite con lor, che non
saranno rei".
"Tra´ti avante,
Alichino, e Calcabrina",
cominciò elli a dire,
"e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la
decina.
Libicocco vegn´ oltre e
Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e
Graffiacane
e Farfarello e
Rubicante pazzo.
Cercate ´ntorno le
boglienti pane;
costor sian salvi
infino a l´altro scheggio
che tutto intero va
sovra le tane".
"Omè, maestro, che
è quel ch´i´ veggio?",
diss´ io, "deh,
sanza scorta andianci soli,
se tu sa´ ir; ch´i´ per
me non la cheggio.
Se tu se´ sì accorto
come suoli,
non vedi tu ch´e´
digrignan li denti
e con le ciglia ne
minaccian duoli?".
Ed elli a me: "Non
vo´ che tu paventi;
lasciali digrignar pur
a lor senno,
ch´e´ fanno ciò per li
lessi dolenti".
Per l´argine sinistro
volta dienno;
ma prima avea ciascun
la lingua stretta
coi denti, verso lor
duca, per cenno;
ed elli avea del cul
fatto trombetta.
Io vidi già cavalier
muover campo,
e cominciare stormo e
far lor mostra,
e talvolta partir per
loro scampo;
corridor vidi per la
terra vostra,
o Aretini, e vidi gir
gualdane,
fedir torneamenti e
correr giostra;
quando con trombe, e
quando con campane,
con tamburi e con cenni
di castella,
e con cose nostrali e
con istrane;
né già con sì diversa
cennamella
cavalier vidi muover né
pedoni,
né nave a segno di
terra o di stella.
Noi andavam con li
diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma
ne la chiesa
coi santi, e in taverna
coi ghiottoni.
Pur a la pegola era la
mia ´ntesa,
per veder de la bolgia
ogne contegno
e de la gente ch´entro
v´era incesa.
Come i dalfini, quando
fanno segno
a´ marinar con l´arco
de la schiena
che s´argomentin di
campar lor legno,
talor così, ad
alleggiar la pena,
mostrav´ alcun de´
peccatori ´l dosso
e nascondea in men che
non balena.
E come a l´orlo de l´acqua
d´un fosso
stanno i ranocchi pur
col muso fuori,
sì che celano i piedi e
l´altro grosso,
sì stavan d´ogne parte
i peccatori;
ma come s´appressava
Barbariccia,
così si ritraén sotto i
bollori.
I´ vidi, e anco il cor
me n´accapriccia,
uno aspettar così, com´
elli ´ncontra
ch´una rana rimane e l´altra
spiccia;
e Graffiacan, che li
era più di contra,
li arruncigliò le ´mpegolate
chiome
e trassel sù, che mi
parve una lontra.
I´ sapea già di tutti
quanti ´l nome,
sì li notai quando
fuorono eletti,
e poi ch´e´ si
chiamaro, attesi come.
"O Rubicante, fa
che tu li metti
li unghioni a dosso, sì
che tu lo scuoi!",
gridavan tutti insieme
i maladetti.
E io: "Maestro
mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo
sciagurato
venuto a man de li
avversari suoi".
Lo duca mio li s´accostò
allato;
domandollo ond´ ei
fosse, e quei rispuose:
"I´ fui del regno
di Navarra nato.
Mia madre a servo d´un
segnor mi puose,
che m´avea generato d´un
ribaldo,
distruggitor di sé e di
sue cose.
Poi fui famiglia del
buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far
baratteria,
di ch´io rendo ragione
in questo caldo".
E Cirïatto, a cui di
bocca uscia
d´ogne parte una sanna
come a porco,
li fé sentir come l´una
sdruscia.
Tra male gatte era
venuto ´l sorco;
ma Barbariccia il
chiuse con le braccia
e disse: "State in
là, mentr´ io lo ´nforco".
E al maestro mio volse
la faccia;
"Domanda",
disse, "ancor, se più disii
saper da lui, prima ch´altri
´l disfaccia".
Lo duca dunque:
"Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che
sia latino
sotto la pece?". E
quelli: "I´ mi partii,
poco è, da un che fu di
là vicino.
Così foss´ io ancor con
lui coperto,
ch´i´ non temerei
unghia né uncino!".
E Libicocco
"Troppo avem sofferto",
disse; e preseli ´l
braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne
portò un lacerto.
Draghignazzo anco i
volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ´l
decurio loro
si volse intorno
intorno con mal piglio.
Quand´ elli un poco
rappaciati fuoro,
a lui, ch´ancor mirava
sua ferita,
domandò ´l duca mio
sanza dimoro:
"Chi fu colui da
cui mala partita
di´ che facesti per
venire a proda?".
Ed ei rispuose:
"Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel
d´ogne froda,
ch´ebbe i nemici di suo
donno in mano,
e fé sì lor, che
ciascun se ne loda.
Danar si tolse e
lasciolli di piano,
sì com´ e´ dice; e ne
li altri offici anche
barattier fu non
picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno
Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di
Sardigna
le lingue lor non si
sentono stanche.
Omè, vedete l´altro che
digrigna;
i´ direi anche, ma i´
temo ch´ello
non s´apparecchi a grattarmi
la tigna".
E ´l gran proposto, vòlto
a Farfarello
che stralunava li occhi
per fedire,
disse: "Fatti ´n
costà, malvagio uccello!".
"Se voi volete
vedere o udire",
ricominciò lo spaürato
appresso,
"Toschi o
Lombardi, io ne farò venire;
ma stieno i Malebranche
un poco in cesso,
sì ch´ei non teman de
le lor vendette;
e io, seggendo in
questo loco stesso,
per un ch´io son, ne
farò venir sette
quand´ io suffolerò,
com´ è nostro uso
di fare allor che fori
alcun si mette".
Cagnazzo a cotal motto
levò ´l muso,
crollando ´l capo, e
disse: "Odi malizia
ch´elli ha pensata per
gittarsi giuso!".
Ond´ ei, ch´avea
lacciuoli a gran divizia,
rispuose:
"Malizioso son io troppo,
quand´ io procuro a´
mia maggior trestizia".
Alichin non si tenne e,
di rintoppo
a li altri, disse a
lui: "Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro
di gualoppo,
ma batterò sovra la
pece l´ali.
Lascisi ´l collo, e sia
la ripa scudo,
a veder se tu sol più
di noi vali".
O tu che leggi, udirai
nuovo ludo:
ciascun da l´altra
costa li occhi volse,
quel prima, ch´a ciò
fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo
tempo colse;
fermò le piante a
terra, e in un punto
saltò e dal proposto
lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa
fu compunto,
ma quei più che cagion
fu del difetto;
però si mosse e gridò:
"Tu se´ giunto!".
Ma poco i valse: ché l´ali
al sospetto
non potero avanzar;
quelli andò sotto,
e quei drizzò volando
suso il petto:
non altrimenti l´anitra
di botto,
quando ´l falcon s´appressa,
giù s´attuffa,
ed ei ritorna sù
crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la
buffa,
volando dietro li
tenne, invaghito
che quei campasse per
aver la zuffa;
e come ´l barattier fu
disparito,
così volse li artigli
al suo compagno,
e fu con lui sopra ´l
fosso ghermito.
Ma l´altro fu bene
sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e
amendue
cadder nel mezzo del
bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito
fue;
ma però di levarsi era
neente,
sì avieno inviscate l´ali
sue.
Barbariccia, con li
altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da
l´altra costa
con tutt´ i raffi, e
assai prestamente
di qua, di là discesero
a la posta;
porser li uncini verso
li ´mpaniati,
ch´eran già cotti
dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così
´mpacciati.
Taciti, soli, sanza
compagnia
n´andavam l´un dinanzi
e l´altro dopo,
come frati minor vanno
per via.
Vòlt´ era in su la
favola d´Isopo
lo mio pensier per la
presente rissa,
dov´ el parlò de la
rana e del topo;
ché più non si pareggia
`mo´ e `issa´
che l´un con l´altro
fa, se ben s´accoppia
principio e fine con la
mente fissa.
E come l´un pensier de
l´altro scoppia,
così nacque di quello
un altro poi,
che la prima paura mi fé
doppia.
Io pensava così:
`Questi per noi
sono scherniti con
danno e con beffa
sì fatta, ch´assai
credo che lor nòi.
Se l´ira sovra ´l mal
voler s´aggueffa,
ei ne verranno dietro
più crudeli
che ´l cane a quella
lievre ch´elli acceffa´.
Già mi sentia tutti
arricciar li peli
de la paura e stava in
dietro intento,
quand´ io dissi:
"Maestro, se non celi
te e me tostamente, i´
ho pavento
d´i Malebranche. Noi li
avem già dietro;
io li ´magino sì, che
già li sento".
E quei: "S´i´
fossi di piombato vetro,
l´imagine di fuor tua
non trarrei
più tosto a me, che
quella dentro ´mpetro.
Pur mo venieno i tuo´
pensier tra ´ miei,
con simile atto e con
simile faccia,
sì che d´intrambi un
sol consiglio fei.
S´elli è che sì la
destra costa giaccia,
che noi possiam ne l´altra
bolgia scendere,
noi fuggirem l´imaginata
caccia".
Già non compié di tal
consiglio rendere,
ch´io li vidi venir con
l´ali tese
non molto lungi, per
volerne prendere.
Lo duca mio di sùbito
mi prese,
come la madre ch´al
romore è desta
e vede presso a sé le
fiamme accese,
che prende il figlio e
fugge e non s´arresta,
avendo più di lui che
di sé cura,
tanto che solo una
camiscia vesta;
e giù dal collo de la
ripa dura
supin si diede a la
pendente roccia,
che l´un de´ lati a l´altra
bolgia tura.
Non corse mai sì tosto
acqua per doccia
a volger ruota di molin
terragno,
quand´ ella più verso
le pale approccia,
come ´l maestro mio per
quel vivagno,
portandosene me sovra ´l
suo petto,
come suo figlio, non
come compagno.
A pena fuoro i piè suoi
giunti al letto
del fondo giù, ch´e´
furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì
era sospetto:
ché l´alta provedenza
che lor volle
porre ministri de la
fossa quinta,
poder di partirs´ indi
a tutti tolle.
Là giù trovammo una
gente dipinta
che giva intorno assai
con lenti passi,
piangendo e nel
sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con
cappucci bassi
dinanzi a li occhi,
fatte de la taglia
che in Clugnì per li
monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì
ch´elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo,
e gravi tanto,
che Federigo le mettea
di paglia.
Oh in etterno faticoso
manto!
Noi ci volgemmo ancor
pur a man manca
con loro insieme,
intenti al tristo pianto;
ma per lo peso quella
gente stanca
venìa sì pian, che noi
eravam nuovi
di compagnia ad ogne
mover d´anca.
Per ch´io al duca mio:
"Fa che tu trovi
alcun ch´al fatto o al
nome si conosca,
e li occhi, sì andando,
intorno movi".
E un che ´ntese la
parola tosca,
di retro a noi gridò:
"Tenete i piedi,
voi che correte sì per
l´aura fosca!
Forse ch´avrai da me
quel che tu chiedi".
Onde ´l duca si volse e
disse: "Aspetta,
e poi secondo il suo
passo procedi".
Ristetti, e vidi due
mostrar gran fretta
de l´animo, col viso, d´esser
meco;
ma tardavali ´l carco e
la via stretta.
Quando fuor giunti,
assai con l´occhio bieco
mi rimiraron sanza far
parola;
poi si volsero in sé, e
dicean seco:
"Costui par vivo a
l´atto de la gola;
e s´e´ son morti, per
qual privilegio
vanno scoperti de la
grave stola?".
Poi disser me: "O
Tosco, ch´al collegio
de l´ipocriti tristi se´
venuto,
dir chi tu se´ non
avere in dispregio".
E io a loro: "I´
fui nato e cresciuto
sovra ´l bel fiume d´Arno
a la gran villa,
e son col corpo ch´i´
ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui
tanto distilla
quant´ i´ veggio dolor
giù per le guance?
e che pena è in voi che
sì sfavilla?".
E l´un rispuose a me:
"Le cappe rance
son di piombo sì
grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor
bilance.
Frati godenti fummo, e
bolognesi;
io Catalano e questi
Loderingo
nomati, e da tua terra
insieme presi
come suole esser tolto
un uom solingo,
per conservar sua pace;
e fummo tali,
ch´ancor si pare
intorno dal Gardingo".
Io cominciai: "O
frati, i vostri mali . . . ";
ma più non dissi, ch´a
l´occhio mi corse
un, crucifisso in terra
con tre pali.
Quando mi vide, tutto
si distorse,
soffiando ne la barba
con sospiri;
e ´l frate Catalan, ch´a
ciò s´accorse,
mi disse: "Quel
confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che
convenia
porre un uom per lo
popolo a´ martìri.
Attraversato è, nudo,
ne la via,
come tu vedi, ed è
mestier ch´el senta
qualunque passa, come
pesa, pria.
E a tal modo il socero
si stenta
in questa fossa, e li
altri dal concilio
che fu per li Giudei mala
sementa".
Allor vid´ io
maravigliar Virgilio
sovra colui ch´era
disteso in croce
tanto vilmente ne l´etterno
essilio.
Poscia drizzò al frate
cotal voce:
"Non vi
dispiaccia, se vi lece, dirci
s´a la man destra giace
alcuna foce
onde noi amendue
possiamo uscirci,
sanza costrigner de li
angeli neri
che vegnan d´esto fondo
a dipartirci".
Rispuose adunque:
"Più che tu non speri
s´appressa un sasso che
da la gran cerchia
si move e varca tutt´ i
vallon feri,
salvo che ´n questo è
rotto e nol coperchia;
montar potrete su per
la ruina,
che giace in costa e
nel fondo soperchia".
Lo duca stette un poco
a testa china;
poi disse: "Mal
contava la bisogna
colui che i peccator di
qua uncina".
E ´l frate: "Io
udi´ già dire a Bologna
del diavol vizi assai,
tra ´ quali udi´
ch´elli è bugiardo, e
padre di menzogna".
Appresso il duca a gran
passi sen gì,
turbato un poco d´ira
nel sembiante;
ond´ io da li ´ncarcati
mi parti´
dietro a le poste de le
care piante.
In quella parte del
giovanetto anno
che ´l sole i crin
sotto l´Aquario tempra
e già le notti al mezzo
dì sen vanno,
quando la brina in su
la terra assempra
l´imagine di sua
sorella bianca,
ma poco dura a la sua
penna tempra,
lo villanello a cui la
roba manca,
si leva, e guarda, e
vede la campagna
biancheggiar tutta; ond´
ei si batte l´anca,
ritorna in casa, e qua
e là si lagna,
come ´l tapin che non
sa che si faccia;
poi riede, e la
speranza ringavagna,
veggendo ´l mondo aver
cangiata faccia
in poco d´ora, e prende
suo vincastro
e fuor le pecorelle a
pascer caccia.
Così mi fece sbigottir
lo mastro
quand´ io li vidi sì
turbar la fronte,
e così tosto al mal
giunse lo ´mpiastro;
ché, come noi venimmo
al guasto ponte,
lo duca a me si volse
con quel piglio
dolce ch´io vidi prima
a piè del monte.
Le braccia aperse, dopo
alcun consiglio
eletto seco riguardando
prima
ben la ruina, e diedemi
di piglio.
E come quei ch´adopera
ed estima,
che sempre par che ´nnanzi
si proveggia,
così, levando me sù ver´
la cima
d´un ronchione,
avvisava un´altra scheggia
dicendo: "Sovra
quella poi t´aggrappa;
ma tenta pria s´è tal
ch´ella ti reggia".
Non era via da vestito
di cappa,
ché noi a pena, ei
lieve e io sospinto,
potavam sù montar di
chiappa in chiappa.
E se non fosse che da
quel precinto
più che da l´altro era
la costa corta,
non so di lui, ma io
sarei ben vinto.
Ma perché Malebolge
inver´ la porta
del bassissimo pozzo
tutta pende,
lo sito di ciascuna
valle porta
che l´una costa surge e
l´altra scende;
noi pur venimmo al fine
in su la punta
onde l´ultima pietra si
scoscende.
La lena m´era del
polmon sì munta
quand´ io fui sù, ch´i´
non potea più oltre,
anzi m´assisi ne la
prima giunta.
"Omai convien che
tu così ti spoltre",
disse ´l maestro;
"ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né
sotto coltre;
sanza la qual chi sua
vita consuma,
cotal vestigio in terra
di sé lascia,
qual fummo in aere e in
acqua la schiuma.
E però leva sù; vinci l´ambascia
con l´animo che vince
ogne battaglia,
se col suo grave corpo
non s´accascia.
Più lunga scala convien
che si saglia;
non basta da costoro
esser partito.
Se tu mi ´ntendi, or fa
sì che ti vaglia".
Leva´mi allor,
mostrandomi fornito
meglio di lena ch´i´
non mi sentia,
e dissi: "Va, ch´i´
son forte e ardito".
Su per lo scoglio
prendemmo la via,
ch´era ronchioso,
stretto e malagevole,
ed erto più assai che
quel di pria.
Parlando andava per non
parer fievole;
onde una voce uscì de l´altro
fosso,
a parole formar
disconvenevole.
Non so che disse, ancor
che sovra ´l dosso
fossi de l´arco già che
varca quivi;
ma chi parlava ad ire
parea mosso.
Io era vòlto in giù, ma
li occhi vivi
non poteano ire al
fondo per lo scuro;
per ch´io: "Maestro,
fa che tu arrivi
da l´altro cinghio e
dismontiam lo muro;
ché, com´ i´ odo quinci
e non intendo,
così giù veggio e
neente affiguro".
"Altra
risposta", disse, "non ti rendo
se non lo far; ché la
dimanda onesta
si de´ seguir con l´opera
tacendo".
Noi discendemmo il
ponte da la testa
dove s´aggiugne con l´ottava
ripa,
e poi mi fu la bolgia
manifesta:
e vidivi entro
terribile stipa
di serpenti, e di sì
diversa mena
che la memoria il
sangue ancor mi scipa.
Più non si vanti Libia
con sua rena;
ché se chelidri, iaculi
e faree
produce, e cencri con
anfisibena,
né tante pestilenzie né
sì ree
mostrò già mai con
tutta l´Etïopia
né con ciò che di sopra
al Mar Rosso èe.
Tra questa cruda e
tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o
elitropia:
con serpi le man dietro
avean legate;
quelle ficcavan per le
ren la coda
e ´l capo, ed eran
dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un ch´era da
nostra proda,
s´avventò un serpente
che ´l trafisse
là dove ´l collo a le
spalle s´annoda.
Né O sì tosto mai né I
si scrisse,
com´ el s´accese e
arse, e cener tutto
convenne che cascando
divenisse;
e poi che fu a terra sì
distrutto,
la polver si raccolse
per sé stessa
e ´n quel medesmo
ritornò di butto.
Così per li gran savi
si confessa
che la fenice more e
poi rinasce,
quando al
cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua
vita non pasce,
ma sol d´incenso
lagrime e d´amomo,
e nardo e mirra son l´ultime
fasce.
E qual è quel che cade,
e non sa como,
per forza di demon ch´a
terra il tira,
o d´altra oppilazion
che lega l´omo,
quando si leva, che ´ntorno
si mira
tutto smarrito de la
grande angoscia
ch´elli ha sofferta, e
guardando sospira:
tal era ´l peccator
levato poscia.
Oh potenza di Dio,
quant´ è severa,
che cotai colpi per
vendetta croscia!
Lo duca il domandò poi
chi ello era;
per ch´ei rispuose:
"Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa
gola fiera.
Vita bestial mi piacque
e non umana,
sì come a mul ch´i´ fui;
son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu
degna tana".
E ïo al duca:
"Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua
giù ´l pinse;
ch´io ´l vidi uomo di
sangue e di crucci".
E ´l peccator, che ´ntese,
non s´infinse,
ma drizzò verso me l´animo
e ´l volto,
e di trista vergogna si
dipinse;
poi disse: "Più mi
duol che tu m´hai colto
ne la miseria dove tu
mi vedi,
che quando fui de l´altra
vita tolto.
Io non posso negar quel
che tu chiedi;
in giù son messo tanto
perch´ io fui
ladro a la sagrestia d´i
belli arredi,
e falsamente già fu
apposto altrui.
Ma perché di tal vista
tu non godi,
se mai sarai di fuor da´
luoghi bui,
apri li orecchi al mio
annunzio, e odi.
Pistoia in pria d´i
Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova
gente e modi.
Tragge Marte vapor di
Val di Magra
ch´è di torbidi nuvoli
involuto;
e con tempesta impetüosa
e agra
sovra Campo Picen fia
combattuto;
ond´ ei repente spezzerà
la nebbia,
sì ch´ogne Bianco ne
sarà feruto.
E detto l´ho perché
doler ti debbia!".
Al fine de le sue
parole il ladro
le mani alzò con
amendue le fiche,
gridando: "Togli,
Dio, ch´a te le squadro!".
Da indi in qua mi fuor
le serpi amiche,
perch´ una li s´avvolse
allora al collo,
come dicesse
`Non vo´ che più diche´;
e un´altra a le
braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì
dinanzi,
che non potea con esse
dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia,
ché non stanzi
d´incenerarti sì che più
non duri,
poi che ´n mal fare il
seme tuo avanzi?
Per tutt´ i cerchi de
lo ´nferno scuri
non vidi spirto in Dio
tanto superbo,
non quel che cadde a
Tebe giù da´ muri.
El si fuggì che non
parlò più verbo;
e io vidi un centauro
pien di rabbia
venir chiamando:
"Ov´ è, ov´ è l´acerbo?".
Maremma non cred´ io
che tante n´abbia,
quante bisce elli avea
su per la groppa
infin ove comincia
nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro
da la coppa,
con l´ali aperte li
giacea un draco;
e quello affuoca
qualunque s´intoppa.
Lo mio maestro disse:
"Questi è Caco,
che, sotto ´l sasso di
monte Aventino,
di sangue fece spesse
volte laco.
Non va co´ suoi fratei
per un cammino,
per lo furto che
frodolente fece
del grande armento ch´elli
ebbe a vicino;
onde cessar le sue
opere biece
sotto la mazza d´Ercule,
che forse
gliene diè cento, e non
sentì le diece".
Mentre che sì parlava,
ed el trascorse,
e tre spiriti venner
sotto noi,
de´ quai né io né ´l
duca mio s´accorse,
se non quando gridar:
"Chi siete voi?";
per che nostra novella
si ristette,
e intendemmo pur ad
essi poi.
Io non li conoscea; ma
ei seguette,
come suol seguitar per
alcun caso,
che l´un nomar un altro
convenette,
dicendo: "Cianfa
dove fia rimaso?";
per ch´io, acciò che ´l
duca stesse attento,
mi puosi ´l dito su dal
mento al naso.
Se tu se´ or, lettore,
a creder lento
ciò ch´io dirò, non sarà
maraviglia,
ché io che ´l vidi, a
pena il mi consento.
Com´ io tenea levate in
lor le ciglia,
e un serpente con sei
piè si lancia
dinanzi a l´uno, e
tutto a lui s´appiglia.
Co´ piè di mezzo li
avvinse la pancia
e con li anterïor le
braccia prese;
poi li addentò e l´una
e l´altra guancia;
li diretani a le cosce
distese,
e miseli la coda tra ´mbedue
e dietro per le ren sù
la ritese.
Ellera abbarbicata mai
non fue
ad alber sì, come l´orribil
fiera
per l´altrui membra
avviticchiò le sue.
Poi s´appiccar, come di
calda cera
fossero stati, e
mischiar lor colore,
né l´un né l´altro già
parea quel ch´era:
come procede innanzi da
l´ardore,
per lo papiro suso, un
color bruno
che non è nero ancora e
´l bianco more.
Li altri due ´l
riguardavano, e ciascuno
gridava: "Omè,
Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se´ né
due né uno".
Già eran li due capi un
divenuti,
quando n´apparver due
figure miste
in una faccia, ov´ eran
due perduti.
Fersi le braccia due di
quattro liste;
le cosce con le gambe e
´l ventre e ´l casso
divenner membra che non
fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto
ivi era casso:
due e nessun l´imagine
perversa
parea; e tal sen gio
con lento passo.
Come ´l ramarro sotto
la gran fersa
dei dì canicular,
cangiando sepe,
folgore par se la via
attraversa,
sì pareva, venendo
verso l´epe
de li altri due, un
serpentello acceso,
livido e nero come gran
di pepe;
e quella parte onde
prima è preso
nostro alimento, a l´un
di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi
lui disteso.
Lo trafitto ´l mirò, ma
nulla disse;
anzi, co´ piè fermati,
sbadigliava
pur come sonno o febbre
l´assalisse.
Elli ´l serpente e quei
lui riguardava;
l´un per la piaga e l´altro
per la bocca
fummavan forte, e ´l
fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai là
dov´ e´ tocca
del misero Sabello e di
Nasidio,
e attenda a udir quel
ch´or si scocca.
Taccia di Cadmo e d´Aretusa
Ovidio,
ché se quello in serpente
e quella in fonte
converte poetando, io
non lo ´nvidio;
ché due nature mai a
fronte a fronte
non trasmutò sì ch´amendue
le forme
a cambiar lor matera
fosser pronte.
Insieme si rispuosero a
tai norme,
che ´l serpente la coda
in forca fesse,
e ´l feruto ristrinse
insieme l´orme.
Le gambe con le cosce
seco stesse
s´appiccar sì, che ´n
poco la giuntura
non facea segno alcun
che si paresse.
Togliea la coda fessa
la figura
che si perdeva là, e la
sua pelle
si facea molle, e
quella di là dura.
Io vidi intrar le
braccia per l´ascelle,
e i due piè de la
fiera, ch´eran corti,
tanto allungar quanto
accorciavan quelle.
Poscia li piè di
rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro
che l´uom cela,
e ´l misero del suo n´avea
due porti.
Mentre che ´l fummo l´uno
e l´altro vela
di color novo, e genera
´l pel suso
per l´una parte e da l´altra
il dipela,
l´un si levò e l´altro
cadde giuso,
non torcendo però le
lucerne empie,
sotto le quai ciascun
cambiava muso.
Quel ch´era dritto, il
trasse ver´ le tempie,
e di troppa matera ch´in
là venne
uscir li orecchi de le
gote scempie;
ciò che non corse in
dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé
naso a la faccia
e le labbra ingrossò
quanto convenne.
Quel che giacëa, il
muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per
la testa
come face le corna la
lumaccia;
e la lingua, ch´avëa
unita e presta
prima a parlar, si
fende, e la forcuta
ne l´altro si richiude;
e ´l fummo resta.
L´anima ch´era fiera
divenuta,
suffolando si fugge per
la valle,
e l´altro dietro a lui
parlando sputa.
Poscia li volse le
novelle spalle,
e disse a l´altro:
"I´ vo´ che Buoso corra,
com´ ho fatt´ io,
carpon per questo calle".
Così vid´ io la settima
zavorra
mutare e trasmutare; e
qui mi scusi
la novità se fior la
penna abborra.
E avvegna che li occhi
miei confusi
fossero alquanto e l´animo
smagato,
non poter quei fuggirsi
tanto chiusi,
ch´i´ non scorgessi ben
Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di
tre compagni
che venner prima, non
era mutato;
l´altr´ era quel che
tu, Gaville, piagni.
Godi, Fiorenza, poi che
se´ sì grande
che per mare e per
terra batti l´ali,
e per lo ´nferno tuo
nome si spande!
Tra li ladron trovai
cinque cotali
tuoi cittadini onde mi
ven vergogna,
e tu in grande orranza
non ne sali.
Ma se presso al mattin
del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da
picciol tempo,
di quel che Prato, non
ch´altri, t´agogna.
E se già fosse, non
saria per tempo.
Così foss´ ei, da che
pur esser dee!
ché più mi graverà, com´
più m´attempo.
Noi ci partimmo, e su
per le scalee
che n´avea fatto iborni
a scender pria,
rimontò ´l duca mio e
trasse mee;
e proseguendo la
solinga via,
tra le schegge e tra ´
rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non
si spedia.
Allor mi dolsi, e ora
mi ridoglio
quando drizzo la mente
a ciò ch´io vidi,
e più lo ´ngegno
affreno ch´i´ non soglio,
perché non corra che
virtù nol guidi;
sì che, se stella bona
o miglior cosa
m´ha dato ´l ben, ch´io
stessi nol m´invidi.
Quante ´l villan ch´al
poggio si riposa,
nel tempo che colui che
´l mondo schiara
la faccia sua a noi
tien meno ascosa,
come la mosca cede a la
zanzara,
vede lucciole giù per
la vallea,
forse colà dov´ e´
vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta
risplendea
l´ottava bolgia, sì com´
io m´accorsi
tosto che fui là ´ve ´l
fondo parea.
E qual colui che si
vengiò con li orsi
vide ´l carro d´Elia al
dipartire,
quando i cavalli al
cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li
occhi seguire,
ch´el vedesse altro che
la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù
salire:
tal si move ciascuna
per la gola
del fosso, ché nessuna
mostra ´l furto,
e ogne fiamma un
peccatore invola.
Io stava sovra ´l ponte
a veder surto,
sì che s´io non avessi
un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz´
esser urto.
E ´l duca che mi vide
tanto atteso,
disse: "Dentro dai
fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel
ch´elli è inceso".
"Maestro
mio", rispuos´ io, "per udirti
son io più certo; ma già
m´era avviso
che così fosse, e già
voleva dirti:
chi è ´n quel foco che
vien sì diviso
di sopra, che par
surger de la pira
dov´ Eteòcle col fratel
fu miso?".
Rispuose a me: "Là
dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così
insieme
a la vendetta vanno
come a l´ira;
e dentro da la lor
fiamma si geme
l´agguato del caval che
fé la porta
onde uscì de´ Romani il
gentil seme.
Piangevisi entro l´arte
per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol
d´Achille,
e del Palladio pena vi
si porta".
"S´ei posson
dentro da quelle faville
parlar", diss´ io,
"maestro, assai ten priego
e ripriego, che ´l
priego vaglia mille,
che non mi facci de l´attender
niego
fin che la fiamma
cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver´
lei mi piego!".
Ed elli a me: "La
tua preghiera è degna
di molta loda, e io però
l´accetto;
ma fa che la tua lingua
si sostegna.
Lascia parlare a me, ch´i´
ho concetto
ciò che tu vuoi; ch´ei
sarebbero schivi,
perch´ e´ fuor greci,
forse del tuo detto".
Poi che la fiamma fu
venuta quivi
dove parve al mio duca
tempo e loco,
in questa forma lui
parlare audivi:
"O voi che siete
due dentro ad un foco,
s´io meritai di voi
mentre ch´io vissi,
s´io meritai di voi
assai o poco
quando nel mondo li
alti versi scrissi,
non vi movete; ma l´un
di voi dica
dove, per lui, perduto
a morir gissi".
Lo maggior corno de la
fiamma antica
cominciò a crollarsi
mormorando,
pur come quella cui
vento affatica;
indi la cima qua e là
menando,
come fosse la lingua
che parlasse,
gittò voce di fuori e
disse: "Quando
mi diparti´ da Circe,
che sottrasse
me più d´un anno là
presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la
nomasse,
né dolcezza di figlio,
né la pieta
del vecchio padre, né ´l
debito amore
lo qual dovea Penelopè
far lieta,
vincer potero dentro a
me l´ardore
ch´i´ ebbi a divenir
del mondo esperto
e de li vizi umani e
del valore;
ma misi me per l´alto
mare aperto
sol con un legno e con
quella compagna
picciola da la qual non
fui diserto.
L´un lito e l´altro
vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l´isola
d´i Sardi,
e l´altre che quel mare
intorno bagna.
Io e ´ compagni eravam
vecchi e tardi
quando venimmo a quella
foce stretta
dov´ Ercule segnò li
suoi riguardi
acciò che l´uom più
oltre non si metta;
da la man destra mi
lasciai Sibilia,
da l´altra già m´avea
lasciata Setta.
"O frati",
dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a
l´occidente,
a questa tanto picciola
vigilia
d´i nostri sensi ch´è
del rimanente
non vogliate negar l´esperïenza,
di retro al sol, del
mondo sanza gente.
Considerate la vostra
semenza:
fatti non foste a viver
come bruti,
ma per seguir virtute e
canoscenza".
Li miei compagni fec´
io sì aguti,
con questa orazion
picciola, al cammino,
che a pena poscia li
avrei ritenuti;
e volta nostra poppa
nel mattino,
de´ remi facemmo ali al
folle volo,
sempre acquistando dal
lato mancino.
Tutte le stelle già de
l´altro polo
vedea la notte, e ´l
nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del
marin suolo.
Cinque volte racceso e
tante casso
lo lume era di sotto da
la luna,
poi che ´ntrati eravam
ne l´alto passo,
quando n´apparve una
montagna, bruna
per la distanza, e
parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa
alcuna.
Noi ci allegrammo, e
tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un
turbo nacque
e percosse del legno il
primo canto.
Tre volte il fé girar
con tutte l´acque;
a la quarta levar la
poppa in suso
e la prora ire in giù,
com´ altrui piacque,
infin che ´l mar fu
sovra noi richiuso".
Già era dritta in sù la
fiamma e queta
per non dir più, e già
da noi sen gia
con la licenza del
dolce poeta,
quand´ un´altra, che
dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi
a la sua cima
per un confuso suon che
fuor n´uscia.
Come ´l bue cicilian
che mugghiò prima
col pianto di colui, e
ciò fu dritto,
che l´avea temperato
con sua lima,
mugghiava con la voce
de l´afflitto,
sì che, con tutto che
fosse di rame,
pur el pareva dal dolor
trafitto;
così, per non aver via
né forame
dal principio nel foco,
in suo linguaggio
si convertïan le parole
grame.
Ma poscia ch´ebber
colto lor vïaggio
su per la punta,
dandole quel guizzo
che dato avea la lingua
in lor passaggio,
udimmo dire: "O tu
a cu´ io drizzo
la voce e che parlavi
mo lombardo,
dicendo "Istra ten
va, più non t´adizzo",
perch´ io sia giunto
forse alquanto tardo,
non t´incresca restare
a parlar meco;
vedi che non incresce a
me, e ardo!
Se tu pur mo in questo
mondo cieco
caduto se´ di quella dolce
terra
latina ond´ io mia
colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han
pace o guerra;
ch´io fui d´i monti là
intra Orbino
e ´l giogo di che Tever
si diserra".
Io era in giuso ancora
attento e chino,
quando il mio duca mi
tentò di costa,
dicendo: "Parla
tu; questi è latino".
E io, ch´avea già
pronta la risposta,
sanza indugio a parlare
incominciai:
"O anima che se´ là
giù nascosta,
Romagna tua non è, e
non fu mai,
sanza guerra ne´ cuor
de´ suoi tiranni;
ma ´n palese nessuna or
vi lasciai.
Ravenna sta come stata è
molt´ anni:
l´aguglia da Polenta la
si cova,
sì che Cervia ricuopre
co´ suoi vanni.
La terra che fé già la
lunga prova
e di Franceschi
sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi
si ritrova.
E ´l mastin vecchio e ´l
nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna
il mal governo,
là dove soglion fan d´i
denti succhio.
Le città di Lamone e di
Santerno
conduce il lïoncel dal
nido bianco,
che muta parte da la
state al verno.
E quella cu´ il Savio
bagna il fianco,
così com´ ella sie´ tra
´l piano e ´l monte,
tra tirannia si vive e
stato franco.
Ora chi se´, ti priego
che ne conte;
non esser duro più ch´altri
sia stato,
se ´l nome tuo nel
mondo tegna fronte".
Poscia che ´l foco
alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l´aguta
punta mosse
di qua, di là, e poi diè
cotal fiato:
"S´i´ credesse che
mia risposta fosse
a persona che mai
tornasse al mondo,
questa fiamma staria
sanza più scosse;
ma però che già mai di
questo fondo
non tornò vivo alcun, s´i´
odo il vero,
sanza tema d´infamia ti
rispondo.
Io fui uom d´arme, e
poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto,
fare ammenda;
e certo il creder mio
venìa intero,
se non fosse il gran
prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le
prime colpe;
e come e quare, voglio
che m´intenda.
Mentre ch´io forma fui
d´ossa e di polpe
che la madre mi diè, l´opere
mie
non furon leonine, ma
di volpe.
Li accorgimenti e le
coperte vie
io seppi tutte, e sì
menai lor arte,
ch´al fine de la terra il
suono uscie.
Quando mi vidi giunto
in quella parte
di mia etade ove
ciascun dovrebbe
calar le vele e
raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa,
allor m´increbbe,
e pentuto e confesso mi
rendei;
ahi miser lasso! e
giovato sarebbe.
Lo principe d´i novi
Farisei,
avendo guerra presso a
Laterano,
e non con Saracin né
con Giudei,
ché ciascun suo nimico
era cristiano,
e nessun era stato a
vincer Acri
né mercatante in terra
di Soldano,
né sommo officio né
ordini sacri
guardò in sé, né in me
quel capestro
che solea fare i suoi
cinti più macri.
Ma come Costantin
chiese Silvestro
d´entro Siratti a
guerir de la lebbre,
così mi chiese questi
per maestro
a guerir de la sua
superba febbre;
domandommi consiglio, e
io tacetti
perché le sue parole
parver ebbre.
E´ poi ridisse:
"Tuo cuor non sospetti;
finor t´assolvo, e tu m´insegna
fare
sì come Penestrino in
terra getti.
Lo ciel poss´ io
serrare e diserrare,
come tu sai; però son
due le chiavi
che ´l mio antecessor
non ebbe care".
Allor mi pinser li
argomenti gravi
là ´ve ´l tacer mi fu
avviso ´l peggio,
e dissi: "Padre,
da che tu mi lavi
di quel peccato ov´ io
mo cader deggio,
lunga promessa con l´attender
corto
ti farà trïunfar ne l´alto
seggio".
Francesco venne poi,
com´ io fu´ morto,
per me; ma un d´i neri
cherubini
li disse: "Non
portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra
´ miei meschini
perché diede ´l
consiglio frodolente,
dal quale in qua stato
li sono a´ crini;
ch´assolver non si può
chi non si pente,
né pentere e volere
insieme puossi
per la contradizion che
nol consente".
Oh me dolente! come mi
riscossi
quando mi prese
dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch´io löico
fossi!".
A Minòs mi portò; e
quelli attorse
otto volte la coda al
dosso duro;
e poi che per gran
rabbia la si morse,
disse: "Questi è d´i
rei del foco furo";
per ch´io là dove vedi
son perduto,
e sì vestito, andando,
mi rancuro".
Quand´ elli ebbe ´l suo
dir così compiuto,
la fiamma dolorando si
partio,
torcendo e dibattendo ´l
corno aguto.
Noi passamm´ oltre, e
io e ´l duca mio,
su per lo scoglio
infino in su l´altr´ arco
che cuopre ´l fosso in
che si paga il fio
a quei che scommettendo
acquistan carco.
Chi poria mai pur con
parole sciolte
dicer del sangue e de
le piaghe a pieno
ch´i´ ora vidi, per
narrar più volte?
Ogne lingua per certo
verria meno
per lo nostro sermone e
per la mente
c´hanno a tanto
comprender poco seno.
S´el s´aunasse ancor
tutta la gente
che già, in su la
fortunata terra
di Puglia, fu del suo
sangue dolente
per li Troiani e per la
lunga guerra
che de l´anella fé sì
alte spoglie,
come Livïo scrive, che
non erra,
con quella che sentio
di colpi doglie
per contastare a
Ruberto Guiscardo;
e l´altra il cui ossame
ancor s´accoglie
a Ceperan, là dove fu
bugiardo
ciascun Pugliese, e là
da Tagliacozzo,
dove sanz´ arme vinse
il vecchio Alardo;
e qual forato suo
membro e qual mozzo
mostrasse, d´aequar
sarebbe nulla
il modo de la nona
bolgia sozzo.
Già veggia, per mezzul
perdere o lulla,
com´ io vidi un, così
non si pertugia,
rotto dal mento infin
dove si trulla.
Tra le gambe pendevan
le minugia;
la corata pareva e ´l
tristo sacco
che merda fa di quel
che si trangugia.
Mentre che tutto in lui
veder m´attacco,
guardommi e con le man
s´aperse il petto,
dicendo: "Or vedi
com´ io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va
piangendo Alì,
fesso nel volto dal
mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu
vedi qui,
seminator di scandalo e
di scisma
fuor vivi, e però son
fessi così.
Un diavolo è qua dietro
che n´accisma
sì crudelmente, al
taglio de la spada
rimettendo ciascun di
questa risma,
quand´ avem volta la
dolente strada;
però che le ferite son
richiuse
prima ch´altri dinanzi
li rivada.
Ma tu chi se´ che ´n su
lo scoglio muse,
forse per indugiar d´ire
a la pena
ch´è giudicata in su le
tue accuse?".
"Né morte ´l
giunse ancor, né colpa ´l mena",
rispuose ´l mio maestro,
"a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza
piena,
a me, che morto son,
convien menarlo
per lo ´nferno qua giù
di giro in giro;
e quest´ è ver così com´
io ti parlo".
Più fuor di cento che,
quando l´udiro,
s´arrestaron nel fosso
a riguardarmi
per maraviglia, oblïando
il martiro.
"Or dì a fra
Dolcin dunque che s´armi,
tu che forse vedra´ il
sole in breve,
s´ello non vuol qui
tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che
stretta di neve
non rechi la vittoria
al Noarese,
ch´altrimenti acquistar
non saria leve".
Poi che l´un piè per
girsene sospese,
Mäometto mi disse esta
parola;
indi a partirsi in
terra lo distese.
Un altro, che forata
avea la gola
e tronco ´l naso infin
sotto le ciglia,
e non avea mai ch´una
orecchia sola,
ristato a riguardar per
maraviglia
con li altri, innanzi a
li altri aprì la canna,
ch´era di fuor d´ogne
parte vermiglia,
e disse: "O tu cui
colpa non condanna
e cu´ io vidi su in
terra latina,
se troppa simiglianza
non m´inganna,
rimembriti di Pier da
Medicina,
se mai torni a veder lo
dolce piano
che da Vercelli a
Marcabò dichina.
E fa saper a´ due
miglior da Fano,
a messer Guido e anco
ad Angiolello,
che, se l´antiveder qui
non è vano,
gittati saran fuor di
lor vasello
e mazzerati presso a la
Cattolica
per tradimento d´un
tiranno fello.
Tra l´isola di Cipri e
di Maiolica
non vide mai sì gran
fallo Nettuno,
non da pirate, non da
gente argolica.
Quel traditor che vede
pur con l´uno,
e tien la terra che
tale qui meco
vorrebbe di vedere
esser digiuno,
farà venirli a
parlamento seco;
poi farà sì, ch´al
vento di Focara
non sarà lor mestier
voto né preco".
E io a lui:
"Dimostrami e dichiara,
se vuo´ ch´i´ porti sù
di te novella,
chi è colui da la
veduta amara".
Allor puose la mano a
la mascella
d´un suo compagno e la
bocca li aperse,
gridando: "Questi è
desso, e non favella.
Questi, scacciato, il
dubitar sommerse
in Cesare, affermando
che ´l fornito
sempre con danno l´attender
sofferse".
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata
ne la strozza
Curïo, ch´a dir fu così
ardito!
E un ch´avea l´una e l´altra
man mozza,
levando i moncherin per
l´aura fosca,
sì che ´l sangue facea
la faccia sozza,
gridò: "Ricordera´ti
anche del Mosca,
che disse, lasso!,
"Capo ha cosa fatta",
che fu mal seme per la
gente tosca".
E io li aggiunsi:
"E morte di tua schiatta";
per ch´elli,
accumulando duol con duolo,
sen gio come persona
trista e matta.
Ma io rimasi a
riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch´io avrei
paura,
sanza più prova, di
contarla solo;
se non che coscïenza m´assicura,
la buona compagnia che
l´uom francheggia
sotto l´asbergo del
sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor
par ch´io ´l veggia,
un busto sanza capo
andar sì come
andavan li altri de la
trista greggia;
e ´l capo tronco tenea
per le chiome,
pesol con mano a guisa
di lanterna:
e quel mirava noi e
dicea: "Oh me!".
Di sé facea a sé stesso
lucerna,
ed eran due in uno e
uno in due;
com´ esser può, quei sa
che sì governa.
Quando diritto al piè
del ponte fue,
levò ´l braccio alto
con tutta la testa
per appressarne le
parole sue,
che fuoro: "Or
vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai
veggendo i morti:
vedi s´alcuna è grande
come questa.
E perché tu di me novella
porti,
sappi ch´i´ son Bertram
dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane
i ma´ conforti.
Io feci il padre e ´l
figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d´Absalone
e di Davìd coi malvagi
punzelli.
Perch´ io parti´ così
giunte persone,
partito porto il mio
cerebro, lasso!,
dal suo principio ch´è
in questo troncone.
Così s´osserva in me lo
contrapasso".
La molta gente e le
diverse piaghe
avean le luci mie sì
inebrïate,
che de lo stare a
piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse:
"Che pur guate?
perché la vista tua pur
si soffolge
là giù tra l´ombre
triste smozzicate?
Tu non hai fatto sì a l´altre
bolge;
pensa, se tu annoverar
le credi,
che miglia ventidue la
valle volge.
E già la luna è sotto i
nostri piedi;
lo tempo è poco omai
che n´è concesso,
e altro è da veder che
tu non vedi".
"Se tu
avessi", rispuos´ io appresso,
"atteso a la
cagion per ch´io guardava,
forse m´avresti ancor
lo star dimesso".
Parte sen giva, e io
retro li andava,
lo duca, già faccendo
la risposta,
e soggiugnendo:
"Dentro a quella cava
dov´ io tenea or li
occhi sì a posta,
credo ch´un spirto del
mio sangue pianga
la colpa che là giù
cotanto costa".
Allor disse ´l maestro:
"Non si franga
lo tuo pensier da qui
innanzi sovr´ ello.
Attendi ad altro, ed ei
là si rimanga;
ch´io vidi lui a piè
del ponticello
mostrarti e minacciar
forte col dito,
e udi´ ´l nominar Geri
del Bello.
Tu eri allor sì del
tutto impedito
sovra colui che già
tenne Altaforte,
che non guardasti in là,
sì fu partito".
"O duca mio, la vïolenta
morte
che non li è vendicata
ancor", diss´ io,
"per alcun che de
l´onta sia consorte,
fece lui disdegnoso;
ond´ el sen gio
sanza parlarmi, sì com´
ïo estimo:
e in ciò m´ha el fatto
a sé più pio".
Così parlammo infino al
loco primo
che de lo scoglio l´altra
valle mostra,
se più lume vi fosse,
tutto ad imo.
Quando noi fummo sor l´ultima
chiostra
di Malebolge, sì che i
suoi conversi
potean parere a la
veduta nostra,
lamenti saettaron me
diversi,
che di pietà ferrati
avean li strali;
ond´ io li orecchi con
le man copersi.
Qual dolor fora, se de
li spedali
di Valdichiana tra ´l
luglio e ´l settembre
e di Maremma e di
Sardigna i mali
fossero in una fossa
tutti ´nsembre,
tal era quivi, e tal
puzzo n´usciva
qual suol venir de le
marcite membre.
Noi discendemmo in su l´ultima
riva
del lungo scoglio, pur
da man sinistra;
e allor fu la mia vista
più viva
giù ver´ lo fondo, la ´ve
la ministra
de l´alto Sire infallibil
giustizia
punisce i falsador che
qui registra.
Non credo ch´a veder
maggior tristizia
fosse in Egina il popol
tutto infermo,
quando fu l´aere sì
pien di malizia,
che li animali, infino
al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi
le genti antiche,
secondo che i poeti
hanno per fermo,
si ristorar di seme di
formiche;
ch´era a veder per
quella oscura valle
languir li spirti per
diverse biche.
Qual sovra ´l ventre e
qual sovra le spalle
l´un de l´altro giacea,
e qual carpone
si trasmutava per lo
tristo calle.
Passo passo andavam
sanza sermone,
guardando e ascoltando
li ammalati,
che non potean levar le
lor persone.
Io vidi due sedere a sé
poggiati,
com´ a scaldar si
poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di
schianze macolati;
e non vidi già mai
menare stregghia
a ragazzo aspettato dal
segnorso,
né a colui che mal
volontier vegghia,
come ciascun menava
spesso il morso
de l´unghie sopra sé
per la gran rabbia
del pizzicor, che non
ha più soccorso;
e sì traevan giù l´unghie
la scabbia,
come coltel di scardova
le scaglie
o d´altro pesce che più
larghe l´abbia.
"O tu che con le
dita ti dismaglie",
cominciò ´l duca mio a
l´un di loro,
"e che fai d´esse
talvolta tanaglie,
dinne s´alcun Latino è
tra costoro
che son quinc´ entro,
se l´unghia ti basti
etternalmente a cotesto
lavoro".
"Latin siam noi,
che tu vedi sì guasti
qui ambedue",
rispuose l´un piangendo;
"ma tu chi se´ che
di noi dimandasti?".
E ´l duca disse:
"I´ son un che discendo
con questo vivo giù di
balzo in balzo,
e di mostrar lo ´nferno
a lui intendo".
Allor si ruppe lo comun
rincalzo;
e tremando ciascuno a
me si volse
con altri che l´udiron
di rimbalzo.
Lo buon maestro a me
tutto s´accolse,
dicendo: "Dì a lor
ciò che tu vuoli";
e io incominciai,
poscia ch´ei volse:
"Se la vostra
memoria non s´imboli
nel primo mondo da l´umane
menti,
ma s´ella viva sotto
molti soli,
ditemi chi voi siete e
di che genti;
la vostra sconcia e
fastidiosa pena
di palesarvi a me non
vi spaventi".
"Io fui d´Arezzo,
e Albero da Siena",
rispuose l´un, "mi
fé mettere al foco;
ma quel per ch´io mori´
qui non mi mena.
Vero è ch´i´ dissi lui,
parlando a gioco:
"I´ mi saprei
levar per l´aere a volo";
e quei, ch´avea
vaghezza e senno poco,
volle ch´i´ li
mostrassi l´arte; e solo
perch´ io nol feci
Dedalo, mi fece
ardere a tal che l´avea
per figliuolo.
Ma ne l´ultima bolgia
de le diece
me per l´alchìmia che
nel mondo usai
dannò Minòs, a cui
fallar non lece".
E io dissi al poeta: "Or
fu già mai
gente sì vana come la
sanese?
Certo non la francesca
sì d´assai!".
Onde l´altro lebbroso,
che m´intese,
rispuose al detto mio:
"Tra´mene Stricca
che seppe far le
temperate spese,
e Niccolò che la
costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l´orto dove tal seme
s´appicca;
e tra´ne la brigata in
che disperse
Caccia d´Ascian la
vigna e la gran fonda,
e l´Abbagliato suo
senno proferse.
Ma perché sappi chi sì
ti seconda
contra i Sanesi, aguzza
ver´ me l´occhio,
sì che la faccia mia
ben ti risponda:
sì vedrai ch´io son l´ombra
di Capocchio,
che falsai li metalli
con l´alchìmia;
e te dee ricordar, se
ben t´adocchio,
com´ io fui di natura
buona scimia".
Nel tempo che Iunone
era crucciata
per Semelè contra ´l
sangue tebano,
come mostrò una e altra
fïata,
Atamante divenne tanto
insano,
che veggendo la moglie
con due figli
andar carcata da
ciascuna mano,
gridò: "Tendiam le
reti, sì ch´io pigli
la leonessa e ´
leoncini al varco";
e poi distese i
dispietati artigli,
prendendo l´un ch´avea
nome Learco,
e rotollo e percosselo
ad un sasso;
e quella s´annegò con l´altro
carco.
E quando la fortuna
volse in basso
l´altezza de´ Troian
che tutto ardiva,
sì che ´nsieme col
regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e
cattiva,
poscia che vide
Polissena morta,
e del suo Polidoro in
su la riva
del mar si fu la
dolorosa accorta,
forsennata latrò sì
come cane;
tanto il dolor le fé la
mente torta.
Ma né di Tebe furie né
troiane
si vider mäi in alcun
tanto crude,
non punger bestie,
nonché membra umane,
quant´ io vidi in due
ombre smorte e nude,
che mordendo correvan
di quel modo
che ´l porco quando del
porcil si schiude.
L´una giunse a
Capocchio, e in sul nodo
del collo l´assannò, sì
che, tirando,
grattar li fece il
ventre al fondo sodo.
E l´Aretin che rimase,
tremando
mi disse: "Quel
folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui
così conciando".
"Oh", diss´
io lui, "se l´altro non ti ficchi
li denti a dosso, non
ti sia fatica
a dir chi è, pria che
di qui si spicchi".
Ed elli a me:
"Quell´ è l´anima antica
di Mirra scellerata,
che divenne
al padre, fuor del
dritto amore, amica.
Questa a peccar con
esso così venne,
falsificando sé in
altrui forma,
come l´altro che là sen
va, sostenne,
per guadagnar la donna
de la torma,
falsificare in sé Buoso
Donati,
testando e dando al
testamento norma".
E poi che i due
rabbiosi fuor passati
sovra cu´ io avea l´occhio
tenuto,
rivolsilo a guardar li
altri mal nati.
Io vidi un, fatto a
guisa di lëuto,
pur ch´elli avesse
avuta l´anguinaia
tronca da l´altro che l´uomo
ha forcuto.
La grave idropesì, che
sì dispaia
le membra con l´omor
che mal converte,
che ´l viso non
risponde a la ventraia,
faceva lui tener le
labbra aperte
come l´etico fa, che
per la sete
l´un verso ´l mento e l´altro
in sù rinverte.
"O voi che sanz´
alcuna pena siete,
e non so io perché, nel
mondo gramo",
diss´ elli a noi,
"guardate e attendete
a la miseria del maestro
Adamo;
io ebbi, vivo, assai di
quel ch´i´ volli,
e ora, lasso!, un
gocciol d´acqua bramo.
Li ruscelletti che d´i
verdi colli
del Casentin discendon
giuso in Arno,
faccendo i lor canali
freddi e molli,
sempre mi stanno
innanzi, e non indarno,
ché l´imagine lor vie
più m´asciuga
che ´l male ond´ io nel
volto mi discarno.
La rigida giustizia che
mi fruga
tragge cagion del loco
ov´ io peccai
a metter più li miei
sospiri in fuga.
Ivi è Romena, là dov´
io falsai
la lega suggellata del
Batista;
per ch´io il corpo sù
arso lasciai.
Ma s´io vedessi qui l´anima
trista
di Guido o d´Alessandro
o di lor frate,
per Fonte Branda non
darei la vista.
Dentro c´è l´una già,
se l´arrabbiate
ombre che vanno intorno
dicon vero;
ma che mi val, c´ho le
membra legate?
S´io fossi pur di tanto
ancor leggero
ch´i´ potessi in cent´
anni andare un´oncia,
io sarei messo già per
lo sentiero,
cercando lui tra questa
gente sconcia,
con tutto ch´ella volge
undici miglia,
e men d´un mezzo di traverso
non ci ha.
Io son per lor tra sì
fatta famiglia;
e´ m´indussero a batter
li fiorini
ch´avevan tre carati di
mondiglia".
E io a lui: "Chi
son li due tapini
che fumman come man
bagnate ´l verno,
giacendo stretti a´
tuoi destri confini?".
"Qui li trovai, e
poi volta non dierno,",
rispuose, "quando
piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno
in sempiterno.
L´una è la falsa ch´accusò
Gioseppo;
l´altr´ è ´l falso
Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan
tanto leppo".
E l´un di lor, che si
recò a noia
forse d´esser nomato sì
oscuro,
col pugno li percosse l´epa
croia.
Quella sonò come fosse
un tamburo;
e mastro Adamo li
percosse il volto
col braccio suo, che
non parve men duro,
dicendo a lui:
"Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra
che son gravi,
ho io il braccio a tal
mestiere sciolto".
Ond´ ei rispuose:
"Quando tu andavi
al fuoco, non l´avei tu
così presto;
ma sì e più l´avei
quando coniavi".
E l´idropico: "Tu
di´ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver
testimonio
là ´ve del ver fosti a
Troia richesto".
"S´io dissi falso,
e tu falsasti il conio",
disse Sinon; "e
son qui per un fallo,
e tu per più ch´alcun
altro demonio!".
"Ricorditi,
spergiuro, del cavallo",
rispuose quel ch´avëa
infiata l´epa;
"e sieti reo che
tutto il mondo sallo!".
"E te sia rea la
sete onde ti crepa",
disse ´l Greco,
"la lingua, e l´acqua marcia
che ´l ventre innanzi a
li occhi sì t´assiepa!".
Allora il monetier:
"Così si squarcia
la bocca tua per tuo
mal come suole;
ché, s´i´ ho sete e
omor mi rinfarcia,
tu hai l´arsura e ´l
capo che ti duole,
e per leccar lo
specchio di Narcisso,
non vorresti a ´nvitar
molte parole".
Ad ascoltarli er´ io
del tutto fisso,
quando ´l maestro mi
disse: "Or pur mira,
che per poco che teco
non mi risso!".
Quand´ io ´l senti´ a
me parlar con ira,
volsimi verso lui con
tal vergogna,
ch´ancor per la memoria
mi si gira.
Qual è colui che suo
dannaggio sogna,
che sognando desidera
sognare,
sì che quel ch´è, come
non fosse, agogna,
tal mi fec´ io, non
possendo parlare,
che disïava scusarmi, e
scusava
me tuttavia, e nol mi
credea fare.
"Maggior difetto
men vergogna lava",
disse ´l maestro,
"che ´l tuo non è stato;
però d´ogne trestizia
ti disgrava.
E fa ragion ch´io ti
sia sempre allato,
se più avvien che
fortuna t´accoglia
dove sien genti in
simigliante piato:
ché voler ciò udire è
bassa voglia".
Una medesma lingua pria
mi morse,
sì che mi tinse l´una e
l´altra guancia,
e poi la medicina mi
riporse;
così od´ io che solea
far la lancia
d´Achille e del suo
padre esser cagione
prima di trista e poi
di buona mancia.
Noi demmo il dosso al
misero vallone
su per la ripa che ´l
cinge dintorno,
attraversando sanza
alcun sermone.
Quiv´ era men che notte
e men che giorno,
sì che ´l viso m´andava
innanzi poco;
ma io senti´ sonare un
alto corno,
tanto ch´avrebbe ogne
tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua
via seguitando,
dirizzò li occhi miei
tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta,
quando
Carlo Magno perdé la
santa gesta,
non sonò sì
terribilmente Orlando.
Poco portäi in là volta
la testa,
che me parve veder
molte alte torri;
ond´ io: "Maestro,
dì, che terra è questa?".
Ed elli a me: "Però
che tu trascorri
per le tenebre troppo
da la lungi,
avvien che poi nel
maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu là
ti congiungi,
quanto ´l senso s´inganna
di lontano;
però alquanto più te
stesso pungi".
Poi caramente mi prese
per mano
e disse: "Pria che
noi siam più avanti,
acciò che ´l fatto men
ti paia strano,
sappi che non son
torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno
da la ripa
da l´umbilico in giuso
tutti quanti".
Come quando la nebbia
si dissipa,
lo sguardo a poco a
poco raffigura
ciò che cela ´l vapor
che l´aere stipa,
così forando l´aura
grossa e scura,
più e più appressando
ver´ la sponda,
fuggiemi errore e
cresciemi paura;
però che, come su la
cerchia tonda
Montereggion di torri
si corona,
così la proda che ´l
pozzo circonda
torreggiavan di mezza
la persona
li orribili giganti,
cui minaccia
Giove del cielo ancora
quando tuona.
E io scorgeva già d´alcun
la faccia,
le spalle e ´l petto e
del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo
le braccia.
Natura certo, quando lasciò
l´arte
di sì fatti animali,
assai fé bene
per tòrre tali
essecutori a Marte.
E s´ella d´elefanti e
di balene
non si pente, chi
guarda sottilmente,
più giusta e più
discreta la ne tene;
ché dove l´argomento de
la mente
s´aggiugne al mal volere
e a la possa,
nessun riparo vi può
far la gente.
La faccia sua mi parea
lunga e grossa
come la pina di San
Pietro a Roma,
e a sua proporzione
eran l´altre ossa;
sì che la ripa, ch´era
perizoma
dal mezzo in giù, ne
mostrava ben tanto
di sovra, che di
giugnere a la chioma
tre Frison s´averien
dato mal vanto;
però ch´i´ ne vedea
trenta gran palmi
dal loco in giù dov´
omo affibbia ´l manto.
"Raphèl maì amècche
zabì almi",
cominciò a gridar la
fiera bocca,
cui non si convenia più
dolci salmi.
E ´l duca mio ver´ lui:
"Anima sciocca,
tienti col corno, e con
quel ti disfoga
quand´ ira o altra passïon
ti tocca!
Cércati al collo, e
troverai la soga
che ´l tien legato, o
anima confusa,
e vedi lui che ´l gran
petto ti doga".
Poi disse a me:
"Elli stessi s´accusa;
questi è Nembrotto per
lo cui mal coto
pur un linguaggio nel
mondo non s´usa.
Lasciànlo stare e non
parliamo a vòto;
ché così è a lui
ciascun linguaggio
come ´l suo ad altrui,
ch´a nullo è noto".
Facemmo adunque più
lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al
trar d´un balestro
trovammo l´altro assai
più fero e maggio.
A cigner lui qual che
fosse ´l maestro,
non so io dir, ma el
tenea soccinto
dinanzi l´altro e
dietro il braccio destro
d´una catena che ´l
tenea avvinto
dal collo in giù, sì
che ´n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al
giro quinto.
"Questo superbo
volle esser esperto
di sua potenza contra ´l
sommo Giove",
disse ´l mio duca,
"ond´ elli ha cotal merto.
Fïalte ha nome, e fece
le gran prove
quando i giganti fer
paura a´ dèi;
le braccia ch´el menò,
già mai non move".
E io a lui: "S´esser
puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo
esperïenza avesser li
occhi mei".
Ond´ ei rispuose:
"Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla
ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo
d´ogne reo.
Quel che tu vuo´ veder,
più là è molto
ed è legato e fatto
come questo,
salvo che più feroce
par nel volto".
Non fu tremoto già
tanto rubesto,
che scotesse una torre
così forte,
come Fïalte a scuotersi
fu presto.
Allor temett´ io più
che mai la morte,
e non v´era mestier più
che la dotta,
s´io non avessi viste
le ritorte.
Noi procedemmo più
avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che
ben cinque alle,
sanza la testa, uscia
fuor de la grotta.
"O tu che ne la
fortunata valle
che fece Scipïon di
gloria reda,
quand´ Anibàl co´ suoi
diede le spalle,
recasti già mille leon
per preda,
e che, se fossi stato a
l´alta guerra
de´ tuoi fratelli,
ancor par che si creda
ch´avrebber vinto i figli
de la terra:
mettine giù, e non ten
vegna schifo,
dove Cocito la freddura
serra.
Non ci fare ire a Tizio
né a Tifo:
questi può dar di quel
che qui si brama;
però ti china e non
torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo
render fama,
ch´el vive, e lunga
vita ancor aspetta
se ´nnanzi tempo grazia
a sé nol chiama".
Così disse ´l maestro;
e quelli in fretta
le man distese, e prese
´l duca mio,
ond´ Ercule sentì già
grande stretta.
Virgilio, quando
prender si sentio,
disse a me: "Fatti
qua, sì ch´io ti prenda";
poi fece sì ch´un
fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar
la Carisenda
sotto ´l chinato,
quando un nuvol vada
sovr´ essa sì, ched
ella incontro penda:
tal parve Antëo a me
che stava a bada
di vederlo chinare, e
fu tal ora
ch´i´ avrei voluto ir
per altra strada.
Ma lievemente al fondo
che divora
Lucifero con Giuda, ci
sposò;
né, sì chinato, lì fece
dimora,
e come albero in nave
si levò.
S´ïo avessi le rime
aspre e chiocce,
come si converrebbe al
tristo buco
sovra ´l qual pontan
tutte l´altre rocce,
io premerei di mio
concetto il suco
più pienamente; ma
perch´ io non l´abbo,
non sanza tema a dicer
mi conduco;
ché non è impresa da
pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto
l´universo,
né da lingua che chiami
mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino
il mio verso
ch´aiutaro Anfïone a
chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir
non sia diverso.
Oh sovra tutte mal
creata plebe
che stai nel loco onde
parlare è duro,
mei foste state qui
pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel
pozzo scuro
sotto i piè del gigante
assai più bassi,
e io mirava ancora a l´alto
muro,
dicere udi´mi:
"Guarda come passi:
va sì, che tu non
calchi con le piante
le teste de´ fratei
miseri lassi".
Per ch´io mi volsi, e
vidimi davante
e sotto i piedi un lago
che per gelo
avea di vetro e non d´acqua
sembiante.
Non fece al corso suo sì
grosso velo
di verno la Danoia in
Osterlicchi,
né Tanaï là sotto ´l
freddo cielo,
com´ era quivi; che se
Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o
Pietrapana,
non avria pur da l´orlo
fatto cricchi.
E come a gracidar si
sta la rana
col muso fuor de l´acqua,
quando sogna
di spigolar sovente la
villana,
livide, insin là dove
appar vergogna
eran l´ombre dolenti ne
la ghiaccia,
mettendo i denti in
nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea
volta la faccia;
da bocca il freddo, e
da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza
si procaccia.
Quand´ io m´ebbi
dintorno alquanto visto,
volsimi a´ piedi, e
vidi due sì stretti,
che ´l pel del capo
avieno insieme misto.
"Ditemi, voi che sì
strignete i petti",
diss´ io, "chi
siete?". E quei piegaro i colli;
e poi ch´ebber li visi
a me eretti,
li occhi lor, ch´eran
pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra,
e ´l gelo strinse
le lagrime tra essi e
riserrolli.
Con legno legno spranga
mai non cinse
forte così; ond´ ei
come due becchi
cozzaro insieme, tanta
ira li vinse.
E un ch´avea perduti
ambo li orecchi
per la freddura, pur
col viso in giùe,
disse: "Perché
cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son
cotesti due,
la valle onde Bisenzo
si dichina
del padre loro Alberto
e di lor fue.
D´un corpo usciro; e
tutta la Caina
potrai cercare, e non
troverai ombra
degna più d´esser fitta
in gelatina:
non quelli a cui fu
rotto il petto e l´ombra
con esso un colpo per
la man d´Artù;
non Focaccia; non
questi che m´ingombra
col capo sì, ch´i´ non
veggio oltre più,
e fu nomato Sassol
Mascheroni;
se tosco se´, ben sai
omai chi fu.
E perché non mi metti
in più sermoni,
sappi ch´i´ fu´ il
Camiscion de´ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi
scagioni".
Poscia vid´ io mille
visi cagnazzi
fatti per freddo; onde
mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de´
gelati guazzi.
E mentre ch´andavamo inver´
lo mezzo
al quale ogne gravezza
si rauna,
e io tremava ne l´etterno
rezzo;
se voler fu o destino o
fortuna,
non so; ma,
passeggiando tra le teste,
forte percossi ´l piè
nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò:
"Perché mi peste?
se tu non vieni a
crescer la vendetta
di Montaperti, perché
mi moleste?".
E io: "Maestro
mio, or qui m´aspetta,
sì ch´io esca d´un
dubbio per costui;
poi mi farai,
quantunque vorrai, fretta".
Lo duca stette, e io
dissi a colui
che bestemmiava
duramente ancora:
"Qual se´ tu che
così rampogni altrui?".
"Or tu chi se´ che
vai per l´Antenora,
percotendo",
rispuose, "altrui le gote,
sì che, se fossi vivo,
troppo fora?".
"Vivo son io, e
caro esser ti puote",
fu mia risposta,
"se dimandi fama,
ch´io metta il nome tuo
tra l´altre note".
Ed elli a me: "Del
contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi
dar più lagna,
ché mal sai lusingar
per questa lama!".
Allor lo presi per la
cuticagna
e dissi: "El
converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non
ti rimagna".
Ond´ elli a me:
"Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch´io sia, né
mosterrolti,
se mille fiate in sul
capo mi tomi".
Io avea già i capelli
in mano avvolti,
e tratti glien´ avea più
d´una ciocca,
latrando lui con li
occhi in giù raccolti,
quando un altro gridò:
"Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con
le mascelle,
se tu non latri? qual
diavol ti tocca?".
"Omai", diss´
io, "non vo´ che più favelle,
malvagio traditor; ch´a
la tua onta
io porterò di te vere
novelle".
"Va via",
rispuose, "e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di
qua entro eschi,
di quel ch´ebbe or così
la lingua pronta.
El piange qui l´argento
de´ Franceschi:
"Io vidi",
potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori
stanno freschi".
Se fossi domandato
"Altri chi v´era?",
tu hai dallato quel di
Beccheria
di cui segò Fiorenza la
gorgiera.
Gianni de´ Soldanier
credo che sia
più là con Ganellone e
Tebaldello,
ch´aprì Faenza quando
si dormia".
Noi eravam partiti già
da ello,
ch´io vidi due
ghiacciati in una buca,
sì che l´un capo a l´altro
era cappello;
e come ´l pan per fame
si manduca,
così ´l sovran li denti
a l´altro pose
là ´ve ´l cervel s´aggiugne
con la nuca:
non altrimenti Tidëo si
rose
le tempie a Menalippo
per disdegno,
che quei faceva il
teschio e l´altre cose.
"O tu che mostri
per sì bestial segno
odio sovra colui che tu
ti mangi,
dimmi ´l perché",
diss´ io, "per tal convegno,
che se tu a ragion di
lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete
e la sua pecca,
nel mondo suso ancora
io te ne cangi,
se quella con ch´io
parlo non si secca".
La bocca sollevò dal
fiero pasto
quel peccator,
forbendola a´ capelli
del capo ch´elli avea
di retro guasto.
Poi cominciò: "Tu
vuo´ ch´io rinovelli
disperato dolor che ´l
cor mi preme
già pur pensando, pria
ch´io ne favelli.
Ma se le mie parole
esser dien seme
che frutti infamia al
traditor ch´i´ rodo,
parlar e lagrimar
vedrai insieme.
Io non so chi tu se´ né
per che modo
venuto se´ qua giù; ma
fiorentino
mi sembri veramente
quand´ io t´odo.
Tu dei saper ch´i´ fui
conte Ugolino,
e questi è l´arcivescovo
Ruggieri:
or ti dirò perché i son
tal vicino.
Che per l´effetto de´
suo´ mai pensieri,
fidandomi di lui, io
fossi preso
e poscia morto, dir non
è mestieri;
però quel che non puoi
avere inteso,
cioè come la morte mia
fu cruda,
udirai, e saprai s´e´ m´ha
offeso.
Breve pertugio dentro
da la Muda,
la qual per me ha ´l
titol de la fame,
e che conviene ancor ch´altrui
si chiuda,
m´avea mostrato per lo
suo forame
più lune già, quand´ io
feci ´l mal sonno
che del futuro mi
squarciò ´l velame.
Questi pareva a me
maestro e donno,
cacciando il lupo e ´
lupicini al monte
per che i Pisan veder
Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose
e conte
Gualandi con Sismondi e
con Lanfranchi
s´avea messi dinanzi da
la fronte.
In picciol corso mi
parieno stanchi
lo padre e ´ figli, e
con l´agute scane
mi parea lor veder
fender li fianchi.
Quando fui desto
innanzi la dimane,
pianger senti´ fra ´l
sonno i miei figliuoli
ch´eran con meco, e
dimandar del pane.
Ben se´ crudel, se tu
già non ti duoli
pensando ciò che ´l mio
cor s´annunziava;
e se non piangi, di che
pianger suoli?
Già eran desti, e l´ora
s´appressava
che ´l cibo ne solëa
essere addotto,
e per suo sogno ciascun
dubitava;
e io senti´ chiavar l´uscio
di sotto
a l´orribile torre; ond´
io guardai
nel viso a´ mie´
figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì
dentro impetrai:
piangevan elli; e
Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi
sì, padre! che hai?".
Perciò non lagrimai né
rispuos´ io
tutto quel giorno né la
notte appresso,
infin che l´altro sol
nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio
si fu messo
nel doloroso carcere, e
io scorsi
per quattro visi il mio
aspetto stesso,
ambo le man per lo
dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch´io ´l
fessi per voglia
di manicar, di sùbito
levorsi
e disser: "Padre,
assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu
ne vestisti
queste misere carni, e
tu le spoglia".
Queta´mi allor per non
farli più tristi;
lo dì e l´altro stemmo
tutti muti;
ahi dura terra, perché
non t´apristi?
Poscia che fummo al
quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò
disteso a´ piedi,
dicendo: "Padre
mio, ché non m´aiuti?".
Quivi morì; e come tu
mi vedi,
vid´ io cascar li tre
ad uno ad uno
tra ´l quinto dì e ´l
sesto; ond´ io mi diedi,
già cieco, a brancolar
sovra ciascuno,
e due dì li chiamai,
poi che fur morti.
Poscia, più che ´l
dolor, poté ´l digiuno".
Quand´ ebbe detto ciò,
con li occhi torti
riprese ´l teschio
misero co´ denti,
che furo a l´osso, come
d´un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de
le genti
del bel paese là dove ´l
sì suona,
poi che i vicini a te
punir son lenti,
muovasi la Capraia e la
Gorgona,
e faccian siepe ad Arno
in su la foce,
sì ch´elli annieghi in
te ogne persona!
Che se ´l conte Ugolino
aveva voce
d´aver tradita te de le
castella,
non dovei tu i figliuoi
porre a tal croce.
Innocenti facea l´età
novella,
novella Tebe,
Uguiccione e ´l Brigata
e li altri due che ´l
canto suso appella.
Noi passammo oltre, là ´ve
la gelata
ruvidamente un´altra
gente fascia,
non volta in giù, ma
tutta riversata.
Lo pianto stesso lì
pianger non lascia,
e ´l duol che truova in
su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far
crescer l´ambascia;
ché le lagrime prime
fanno groppo,
e sì come visiere di
cristallo,
rïempion sotto ´l
ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come
d´un callo,
per la freddura ciascun
sentimento
cessato avesse del mio
viso stallo,
già mi parea sentire
alquanto vento;
per ch´io:
"Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne
vapore spento?".
Ond´ elli a me:
"Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l´occhio
la risposta,
veggendo la cagion che ´l
fiato piove".
E un de´ tristi de la
fredda crosta
gridò a noi: "O
anime crudeli
tanto che data v´è l´ultima
posta,
levatemi dal viso i
duri veli,
sì ch´ïo sfoghi ´l duol
che ´l cor m´impregna,
un poco, pria che ´l
pianto si raggeli".
Per ch´io a lui:
"Se vuo´ ch´i´ ti sovvegna,
dimmi chi se´, e s´io
non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia
ir mi convegna".
Rispuose adunque:
"I´ son frate Alberigo;
i´ son quel da le
frutta del mal orto,
che qui riprendo
dattero per figo".
"Oh", diss´
io lui, "or se´ tu ancor morto?".
Ed elli a me:
"Come ´l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza
porto.
Cotal vantaggio ha
questa Tolomea,
che spesse volte l´anima
ci cade
innanzi ch´Atropòs
mossa le dea.
E perché tu più
volentier mi rade
le ´nvetrïate lagrime
dal volto,
sappie che, tosto che l´anima
trade
come fec´ ïo, il corpo
suo l´è tolto
da un demonio, che
poscia il governa
mentre che ´l tempo suo
tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta
cisterna;
e forse pare ancor lo
corpo suso
de l´ombra che di qua
dietro mi verna.
Tu ´l dei saper, se tu
vien pur mo giuso:
elli è ser Branca
Doria, e son più anni
poscia passati ch´el fu
sì racchiuso".
"Io credo",
diss´ io lui, "che tu m´inganni;
ché Branca Doria non
morì unquanche,
e mangia e bee e dorme
e veste panni".
"Nel fosso sù",
diss´ el, "de´ Malebranche,
là dove bolle la tenace
pece,
non era ancora giunto
Michel Zanche,
che questi lasciò il
diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un
suo prossimano
che ´l tradimento
insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in
qua la mano;
aprimi li occhi".
E io non gliel´ apersi;
e cortesia fu lui esser
villano.
Ahi Genovesi, uomini
diversi
d´ogne costume e pien d´ogne
magagna,
perché non siete voi
del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto
di Romagna
trovai di voi un tal,
che per sua opra
in anima in Cocito già
si bagna,
e in corpo par vivo
ancor di sopra.
"Vexilla regis
prodeunt inferni
verso di noi; però
dinanzi mira",
disse ´l maestro mio,
"se tu ´l discerni".
Come quando una grossa
nebbia spira,
o quando l´emisperio
nostro annotta,
par di lungi un molin
che ´l vento gira,
veder mi parve un tal
dificio allotta;
poi per lo vento mi
ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì
era altra grotta.
Già era, e con paura il
metto in metro,
là dove l´ombre tutte
eran coperte,
e trasparien come
festuca in vetro.
Altre sono a giacere;
altre stanno erte,
quella col capo e
quella con le piante;
altra, com´ arco, il
volto a´ piè rinverte.
Quando noi fummo fatti
tanto avante,
ch´al mio maestro
piacque di mostrarmi
la creatura ch´ebbe il
bel sembiante,
d´innanzi mi si tolse e
fé restarmi,
"Ecco Dite",
dicendo, "ed ecco il loco
ove convien che di
fortezza t´armi".
Com´ io divenni allor
gelato e fioco,
nol dimandar, lettor,
ch´i´ non lo scrivo,
però ch´ogne parlar
sarebbe poco.
Io non mori´ e non
rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s´hai
fior d´ingegno,
qual io divenni, d´uno
e d´altro privo.
Lo ´mperador del
doloroso regno
da mezzo ´l petto uscia
fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io
mi convegno,
che i giganti non fan
con le sue braccia:
vedi oggimai quant´
esser dee quel tutto
ch´a così fatta parte
si confaccia.
S´el fu sì bel com´
elli è ora brutto,
e contra ´l suo fattore
alzò le ciglia,
ben dee da lui
procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me
gran maraviglia
quand´ io vidi tre
facce a la sua testa!
L´una dinanzi, e quella
era vermiglia;
l´altr´ eran due, che s´aggiugnieno
a questa
sovresso ´l mezzo di
ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco
de la cresta:
e la destra parea tra
bianca e gialla;
la sinistra a vedere
era tal, quali
vegnon di là onde ´l
Nilo s´avvalla.
Sotto ciascuna uscivan
due grand´ ali,
quanto si convenia a
tanto uccello:
vele di mar non vid´ io
mai cotali.
Non avean penne, ma di
vispistrello
era lor modo; e quelle
svolazzava,
sì che tre venti si
movean da ello:
quindi Cocito tutto s´aggelava.
Con sei occhi piangëa,
e per tre menti
gocciava ´l pianto e
sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea
co´ denti
un peccatore, a guisa
di maciulla,
sì che tre ne facea così
dolenti.
A quel dinanzi il
mordere era nulla
verso ´l graffiar, che
talvolta la schiena
rimanea de la pelle
tutta brulla.
"Quell´ anima là sù
c´ha maggior pena",
disse ´l maestro,
"è Giuda Scarïotto,
che ´l capo ha dentro e
fuor le gambe mena.
De li altri due c´hanno
il capo di sotto,
quel che pende dal nero
ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e
non fa motto!;
e l´altro è Cassio, che
par sì membruto.
Ma la notte risurge, e
oramai
è da partir, ché tutto
avem veduto".
Com´ a lui piacque, il
collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e
loco poste,
e quando l´ali fuoro
aperte assai,
appigliò sé a le vellute
coste;
di vello in vello giù
discese poscia
tra ´l folto pelo e le
gelate croste.
Quando noi fummo là
dove la coscia
si volge, a punto in
sul grosso de l´anche,
lo duca, con fatica e
con angoscia,
volse la testa ov´ elli
avea le zanche,
e aggrappossi al pel
com´ om che sale,
sì che ´n inferno i´
credea tornar anche.
"Attienti ben, ché
per cotali scale",
disse ´l maestro,
ansando com´ uom lasso,
"conviensi
dipartir da tanto male".
Poi uscì fuor per lo fóro
d´un sasso
e puose me in su l´orlo
a sedere;
appresso porse a me l´accorto
passo.
Io levai li occhi e
credetti vedere
Lucifero com´ io l´avea
lasciato,
e vidili le gambe in sù
tenere;
e s´io divenni allora
travagliato,
la gente grossa il
pensi, che non vede
qual è quel punto ch´io
avea passato.
"Lèvati sù",
disse ´l maestro, "in piede:
la via è lunga e ´l
cammino è malvagio,
e già il sole a mezza
terza riede".
Non era camminata di
palagio
là ´v´ eravam, ma
natural burella
ch´avea mal suolo e di
lume disagio.
"Prima ch´io de l´abisso
mi divella,
maestro mio", diss´
io quando fui dritto,
"a trarmi d´erro
un poco mi favella:
ov´ è la ghiaccia? e
questi com´ è fitto
sì sottosopra? e come,
in sì poc´ ora,
da sera a mane ha fatto
il sol tragitto?".
Ed elli a me: "Tu
imagini ancora
d´esser di là dal
centro, ov´ io mi presi
al pel del vermo reo
che ´l mondo fóra.
Di là fosti cotanto
quant´ io scesi;
quand´ io mi volsi, tu
passasti ´l punto
al qual si traggon d´ogne
parte i pesi.
E se´ or sotto l´emisperio
giunto
ch´è contraposto a quel
che la gran secca
coverchia, e sotto ´l
cui colmo consunto
fu l´uom che nacque e
visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su
picciola spera
che l´altra faccia fa
de la Giudecca.
Qui è da man, quando di
là è sera;
e questi, che ne fé
scala col pelo,
fitto è ancora sì come
prim´ era.
Da questa parte cadde
giù dal cielo;
e la terra, che pria di
qua si sporse,
per paura di lui fé del
mar velo,
e venne a l´emisperio
nostro; e forse
per fuggir lui lasciò
qui loco vòto
quella ch´appar di qua,
e sù ricorse".
Luogo è là giù da
Belzebù remoto
tanto quanto la tomba
si distende,
che non per vista, ma
per suono è noto
d´un ruscelletto che
quivi discende
per la buca d´un sasso,
ch´elli ha roso,
col corso ch´elli
avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel
cammino ascoso
intrammo a ritornar nel
chiaro mondo;
e sanza cura aver d´alcun
riposo,
salimmo sù, el primo e
io secondo,
tanto ch´i´ vidi de le
cose belle
che porta ´l ciel, per
un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a
riveder le stelle.
Per correr miglior
acque alza le vele
omai la navicella del
mio ingegno,
che lascia dietro a sé
mar sì crudele;
e canterò di quel
secondo regno
dove l´umano spirito si
purga
e di salire al ciel
diventa degno.
Ma qui la morta poesì
resurga,
o sante Muse, poi che
vostro sono;
e qui Calïopè alquanto
surga,
seguitando il mio canto
con quel suono
di cui le Piche misere
sentiro
lo colpo tal, che
disperar perdono.
Dolce color d´orïental
zaffiro,
che s´accoglieva nel
sereno aspetto
del mezzo, puro infino
al primo giro,
a li occhi miei
ricominciò diletto,
tosto ch´io usci´ fuor
de l´aura morta
che m´avea contristati
li occhi e ´l petto.
Lo bel pianeto che d´amar
conforta
faceva tutto rider l´orïente,
velando i Pesci ch´erano
in sua scorta.
I´ mi volsi a man
destra, e puosi mente
a l´altro polo, e vidi
quattro stelle
non viste mai fuor ch´a
la prima gente.
Goder pareva ´l ciel di
lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo
sito,
poi che privato se´ di
mirar quelle!
Com´ io da loro sguardo
fui partito,
un poco me volgendo a l
´altro polo,
là onde ´l Carro già
era sparito,
vidi presso di me un
veglio solo,
degno di tanta
reverenza in vista,
che più non dee a padre
alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel
bianco mista
portava, a´ suoi
capelli simigliante,
de´ quai cadeva al
petto doppia lista.
Li raggi de le quattro
luci sante
fregiavan sì la sua
faccia di lume,
ch´i´ ´l vedea come ´l
sol fosse davante.
"Chi siete voi che
contro al cieco fiume
fuggita avete la
pregione etterna?",
diss´ el, movendo
quelle oneste piume.
"Chi v´ha guidati,
o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la
profonda notte
che sempre nera fa la
valle inferna?
Son le leggi d´abisso
così rotte?
o è mutato in ciel novo
consiglio,
che, dannati, venite a
le mie grotte?".
Lo duca mio allor mi diè
di piglio,
e con parole e con mani
e con cenni
reverenti mi fé le
gambe e ´l ciglio.
Poscia rispuose lui:
"Da me non venni:
donna scese del ciel,
per li cui prieghi
de la mia compagnia
costui sovvenni.
Ma da ch´è tuo voler
che più si spieghi
di nostra condizion com´
ell´ è vera,
esser non puote il mio
che a te si nieghi.
Questi non vide mai l´ultima
sera;
ma per la sua follia le
fu sì presso,
che molto poco tempo a
volger era.
Sì com´ io dissi, fui
mandato ad esso
per lui campare; e non
lì era altra via
che questa per la quale
i´ mi son messo.
Mostrata ho lui tutta
la gente ria;
e ora intendo mostrar
quelli spirti
che purgan sé sotto la
tua balìa.
Com´ io l´ho tratto,
saria lungo a dirti;
de l´alto scende virtù
che m´aiuta
conducerlo a vederti e
a udirti.
Or ti piaccia gradir la
sua venuta:
libertà va cercando, ch´è
sì cara,
come sa chi per lei
vita rifiuta.
Tu ´l sai, ché non ti
fu per lei amara
in Utica la morte, ove
lasciasti
la vesta ch´al gran dì
sarà sì chiara.
Non son li editti
etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs
me non lega;
ma son del cerchio ove
son li occhi casti
di Marzia tua, che ´n
vista ancor ti priega,
o santo petto, che per
tua la tegni:
per lo suo amore
adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li
tuoi sette regni;
grazie riporterò di te
a lei,
se d´esser mentovato là
giù degni".
"Marzïa piacque
tanto a li occhi miei
mentre ch´i´ fu´ di là",
diss´ elli allora,
"che quante grazie
volse da me, fei.
Or che di là dal mal
fiume dimora,
più muover non mi può,
per quella legge
che fatta fu quando me
n´usci´ fora.
Ma se donna del ciel ti
move e regge,
come tu di´, non c´è
mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei
mi richegge.
Va dunque, e fa che tu
costui ricinghe
d´un giunco schietto e
che li lavi ´l viso,
sì ch´ogne sucidume
quindi stinghe;
ché non si converria, l´occhio
sorpriso
d´alcuna nebbia, andar
dinanzi al primo
ministro, ch´è di quei
di paradiso.
Questa isoletta intorno
ad imo ad imo,
là giù colà dove la
batte l´onda,
porta di giunchi sovra ´l
molle limo:
null´ altra pianta che
facesse fronda
o indurasse, vi puote
aver vita,
però ch´a le percosse
non seconda.
Poscia non sia di qua
vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che
surge omai,
prendere il monte a più
lieve salita".
Così sparì; e io sù mi
levai
sanza parlare, e tutto
mi ritrassi
al duca mio, e li occhi
a lui drizzai.
El cominciò:
"Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché
di qua dichina
questa pianura a´ suoi
termini bassi".
L´alba vinceva l´ora
mattutina
che fuggia innanzi, sì
che di lontano
conobbi il tremolar de la
marina.
Noi andavam per lo
solingo piano
com´ om che torna a la
perduta strada,
che ´nfino ad essa li
pare ire in vano.
Quando noi fummo là ´ve
la rugiada
pugna col sole, per
essere in parte
dove, ad orezza, poco
si dirada,
ambo le mani in su l´erbetta
sparte
soavemente ´l mio
maestro pose:
ond´ io, che fui
accorto di sua arte,
porsi ver´ lui le
guance lagrimose;
ivi mi fece tutto
discoverto
quel color che l´inferno
mi nascose.
Venimmo poi in sul lito
diserto,
che mai non vide navicar
sue acque
omo, che di tornar sia
poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com´
altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual
elli scelse
l´umile pianta, cotal
si rinacque
subitamente là onde l´avelse.
Già era ´l sole a l´orizzonte
giunto
lo cui meridïan cerchio
coverchia
Ierusalèm col suo più
alto punto;
e la notte, che
opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con
le Bilance,
che le caggion di man
quando soverchia;
sì che le bianche e le
vermiglie guance,
là dov´ i´ era, de la
bella Aurora
per troppa etate
divenivan rance.
Noi eravam lunghesso
mare ancora,
come gente che pensa a
suo cammino,
che va col cuore e col
corpo dimora.
Ed ecco, qual, sorpreso
dal mattino,
per li grossi vapor
Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ´l
suol marino,
cotal m´apparve, s´io
ancor lo veggia,
un lume per lo mar
venir sì ratto,
che ´l muover suo
nessun volar pareggia.
Dal qual com´ io un
poco ebbi ritratto
l´occhio per domandar
lo duca mio,
rividil più lucente e
maggior fatto.
Poi d´ogne lato ad esso
m´appario
un non sapeva che
bianco, e di sotto
a poco a poco un altro
a lui uscìo.
Lo mio maestro ancor
non facea motto,
mentre che i primi
bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe
il galeotto,
gridò: "Fa, fa che
le ginocchia cali.
Ecco l´angel di Dio:
piega le mani;
omai vedrai di sì fatti
officiali.
Vedi che sdegna li
argomenti umani,
sì che remo non vuol, né
altro velo
che l´ali sue, tra liti
sì lontani.
Vedi come l´ha dritte
verso ´l cielo,
trattando l´aere con l´etterne
penne,
che non si mutan come
mortal pelo".
Poi, come più e più
verso noi venne
l´uccel divino, più
chiaro appariva:
per che l´occhio da
presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e
quei sen venne a riva
con un vasello
snelletto e leggero,
tanto che l´acqua nulla
ne ´nghiottiva.
Da poppa stava il
celestial nocchiero,
tal che faria beato pur
descripto;
e più di cento spirti
entro sediero.
`In exitu Isräel
de Aegypto´
cantavan tutti insieme
ad una voce
con quanto di quel
salmo è poscia scripto.
Poi fece il segno lor
di santa croce;
ond´ ei si gittar tutti
in su la piaggia:
ed el sen gì, come
venne, veloce.
La turba che rimase lì,
selvaggia
parea del loco,
rimirando intorno
come colui che nove
cose assaggia.
Da tutte parti saettava
il giorno
lo sol, ch´avea con le
saette conte
di mezzo ´l ciel
cacciato Capricorno,
quando la nova gente
alzò la fronte
ver´ noi, dicendo a
noi: "Se voi sapete,
mostratene la via di
gire al monte".
E Virgilio rispuose:
"Voi credete
forse che siamo esperti
d´esto loco;
ma noi siam peregrin
come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi
a voi un poco,
per altra via, che fu sì
aspra e forte,
che lo salire omai ne
parrà gioco".
L´anime, che si fuor di
me accorte,
per lo spirare, ch´i´
era ancor vivo,
maravigliando diventaro
smorte.
E come a messagger che
porta ulivo
tragge la gente per
udir novelle,
e di calcar nessun si
mostra schivo,
così al viso mio s´affisar
quelle
anime fortunate tutte
quante,
quasi oblïando d´ire a
farsi belle.
Io vidi una di lor
trarresi avante
per abbracciarmi con sì
grande affetto,
che mosse me a far lo
somigliante.
Ohi ombre vane, fuor
che ne l´aspetto!
tre volte dietro a lei
le mani avvinsi,
e tante mi tornai con
esse al petto.
Di maraviglia, credo,
mi dipinsi;
per che l´ombra sorrise
e si ritrasse,
e io, seguendo lei,
oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch´io
posasse;
allor conobbi chi era,
e pregai
che, per parlarmi, un
poco s´arrestasse.
Rispuosemi: "Così
com´ io t´amai
nel mortal corpo, così
t´amo sciolta:
però m´arresto; ma tu
perché vai?".
"Casella mio, per
tornar altra volta
là dov´ io son, fo io
questo vïaggio",
diss´ io; "ma a te
com´ è tanta ora tolta?".
Ed elli a me:
"Nessun m´è fatto oltraggio,
se quei che leva quando
e cui li piace,
più volte m´ha negato
esto passaggio;
ché di giusto voler lo
suo si face:
veramente da tre mesi
elli ha tolto
chi ha voluto intrar,
con tutta pace.
Ond´ io, ch´era ora a
la marina vòlto
dove l´acqua di Tevero
s´insala,
benignamente fu´ da lui
ricolto.
A quella foce ha elli
or dritta l´ala,
però che sempre quivi
si ricoglie
qual verso Acheronte
non si cala".
E io: "Se nuova
legge non ti toglie
memoria o uso a l´amoroso
canto
che mi solea quetar
tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia
consolare alquanto
l´anima mia, che, con
la sua persona
venendo qui, è
affannata tanto!".
`Amor che ne
la mente mi ragiona´
cominciò elli allor sì
dolcemente,
che la dolcezza ancor
dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e
quella gente
ch´eran con lui parevan
sì contenti,
come a nessun toccasse
altro la mente.
Noi eravam tutti fissi
e attenti
a le sue note; ed ecco
il veglio onesto
gridando: "Che è
ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale
stare è questo?
Correte al monte a
spogliarvi lo scoglio
ch´esser non lascia a
voi Dio manifesto".
Come quando, cogliendo
biado o loglio,
li colombi adunati a la
pastura,
queti, sanza mostrar l´usato
orgoglio,
se cosa appare ond´
elli abbian paura,
subitamente lasciano
star l´esca,
perch´ assaliti son da
maggior cura;
così vid´ io quella
masnada fresca
lasciar lo canto, e
fuggir ver´ la costa,
com´ om che va, né sa
dove rïesca;
né la nostra partita fu
men tosta.
Avvegna che la subitana
fuga
dispergesse color per
la campagna,
rivolti al monte ove
ragion ne fruga,
i´ mi ristrinsi a la
fida compagna:
e come sare´ io sanza
lui corso?
chi m´avria tratto su
per la montagna?
El mi parea da sé stesso
rimorso:
o dignitosa coscïenza e
netta,
come t´è picciol fallo
amaro morso!
Quando li piedi suoi
lasciar la fretta,
che l´onestade ad ogn´
atto dismaga,
la mente mia, che prima
era ristretta,
lo ´ntento rallargò, sì
come vaga,
e diedi ´l viso mio
incontr´ al poggio
che ´nverso ´l ciel più
alto si dislaga.
Lo sol, che dietro
fiammeggiava roggio,
rotto m´era dinanzi a
la figura,
ch´avëa in me de´ suoi
raggi l´appoggio.
Io mi volsi dallato con
paura
d´essere abbandonato,
quand´ io vidi
solo dinanzi a me la
terra oscura;
e ´l mio conforto:
"Perché pur diffidi?",
a dir mi cominciò tutto
rivolto;
"non credi tu me
teco e ch´io ti guidi?
Vespero è già colà dov´
è sepolto
lo corpo dentro al
quale io facea ombra;
Napoli l´ha, e da
Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me
nulla s´aombra,
non ti maravigliar più
che d´i cieli
che l´uno a l´altro
raggio non ingombra.
A sofferir tormenti,
caldi e geli
simili corpi la Virtù
dispone
che, come fa, non vuol
ch´a noi si sveli.
Matto è chi spera che
nostra ragione
possa trascorrer la
infinita via
che tiene una sustanza
in tre persone.
State contenti, umana
gente, al quia;
ché, se potuto aveste
veder tutto,
mestier non era
parturir Maria;
e disïar vedeste sanza
frutto
tai che sarebbe lor
disio quetato,
ch´etternalmente è dato
lor per lutto:
io dico d´Aristotile e
di Plato
e di molt´ altri";
e qui chinò la fronte,
e più non disse, e
rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a
piè del monte;
quivi trovammo la
roccia sì erta,
che ´ndarno vi sarien
le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la
più diserta,
la più rotta ruina è
una scala,
verso di quella,
agevole e aperta.
"Or chi sa da qual
man la costa cala",
disse ´l maestro mio
fermando ´l passo,
"sì che possa salir
chi va sanz´ ala?".
E mentre ch´e´ tenendo ´l
viso basso
essaminava del cammin
la mente,
e io mirava suso
intorno al sasso,
da man sinistra m´apparì
una gente
d´anime, che movieno i
piè ver´ noi,
e non pareva, sì venïan
lente.
"Leva", diss´
io, "maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà
consiglio,
se tu da te medesmo
aver nol puoi".
Guardò allora, e con
libero piglio
rispuose: "Andiamo
in là, ch´ei vegnon piano;
e tu ferma la spene,
dolce figlio".
Ancora era quel popol di
lontano,
i´ dico dopo i nostri
mille passi,
quanto un buon gittator
trarria con mano,
quando si strinser
tutti ai duri massi
de l´alta ripa, e
stetter fermi e stretti
com´ a guardar, chi va
dubbiando, stassi.
"O ben finiti, o
già spiriti eletti",
Virgilio incominciò,
"per quella pace
ch´i´ credo che per voi
tutti s´aspetti,
ditene dove la montagna
giace,
sì che possibil sia l´andare
in suso;
ché perder tempo a chi
più sa più spiace".
Come le pecorelle escon
del chiuso
a una, a due, a tre, e
l´altre stanno
timidette atterrando l´occhio
e ´l muso;
e ciò che fa la prima,
e l´altre fanno,
addossandosi a lei, s´ella
s´arresta,
semplici e quete, e lo ´mperché
non sanno;
sì vid´ io muovere a
venir la testa
di quella mandra fortunata
allotta,
pudica in faccia e ne l´andare
onesta.
Come color dinanzi
vider rotta
la luce in terra dal
mio destro canto,
sì che l´ombra era da
me a la grotta,
restaro, e trasser sé
in dietro alquanto,
e tutti li altri che
venieno appresso,
non sappiendo ´l perché,
fenno altrettanto.
"Sanza vostra
domanda io vi confesso
che questo è corpo uman
che voi vedete;
per che ´l lume del
sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate, ma
credete
che non sanza virtù che
da ciel vegna
cerchi di soverchiar
questa parete".
Così ´l maestro; e
quella gente degna
"Tornate",
disse, "intrate innanzi dunque",
coi dossi de le man
faccendo insegna.
E un di loro incominciò:
"Chiunque
tu se´, così andando,
volgi ´l viso:
pon mente se di là mi
vedesti unque".
Io mi volsi ver´ lui e
guardail fiso:
biondo era e bello e di
gentile aspetto,
ma l´un de´ cigli un
colpo avea diviso.
Quand´ io mi fui
umilmente disdetto
d´averlo visto mai, el
disse: "Or vedi";
e mostrommi una piaga a
sommo ´l petto.
Poi sorridendo disse:
"Io son Manfredi,
nepote di Costanza
imperadrice;
ond´ io ti priego che,
quando tu riedi,
vadi a mia bella
figlia, genitrice
de l´onor di Cicilia e
d´Aragona,
e dichi ´l vero a lei,
s´altro si dice.
Poscia ch´io ebbi rotta
la persona
di due punte mortali,
io mi rendei,
piangendo, a quei che
volontier perdona.
Orribil furon li
peccati miei;
ma la bontà infinita ha
sì gran braccia,
che prende ciò che si
rivolge a lei.
Se ´l pastor di
Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per
Clemente allora,
avesse in Dio ben letta
questa faccia,
l´ossa del corpo mio
sarieno ancora
in co del ponte presso
a Benevento,
sotto la guardia de la
grave mora.
Or le bagna la pioggia
e move il vento
di fuor dal regno,
quasi lungo ´l Verde,
dov´ e´ le trasmutò a
lume spento.
Per lor maladizion sì
non si perde,
che non possa tornar, l´etterno
amore,
mentre che la speranza
ha fior del verde.
Vero è che quale in
contumacia more
di Santa Chiesa, ancor
ch´al fin si penta,
star li convien da
questa ripa in fore,
per ognun tempo ch´elli
è stato, trenta,
in sua presunzïon, se
tal decreto
più corto per buon
prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi
puoi far lieto,
revelando a la mia
buona Costanza
come m´hai visto, e
anco esto divieto;
ché qui per quei di là
molto s´avanza".
Quando per dilettanze o
ver per doglie,
che alcuna virtù nostra
comprenda,
l´anima bene ad essa si
raccoglie,
par ch´a nulla potenza
più intenda;
e questo è contra
quello error che crede
ch´un´anima sovr´ altra
in noi s´accenda.
E però, quando s´ode
cosa o vede
che tegna forte a sé l´anima
volta,
vassene ´l tempo e l´uom
non se n´avvede;
ch´altra potenza è
quella che l´ascolta,
e altra è quella c´ha l´anima
intera:
questa è quasi legata e
quella è sciolta.
Di ciò ebb´ io esperïenza
vera,
udendo quello spirto e
ammirando;
ché ben cinquanta gradi
salito era
lo sole, e io non m´era
accorto, quando
venimmo ove quell´
anime ad una
gridaro a noi:
"Qui è vostro dimando".
Maggiore aperta molte
volte impruna
con una forcatella di
sue spine
l´uom de la villa
quando l´uva imbruna,
che non era la calla
onde salìne
lo duca mio, e io
appresso, soli,
come da noi la schiera
si partìne.
Vassi in Sanleo e
discendesi in Noli,
montasi su in
Bismantova e ´n Cacume
con esso i piè; ma qui
convien ch´om voli;
dico con l´ale snelle e
con le piume
del gran disio, di
retro a quel condotto
che speranza mi dava e
facea lume.
Noi salavam per entro ´l
sasso rotto,
e d´ogne lato ne
stringea lo stremo,
e piedi e man volea il
suol di sotto.
Poi che noi fummo in su
l´orlo suppremo
de l´alta ripa, a la
scoperta piaggia,
"Maestro
mio", diss´ io, "che via faremo?".
Ed elli a me: "Nessun
tuo passo caggia;
pur su al monte dietro
a me acquista,
fin che n´appaia alcuna
scorta saggia".
Lo sommo er´ alto che
vincea la vista,
e la costa superba più
assai
che da mezzo quadrante
a centro lista.
Io era lasso, quando
cominciai:
"O dolce padre,
volgiti, e rimira
com´ io rimango sol, se
non restai".
"Figliuol
mio", disse, "infin quivi ti tira",
additandomi un balzo
poco in sùe
che da quel lato il
poggio tutto gira.
Sì mi spronaron le
parole sue,
ch´i´ mi sforzai
carpando appresso lui,
tanto che ´l cinghio
sotto i piè mi fue.
A seder ci ponemmo ivi
ambedui
vòlti a levante ond´
eravam saliti,
che suole a riguardar
giovare altrui.
Li occhi prima drizzai
ai bassi liti;
poscia li alzai al
sole, e ammirava
che da sinistra n´eravam
feriti.
Ben s´avvide il poeta
ch´ïo stava
stupido tutto al carro
de la luce,
ove tra noi e Aquilone
intrava.
Ond´ elli a me:
"Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di
quello specchio
che sù e giù del suo
lume conduce,
tu vedresti il Zodïaco
rubecchio
ancora a l´Orse più
stretto rotare,
se non uscisse fuor del
cammin vecchio.
Come ciò sia, se ´l
vuoi poter pensare,
dentro raccolto,
imagina Sïòn
con questo monte in su
la terra stare
sì, ch´amendue hanno un
solo orizzòn
e diversi emisperi;
onde la strada
che mal non seppe
carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui
convien che vada
da l´un, quando a colui
da l´altro fianco,
se lo ´ntelletto tuo
ben chiaro bada".
"Certo, maestro
mio," diss´ io, "unquanco
non vid´ io chiaro sì
com´ io discerno
là dove mio ingegno
parea manco,
che ´l mezzo cerchio
del moto superno,
che si chiama Equatore
in alcun´ arte,
e che sempre riman tra ´l
sole e ´l verno,
per la ragion che di´,
quinci si parte
verso settentrïon, quanto
li Ebrei
vedevan lui verso la
calda parte.
Ma se a te piace,
volontier saprei
quanto avemo ad andar;
ché ´l poggio sale
più che salir non
posson li occhi miei".
Ed elli a me:
"Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar
di sotto è grave;
e quant´ om più va sù,
e men fa male.
Però, quand´ ella ti
parrà soave
tanto, che sù andar ti
fia leggero
com´ a seconda giù
andar per nave,
allor sarai al fin d´esto
sentiero;
quivi di riposar l´affanno
aspetta.
Più non rispondo, e
questo so per vero".
E com´ elli ebbe sua
parola detta,
una voce di presso sonò:
"Forse
che di sedere in pria
avrai distretta!".
Al suon di lei ciascun
di noi si torse,
e vedemmo a mancina un
gran petrone,
del qual né io né ei
prima s´accorse.
Là ci traemmo; e ivi
eran persone
che si stavano a l´ombra
dietro al sasso
come l´uom per
negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi
sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le
ginocchia,
tenendo ´l viso giù tra
esse basso.
"O dolce segnor
mio", diss´ io, "adocchia
colui che mostra sé più
negligente
che se pigrizia fosse
sua serocchia".
Allor si volse a noi e
puose mente,
movendo ´l viso pur su
per la coscia,
e disse: "Or va tu
sù, che se´ valente!".
Conobbi allor chi era,
e quella angoscia
che m´avacciava un poco
ancor la lena,
non m´impedì l´andare a
lui; e poscia
ch´a lui fu´ giunto,
alzò la testa a pena,
dicendo: "Hai ben
veduto come ´l sole
da l´omero sinistro il
carro mena?".
Li atti suoi pigri e le
corte parole
mosser le labbra mie un
poco a riso;
poi cominciai:
"Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi:
perché assiso
quiritto se´? attendi
tu iscorta,
o pur lo modo usato t´ha´
ripriso?".
Ed elli: "O frate,
andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe
ire a´ martìri
l´angel di Dio che
siede in su la porta.
Prima convien che tanto
il ciel m´aggiri
di fuor da essa, quanto
fece in vita,
per ch´io ´ndugiai al
fine i buon sospiri,
se orazïone in prima
non m´aita
che surga sù di cuor
che in grazia viva;
l´altra che val, che ´n
ciel non è udita?".
E già il poeta innanzi
mi saliva,
e dicea: "Vienne
omai; vedi ch´è tocco
meridïan dal sole e a
la riva
cuopre la notte già col
piè Morrocco".
Io era già da quell´
ombre partito,
e seguitava l´orme del
mio duca,
quando di retro a me,
drizzando ´l dito,
una gridò: "Ve´
che non par che luca
lo raggio da sinistra a
quel di sotto,
e come vivo par che si
conduca!".
Li occhi rivolsi al
suon di questo motto,
e vidile guardar per
maraviglia
pur me, pur me, e ´l
lume ch´era rotto.
"Perché l´animo
tuo tanto s´impiglia",
disse ´l maestro,
"che l´andare allenti?
che ti fa ciò che quivi
si pispiglia?
Vien dietro a me, e
lascia dir le genti:
sta come torre ferma,
che non crolla
già mai la cima per
soffiar di venti;
ché sempre l´omo in cui
pensier rampolla
sovra pensier, da sé
dilunga il segno,
perché la foga l´un de
l´altro insolla".
Che potea io ridir, se
non "Io vegno"?
Dissilo, alquanto del
color consperso
che fa l´uom di perdon
talvolta degno.
E ´ntanto per la costa
di traverso
venivan genti innanzi a
noi un poco,
cantando
`Miserere´ a verso a verso.
Quando s´accorser ch´i´
non dava loco
per lo mio corpo al
trapassar d´i raggi,
mutar lor canto in un
"oh!" lungo e roco;
e due di loro, in forma
di messaggi,
corsero incontr´ a noi
e dimandarne:
"Di vostra
condizion fatene saggi".
E ´l mio maestro:
"Voi potete andarne
e ritrarre a color che
vi mandaro
che ´l corpo di costui è
vera carne.
Se per veder la sua
ombra restaro,
com´ io avviso, assai è
lor risposto:
fàccianli onore, ed
esser può lor caro".
Vapori accesi non vid´
io sì tosto
di prima notte mai
fender sereno,
né, sol calando, nuvole
d´agosto,
che color non tornasser
suso in meno;
e, giunti là, con li
altri a noi dier volta,
come schiera che scorre
sanza freno.
"Questa gente che
preme a noi è molta,
e vegnonti a
pregar", disse ´l poeta:
"però pur va, e in
andando ascolta".
"O anima che vai
per esser lieta
con quelle membra con
le quai nascesti",
venian gridando,
"un poco il passo queta.
Guarda s´alcun di noi
unqua vedesti,
sì che di lui di là
novella porti:
deh, perché vai? deh,
perché non t´arresti?
Noi fummo tutti già per
forza morti,
e peccatori infino a l´ultima
ora;
quivi lume del ciel ne
fece accorti,
sì che, pentendo e
perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio
pacificati,
che del disio di sé
veder n´accora".
E io: "Perché ne´
vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma
s´a voi piace
cosa ch´io possa,
spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per
quella pace
che, dietro a´ piedi di
sì fatta guida,
di mondo in mondo
cercar mi si face".
E uno incominciò:
"Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza
giurarlo,
pur che ´l voler
nonpossa non ricida.
Ond´ io, che solo
innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi
quel paese
che siede tra Romagna e
quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi
prieghi cortese
in Fano, sì che ben per
me s´adori
pur ch´i´ possa purgar
le gravi offese.
Quindi fu´ io; ma li
profondi fóri
ond´ uscì ´l sangue in
sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in
grembo a li Antenori,
là dov´ io più sicuro
esser credea:
quel da Esti il fé far,
che m´avea in ira
assai più là che dritto
non volea.
Ma s´io fosse fuggito
inver´ la Mira,
quando fu´ sovragiunto
ad Orïaco,
ancor sarei di là dove
si spira.
Corsi al palude, e le
cannucce e ´l braco
m´impigliar sì ch´i´
caddi; e lì vid´ io
de le mie vene farsi in
terra laco".
Poi disse un altro:
"Deh, se quel disio
si compia che ti tragge
a l´alto monte,
con buona pïetate aiuta
il mio!
Io fui di Montefeltro,
io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha
di me cura;
per ch´io vo tra costor
con bassa fronte".
E io a lui: "Qual
forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di
Campaldino,
che non si seppe mai
tua sepultura?".
"Oh!",
rispuos´ elli, "a piè del Casentino
traversa un´acqua c´ha
nome l´Archiano,
che sovra l´Ermo nasce
in Apennino.
Là ´ve ´l vocabol suo
diventa vano,
arriva´ io forato ne la
gola,
fuggendo a piede e
sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e
la parola;
nel nome di Maria fini´,
e quivi
caddi, e rimase la mia
carne sola.
Io dirò vero, e tu ´l
ridì tra ´ vivi:
l´angel di Dio mi
prese, e quel d´inferno
gridava: "O tu del
ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di
costui l´etterno
per una lagrimetta che ´l
mi toglie;
ma io farò de l´altro
altro governo!".
Ben sai come ne l´aere
si raccoglie
quell´ umido vapor che
in acqua riede,
tosto che sale dove ´l
freddo il coglie.
Giunse quel mal voler
che pur mal chiede
con lo ´ntelletto, e
mosse il fummo e ´l vento
per la virtù che sua
natura diede.
Indi la valle, come ´l
dì fu spento,
da Pratomagno al gran
giogo coperse
di nebbia; e ´l ciel di
sopra fece intento,
sì che ´l pregno aere
in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a´
fossati venne
di lei ciò che la terra
non sofferse;
e come ai rivi grandi
si convenne,
ver´ lo fiume real
tanto veloce
si ruinò, che nulla la
ritenne.
Lo corpo mio gelato in
su la foce
trovò l´Archian
rubesto; e quel sospinse
ne l´Arno, e sciolse al
mio petto la croce
ch´i´ fe´ di me quando ´l
dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e
per lo fondo,
poi di sua preda mi
coperse e cinse".
"Deh, quando tu
sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga
via",
seguitò ´l terzo
spirito al secondo,
"ricorditi di me,
che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi
Maremma:
salsi colui che ´nnanellata
pria
disposando m´avea con
la sua gemma".
Quando si parte il
gioco de la zara,
colui che perde si
riman dolente,
repetendo le volte, e
tristo impara;
con l´altro se ne va
tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual
di dietro il prende,
e qual dallato li si
reca a mente;
el non s´arresta, e questo
e quello intende;
a cui porge la man, più
non fa pressa;
e così da la calca si
difende.
Tal era io in quella
turba spessa,
volgendo a loro, e qua
e là, la faccia,
e promettendo mi
sciogliea da essa.
Quiv´ era l´Aretin che
da le braccia
fiere di Ghin di Tacco
ebbe la morte,
e l´altro ch´annegò
correndo in caccia.
Quivi pregava con le
mani sporte
Federigo Novello, e
quel da Pisa
che fé parer lo buon
Marzucco forte.
Vidi conte Orso e l´anima
divisa
dal corpo suo per astio
e per inveggia,
com´ e´ dicea, non per
colpa commisa;
Pier da la Broccia
dico; e qui proveggia,
mentr´ è di qua, la
donna di Brabante,
sì che però non sia di
peggior greggia.
Come libero fui da
tutte quante
quell´ ombre che pregar
pur ch´altri prieghi,
sì che s´avacci lor
divenir sante,
io cominciai: "El
par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in
alcun testo
che decreto del cielo
orazion pieghi;
e questa gente prega
pur di questo:
sarebbe dunque loro
speme vana,
o non m´è ´l detto tuo
ben manifesto?".
Ed elli a me: "La
mia scrittura è piana;
e la speranza di costor
non falla,
se ben si guarda con la
mente sana;
ché cima di giudicio
non s´avvalla
perché foco d´amor
compia in un punto
ciò che de´ sodisfar
chi qui s´astalla;
e là dov´ io fermai
cotesto punto,
non s´ammendava, per
pregar, difetto,
perché ´l priego da Dio
era disgiunto.
Veramente a così alto
sospetto
non ti fermar, se
quella nol ti dice
che lume fia tra ´l
vero e lo ´ntelletto.
Non so se ´ntendi: io
dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra,
in su la vetta
di questo monte, ridere
e felice".
E io: "Segnore,
andiamo a maggior fretta,
ché già non m´affatico
come dianzi,
e vedi omai che ´l
poggio l´ombra getta".
"Noi anderem con
questo giorno innanzi",
rispuose, "quanto
più potremo omai;
ma ´l fatto è d´altra
forma che non stanzi.
Prima che sie là sù,
tornar vedrai
colui che già si cuopre
de la costa,
sì che ´ suoi raggi tu
romper non fai.
Ma vedi là un´anima
che, posta
sola soletta, inverso
noi riguarda:
quella ne ´nsegnerà la
via più tosta".
Venimmo a lei: o anima
lombarda,
come ti stavi altera e
disdegnosa
e nel mover de li occhi
onesta e tarda!
Ella non ci dicëa
alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo
sguardando
a guisa di leon quando
si posa.
Pur Virgilio si trasse
a lei, pregando
che ne mostrasse la
miglior salita;
e quella non rispuose
al suo dimando,
ma di nostro paese e de
la vita
ci ´nchiese; e ´l dolce
duca incominciava
"Mantüa . . .
", e l´ombra, tutta in sé romita,
surse ver´ lui del loco
ove pria stava,
dicendo: "O
Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!";
e l´un l´altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di
dolore ostello,
nave sanza nocchiere in
gran tempesta,
non donna di province,
ma bordello!
Quell´ anima gentil fu
così presta,
sol per lo dolce suon
de la sua terra,
di fare al cittadin suo
quivi festa;
e ora in te non stanno
sanza guerra
li vivi tuoi, e l´un l´altro
si rode
di quei ch´un muro e
una fossa serra.
Cerca, misera, intorno
da le prode
le tue marine, e poi ti
guarda in seno,
s´alcuna parte in te di
pace gode.
Che val perché ti
racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella
è vòta?
Sanz´ esso fora la
vergogna meno.
Ahi gente che dovresti
esser devota,
e lasciar seder Cesare
in la sella,
se bene intendi ciò che
Dio ti nota,
guarda come esta fiera è
fatta fella
per non esser corretta
da li sproni,
poi che ponesti mano a
la predella.
O Alberto tedesco ch´abbandoni
costei ch´è fatta
indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li
suoi arcioni,
giusto giudicio da le
stelle caggia
sovra ´l tuo sangue, e
sia novo e aperto,
tal che ´l tuo
successor temenza n´aggia!
Ch´avete tu e ´l tuo
padre sofferto,
per cupidigia di costà
distretti,
che ´l giardin de lo ´mperio
sia diserto.
Vieni a veder Montecchi
e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi,
uom sanza cura:
color già tristi, e
questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e
vedi la pressura
d´i tuoi gentili, e
cura lor magagne;
e vedrai Santafior com´
è oscura!
Vieni a veder la tua
Roma che piagne
vedova e sola, e dì e
notte chiama:
"Cesare mio, perché
non m´accompagne?".
Vieni a veder la gente
quanto s´ama!
e se nulla di noi pietà
ti move,
a vergognar ti vien de
la tua fama.
E se licito m´è, o
sommo Giove
che fosti in terra per
noi crucifisso,
son li giusti occhi
tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne
l´abisso
del tuo consiglio fai
per alcun bene
in tutto de l´accorger
nostro scisso?
Ché le città d´Italia
tutte piene
son di tiranni, e un
Marcel diventa
ogne villan che
parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi
esser contenta
di questa digression
che non ti tocca,
mercé del popol tuo che
si argomenta.
Molti han giustizia in
cuore, e tardi scocca
per non venir sanza
consiglio a l´arco;
ma il popol tuo l´ha in
sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo
comune incarco;
ma il popol tuo
solicito risponde
sanza chiamare, e
grida: "I´ mi sobbarco!".
Or ti fa lieta, ché tu
hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e
tu con senno!
S´io dico ´l ver, l´effetto
nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che
fenno
l´antiche leggi e furon
sì civili,
fecero al viver bene un
picciol cenno
verso di te, che fai
tanto sottili
provedimenti, ch´a
mezzo novembre
non giugne quel che tu
d´ottobre fili.
Quante volte, del tempo
che rimembre,
legge, moneta, officio
e costume
hai tu mutato, e
rinovate membre!
E se ben ti ricordi e
vedi lume,
vedrai te somigliante a
quella inferma
che non può trovar posa
in su le piume,
ma con dar volta suo
dolore scherma.
Poscia che l´accoglienze
oneste e liete
furo iterate tre e
quattro volte,
Sordel si trasse, e
disse: "Voi, chi siete?".
"Anzi che a questo
monte fosser volte
l´anime degne di salire
a Dio,
fur l´ossa mie per Ottavian
sepolte.
Io son Virgilio; e per
null´ altro rio
lo ciel perdei che per
non aver fé".
Così rispuose allora il
duca mio.
Qual è colui che cosa
innanzi sé
sùbita vede ond´ e´ si
maraviglia,
che crede e non,
dicendo "Ella è . . . non è . . . ",
tal parve quelli; e poi
chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver´
lui,
e abbracciòl là ´ve ´l
minor s´appiglia.
"O gloria di
Latin", disse, "per cui
mostrò ciò che potea la
lingua nostra,
o pregio etterno del
loco ond´ io fui,
qual merito o qual
grazia mi ti mostra?
S´io son d´udir le tue
parole degno,
dimmi se vien d´inferno,
e di qual chiostra".
"Per tutt´ i
cerchi del dolente regno",
rispuose lui, "son
io di qua venuto;
virtù del ciel mi
mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non
fare ho perduto
a veder l´alto Sol che
tu disiri
e che fu tardi per me
conosciuto.
Luogo è là giù non
tristo di martìri,
ma di tenebre solo, ove
i lamenti
non suonan come guai,
ma son sospiri.
Quivi sto io coi
pargoli innocenti
dai denti morsi de la
morte avante
che fosser da l´umana
colpa essenti;
quivi sto io con quei
che le tre sante
virtù non si vestiro, e
sanza vizio
conobber l´altre e
seguir tutte quante.
Ma se tu sai e puoi,
alcuno indizio
dà noi per che venir
possiam più tosto
là dove purgatorio ha
dritto inizio".
Rispuose: "Loco
certo non c´è posto;
licito m´è andar suso e
intorno;
per quanto ir posso, a
guida mi t´accosto.
Ma vedi già come
dichina il giorno,
e andar sù di notte non
si puote;
però è buon pensar di
bel soggiorno.
Anime sono a destra qua
remote;
se mi consenti, io ti
merrò ad esse,
e non sanza diletto ti
fier note".
"Com´ è ciò?",
fu risposto. "Chi volesse
salir di notte, fora
elli impedito
d´altrui, o non sarria
ché non potesse?".
E ´l buon Sordello in
terra fregò ´l dito,
dicendo: "Vedi?
sola questa riga
non varcheresti dopo ´l
sol partito:
non però ch´altra cosa
desse briga,
che la notturna
tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la
voglia intriga.
Ben si poria con lei
tornare in giuso
e passeggiar la costa
intorno errando,
mentre che l´orizzonte
il dì tien chiuso".
Allora il mio segnor,
quasi ammirando,
"Menane",
disse, "dunque là ´ve dici
ch´aver si può diletto
dimorando".
Poco allungati c´eravam
di lici,
quand´ io m´accorsi che
´l monte era scemo,
a guisa che i vallon li
sceman quici.
"Colà", disse
quell´ ombra, "n´anderemo
dove la costa face di sé
grembo;
e là il novo giorno
attenderemo".
Tra erto e piano era un
sentiero schembo,
che ne condusse in
fianco de la lacca,
là dove più ch´a mezzo
muore il lembo.
Oro e argento fine,
cocco e biacca,
indaco, legno lucido e
sereno,
fresco smeraldo in l´ora
che si fiacca,
da l´erba e da li fior,
dentr´ a quel seno
posti, ciascun saria di
color vinto,
come dal suo maggiore è
vinto il meno.
Non avea pur natura ivi
dipinto,
ma di soavità di mille
odori
vi facea uno incognito
e indistinto.
`Salve,
Regina´ in sul verde e ´n su´ fiori
quindi seder cantando
anime vidi,
che per la valle non
parean di fuori.
"Prima che ´l poco
sole omai s´annidi",
cominciò ´l Mantoan che
ci avea vòlti,
"tra color non
vogliate ch´io vi guidi.
Di questo balzo meglio
li atti e ´ volti
conoscerete voi di
tutti quanti,
che ne la lama giù tra
essi accolti.
Colui che più siede
alto e fa sembianti
d´aver negletto ciò che
far dovea,
e che non move bocca a
li altrui canti,
Rodolfo imperador fu,
che potea
sanar le piaghe c´hanno
Italia morta,
sì che tardi per altri
si ricrea.
L´altro che ne la vista
lui conforta,
resse la terra dove l´acqua
nasce
che Molta in Albia, e
Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe nome, e
ne le fasce
fu meglio assai che
Vincislao suo figlio
barbuto, cui lussuria e
ozio pasce.
E quel nasetto che
stretto a consiglio
par con colui c´ha sì
benigno aspetto,
morì fuggendo e
disfiorando il giglio:
guardate là come si
batte il petto!
L´altro vedete c´ha
fatto a la guancia
de la sua palma,
sospirando, letto.
Padre e suocero son del
mal di Francia:
sanno la vita sua
viziata e lorda,
e quindi viene il duol
che sì li lancia.
Quel che par sì
membruto e che s´accorda,
cantando, con colui dal
maschio naso,
d´ogne valor portò
cinta la corda;
e se re dopo lui fosse
rimaso
lo giovanetto che retro
a lui siede,
ben andava il valor di
vaso in vaso,
che non si puote dir de
l´altre rede;
Iacomo e Federigo hanno
i reami;
del retaggio miglior
nessun possiede.
Rade volte risurge per
li rami
l´umana probitate; e
questo vole
quei che la dà, perché
da lui si chiami.
Anche al nasuto vanno
mie parole
non men ch´a l´altro,
Pier, che con lui canta,
onde Puglia e Proenza
già si dole.
Tant´ è del seme suo
minor la pianta,
quanto, più che
Beatrice e Margherita,
Costanza di marito
ancor si vanta.
Vedete il re de la
semplice vita
seder là solo, Arrigo d´Inghilterra:
questi ha ne´ rami suoi
migliore uscita.
Quel che più basso tra
costor s´atterra,
guardando in suso, è
Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e
la sua guerra
fa pianger Monferrato e
Canavese".
Era già l´ora che volge
il disio
ai navicanti e ´ntenerisce
il core
lo dì c´han detto ai
dolci amici addio;
e che lo novo peregrin
d´amore
punge, se ode squilla
di lontano
che paia il giorno pianger
che si more;
quand´ io incominciai a
render vano
l´udire e a mirare una
de l´alme
surta, che l´ascoltar
chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo
le palme,
ficcando li occhi verso
l´orïente,
come dicesse a Dio:
`D´altro non calme´.
`Te lucis
ante´ sì devotamente
le uscìo di bocca e con
sì dolci note,
che fece me a me uscir
di mente;
e l´altre poi
dolcemente e devote
seguitar lei per tutto
l´inno intero,
avendo li occhi a le
superne rote.
Aguzza qui, lettor, ben
li occhi al vero,
ché ´l velo è ora ben
tanto sottile,
certo che ´l trapassar
dentro è leggero.
Io vidi quello
essercito gentile
tacito poscia
riguardare in sùe,
quasi aspettando,
palido e umìle;
e vidi uscir de l´alto
e scender giùe
due angeli con due spade
affocate,
tronche e private de le
punte sue.
Verdi come fogliette
pur mo nate
erano in veste, che da
verdi penne
percosse traean dietro
e ventilate.
L´un poco sovra noi a
star si venne,
e l´altro scese in l´opposita
sponda,
sì che la gente in
mezzo si contenne.
Ben discernëa in lor la
testa bionda;
ma ne la faccia l´occhio
si smarria,
come virtù ch´a troppo
si confonda.
"Ambo vegnon del
grembo di Maria",
disse Sordello, "a
guardia de la valle,
per lo serpente che
verrà vie via".
Ond´ io, che non sapeva
per qual calle,
mi volsi intorno, e
stretto m´accostai,
tutto gelato, a le
fidate spalle.
E Sordello anco:
"Or avvalliamo omai
tra le grandi ombre, e
parleremo ad esse;
grazïoso fia lor
vedervi assai".
Solo tre passi credo ch´i´
scendesse,
e fui di sotto, e vidi
un che mirava
pur me, come conoscer
mi volesse.
Temp´ era già che l´aere
s´annerava,
ma non sì che tra li
occhi suoi e ´ miei
non dichiarisse ciò che
pria serrava.
Ver´ me si fece, e io
ver´ lui mi fei:
giudice Nin gentil,
quanto mi piacque
quando ti vidi non
esser tra ´ rei!
Nullo bel salutar tra
noi si tacque;
poi dimandò:
"Quant´ è che tu venisti
a piè del monte per le
lontane acque?".
"Oh!", diss´
io lui, "per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono
in prima vita,
ancor che l´altra, sì
andando, acquisti".
E come fu la mia
risposta udita,
Sordello ed elli in
dietro si raccolse
come gente di sùbito
smarrita.
L´uno a Virgilio e l´altro
a un si volse
che sedea lì, gridando:
"Sù, Currado!
vieni a veder che Dio
per grazia volse".
Poi, vòlto a me:
"Per quel singular grado
che tu dei a colui che
sì nasconde
lo suo primo perché,
che non lì è guado,
quando sarai di là da
le larghe onde,
dì a Giovanna mia che
per me chiami
là dove a li ´nnocenti
si risponde.
Non credo che la sua
madre più m´ami,
poscia che trasmutò le
bianche bende,
le quai convien che,
misera!, ancor brami.
Per lei assai di lieve
si comprende
quanto in femmina foco
d´amor dura,
se l´occhio o ´l tatto
spesso non l´accende.
Non le farà sì bella
sepultura
la vipera che Melanesi
accampa,
com´ avria fatto il
gallo di Gallura".
Così dicea, segnato de
la stampa,
nel suo aspetto, di
quel dritto zelo
che misuratamente in
core avvampa.
Li occhi miei ghiotti
andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle
son più tarde,
sì come rota più presso
a lo stelo.
E ´l duca mio:
"Figliuol, che là sù guarde?".
E io a lui: "A
quelle tre facelle
di che ´l polo di qua
tutto quanto arde".
Ond´ elli a me:
"Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son
di là basse,
e queste son salite ov´
eran quelle".
Com´ ei parlava, e
Sordello a sé il trasse
dicendo: "Vedi là ´l
nostro avversaro";
e drizzò il dito perché
´n là guardasse.
Da quella parte onde
non ha riparo
la picciola vallea, era
una biscia,
forse qual diede ad Eva
il cibo amaro.
Tra l´erba e ´ fior venìa
la mala striscia,
volgendo ad ora ad or
la testa, e ´l dosso
leccando come bestia
che si liscia.
Io non vidi, e però
dicer non posso,
come mosser li astor
celestïali;
ma vidi bene e l´uno e
l´altro mosso.
Sentendo fender l´aere
a le verdi ali,
fuggì ´l serpente, e li
angeli dier volta,
suso a le poste
rivolando iguali.
L´ombra che s´era al
giudice raccolta
quando chiamò, per
tutto quello assalto
punto non fu da me
guardare sciolta.
"Se la lucerna che
ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio
tanta cera
quant´ è mestiere
infino al sommo smalto",
cominciò ella, "se
novella vera
di Val di Magra o di
parte vicina
sai, dillo a me, che già
grande là era.
Fui chiamato Currado
Malaspina;
non son l´antico, ma di
lui discesi;
a´ miei portai l´amor
che qui raffina".
"Oh!", diss´
io lui, "per li vostri paesi
già mai non fui; ma
dove si dimora
per tutta Europa ch´ei
non sien palesi?
La fama che la vostra
casa onora,
grida i segnori e grida
la contrada,
sì che ne sa chi non vi
fu ancora;
e io vi giuro, s´io di
sopra vada,
che vostra gente onrata
non si sfregia
del pregio de la borsa
e de la spada.
Uso e natura sì la
privilegia,
che, perché il capo reo
il mondo torca,
sola va dritta e ´l mal
cammin dispregia".
Ed elli: "Or va;
che ´l sol non si ricorca
sette volte nel letto
che ´l Montone
con tutti e quattro i
piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese
oppinïone
ti fia chiavata in
mezzo de la testa
con maggior chiovi che
d´altrui sermone,
se corso di giudicio
non s´arresta".
La concubina di Titone
antico
già s´imbiancava al
balco d´orïente,
fuor de le braccia del suo
dolce amico;
di gemme la sua fronte
era lucente,
poste in figura del
freddo animale
che con la coda
percuote la gente;
e la notte, de´ passi
con che sale,
fatti avea due nel loco
ov´ eravamo,
e ´l terzo già chinava
in giuso l´ale;
quand´ io, che meco
avea di quel d´Adamo,
vinto dal sonno, in su
l´erba inchinai
là ´ve già tutti e
cinque sedavamo.
Ne l´ora che comincia i
tristi lai
la rondinella presso a
la mattina,
forse a memoria de´ suo´
primi guai,
e che la mente nostra,
peregrina
più da la carne e men
da´ pensier presa,
a le sue visïon quasi è
divina,
in sogno mi parea veder
sospesa
un´aguglia nel ciel con
penne d´oro,
con l´ali aperte e a
calare intesa;
ed esser mi parea là
dove fuoro
abbandonati i suoi da
Ganimede,
quando fu ratto al
sommo consistoro.
Fra me pensava:
`Forse questa fiede
pur qui per uso, e
forse d´altro loco
disdegna di portarne
suso in piede´.
Poi mi parea che, poi
rotata un poco,
terribil come folgor
discendesse,
e me rapisse suso
infino al foco.
Ivi parea che ella e io
ardesse;
e sì lo ´ncendio
imaginato cosse,
che convenne che ´l
sonno si rompesse.
Non altrimenti Achille
si riscosse,
li occhi svegliati
rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove
si fosse,
quando la madre da Chirón
a Schiro
trafuggò lui dormendo
in le sue braccia,
là onde poi li Greci il
dipartiro;
che mi scoss´ io, sì
come da la faccia
mi fuggì ´l sonno, e
diventa´ ismorto,
come fa l´uom che,
spaventato, agghiaccia.
Dallato m´era solo il
mio conforto,
e ´l sole er´ alto già
più che due ore,
e ´l viso m´era a la
marina torto.
"Non aver
tema", disse il mio segnore;
"fatti sicur, ché
noi semo a buon punto;
non stringer, ma
rallarga ogne vigore.
Tu se´ omai al
purgatorio giunto:
vedi là il balzo che ´l
chiude dintorno;
vedi l´entrata là ´ve
par digiunto.
Dianzi, ne l´alba che
procede al giorno,
quando l´anima tua
dentro dormia,
sovra li fiori ond´ è là
giù addorno
venne una donna, e
disse: "I´ son Lucia;
lasciatemi pigliar
costui che dorme;
sì l´agevolerò per la
sua via".
Sordel rimase e l´altre
genti forme;
ella ti tolse, e come ´l
dì fu chiaro,
sen venne suso; e io
per le sue orme.
Qui ti posò, ma pria mi
dimostraro
li occhi suoi belli
quella intrata aperta;
poi ella e ´l sonno ad
una se n´andaro".
A guisa d´uom che ´n
dubbio si raccerta
e che muta in conforto
sua paura,
poi che la verità li è
discoperta,
mi cambia´ io; e come
sanza cura
vide me ´l duca mio, su
per lo balzo
si mosse, e io di
rietro inver´ l´altura.
Lettor, tu vedi ben com´
io innalzo
la mia matera, e però
con più arte
non ti maravigliar s´io
la rincalzo.
Noi ci appressammo, ed
eravamo in parte
che là dove pareami
prima rotto,
pur come un fesso che
muro diparte,
vidi una porta, e tre
gradi di sotto
per gire ad essa, di
color diversi,
e un portier ch´ancor
non facea motto.
E come l´occhio più e
più v´apersi,
vidil seder sovra ´l
grado sovrano,
tal ne la faccia ch´io
non lo soffersi;
e una spada nuda avëa
in mano,
che reflettëa i raggi sì
ver´ noi,
ch´io drizzava spesso
il viso in vano.
"Dite costinci:
che volete voi?",
cominciò elli a dire,
"ov´ è la scorta?
Guardate che ´l venir sù
non vi nòi".
"Donna del ciel,
di queste cose accorta",
rispuose ´l mio maestro
a lui, "pur dianzi
ne disse: "Andate
là: quivi è la porta"".
"Ed ella i passi
vostri in bene avanzi",
ricominciò il cortese
portinaio:
"Venite dunque a´
nostri gradi innanzi".
Là ne venimmo; e lo
scaglion primaio
bianco marmo era sì
pulito e terso,
ch´io mi specchiai in
esso qual io paio.
Era il secondo tinto più
che perso,
d´una petrina ruvida e
arsiccia,
crepata per lo lungo e
per traverso.
Lo terzo, che di sopra
s´ammassiccia,
porfido mi parea, sì
fiammeggiante
come sangue che fuor di
vena spiccia.
Sovra questo tenëa ambo
le piante
l´angel di Dio sedendo
in su la soglia
che mi sembiava pietra
di diamante.
Per li tre gradi sù di
buona voglia
mi trasse il duca mio,
dicendo: "Chiedi
umilemente che ´l
serrame scioglia".
Divoto mi gittai a´
santi piedi;
misericordia chiesi e
ch´el m´aprisse,
ma tre volte nel petto
pria mi diedi.
Sette P ne la fronte mi
descrisse
col punton de la spada,
e "Fa che lavi,
quando se´ dentro,
queste piaghe" disse.
Cenere, o terra che
secca si cavi,
d´un color fora col suo
vestimento;
e di sotto da quel
trasse due chiavi.
L´una era d´oro e l´altra
era d´argento;
pria con la bianca e
poscia con la gialla
fece a la porta sì, ch´i´
fu´ contento.
"Quandunque l´una
d´este chiavi falla,
che non si volga dritta
per la toppa",
diss´ elli a noi,
"non s´apre questa calla.
Più cara è l´una; ma l´altra
vuol troppa
d´arte e d´ingegno
avanti che diserri,
perch´ ella è quella
che ´l nodo digroppa.
Da Pier le tegno; e
dissemi ch´i´ erri
anzi ad aprir ch´a
tenerla serrata,
pur che la gente a´
piedi mi s´atterri".
Poi pinse l´uscio a la
porta sacrata,
dicendo: "Intrate;
ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ´n
dietro si guata".
E quando fuor ne´
cardini distorti
li spigoli di quella
regge sacra,
che di metallo son
sonanti e forti,
non rugghiò sì né si
mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le
fu il buono
Metello, per che poi
rimase macra.
Io mi rivolsi attento
al primo tuono,
e `Te Deum
laudamus´ mi parea
udire in voce mista al
dolce suono.
Tale imagine a punto mi
rendea
ciò ch´io udiva, qual
prender si suole
quando a cantar con
organi si stea;
ch´or sì or no s´intendon
le parole.
Poi fummo dentro al
soglio de la porta
che ´l mal amor de l´anime
disusa,
perché fa parer dritta
la via torta,
sonando la senti´ esser
richiusa;
e s´io avesse li occhi
vòlti ad essa,
qual fora stata al
fallo degna scusa?
Noi salavam per una
pietra fessa,
che si moveva e d´una e
d´altra parte,
sì come l´onda che
fugge e s´appressa.
"Qui si conviene
usare un poco d´arte",
cominciò ´l duca mio,
"in accostarsi
or quinci, or quindi al
lato che si parte".
E questo fece i nostri
passi scarsi,
tanto che pria lo scemo
de la luna
rigiunse al letto suo
per ricorcarsi,
che noi fossimo fuor di
quella cruna;
ma quando fummo liberi
e aperti
sù dove il monte in
dietro si rauna,
ïo stancato e amendue
incerti
di nostra via, restammo
in su un piano
solingo più che strade
per diserti.
Da la sua sponda, ove
confina il vano,
al piè de l´alta ripa
che pur sale,
misurrebbe in tre volte
un corpo umano;
e quanto l´occhio mio
potea trar d´ale,
or dal sinistro e or
dal destro fianco,
questa cornice mi parea
cotale.
Là sù non eran mossi i
piè nostri anco,
quand´ io conobbi
quella ripa intorno
che dritto di salita
aveva manco,
esser di marmo candido
e addorno
d´intagli sì, che non
pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe
scorno.
L´angel che venne in
terra col decreto
de la molt´ anni
lagrimata pace,
ch´aperse il ciel del
suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì
verace
quivi intagliato in un
atto soave,
che non sembiava
imagine che tace.
Giurato si saria ch´el
dicesse `Ave!´;
perché iv´ era
imaginata quella
ch´ad aprir l´alto amor
volse la chiave;
e avea in atto impressa
esta favella
`Ecce ancilla
Deï´, propriamente
come figura in cera si
suggella.
"Non tener pur ad
un loco la mente",
disse ´l dolce maestro,
che m´avea
da quella parte onde ´l
cuore ha la gente.
Per ch´i´ mi mossi col
viso, e vedea
di retro da Maria, da
quella costa
onde m´era colui che mi
movea,
un´altra storia ne la
roccia imposta;
per ch´io varcai
Virgilio, e fe´mi presso,
acciò che fosse a li
occhi miei disposta.
Era intagliato lì nel
marmo stesso
lo carro e ´ buoi,
traendo l´arca santa,
per che si teme officio
non commesso.
Dinanzi parea gente; e
tutta quanta,
partita in sette cori,
a´ due mie´ sensi
faceva dir l´un
`No´, l´altro `Sì, canta´.
Similemente al fummo de
li ´ncensi
che v´era imaginato, li
occhi e ´l naso
e al sì e al no
discordi fensi.
Lì precedeva al
benedetto vaso,
trescando alzato, l´umile
salmista,
e più e men che re era
in quel caso.
Di contra, effigïata ad
una vista
d´un gran palazzo, Micòl
ammirava
sì come donna
dispettosa e trista.
I´ mossi i piè del loco
dov´ io stava,
per avvisar da presso
un´altra istoria,
che di dietro a Micòl
mi biancheggiava.
Quiv´ era storïata l´alta
gloria
del roman principato, il
cui valore
mosse Gregorio a la sua
gran vittoria;
i´ dico di Traiano
imperadore;
e una vedovella li era
al freno,
di lagrime atteggiata e
di dolore.
Intorno a lui parea
calcato e pieno
di cavalieri, e l´aguglie
ne l´oro
sovr´ essi in vista al
vento si movieno.
La miserella intra
tutti costoro
pareva dir:
"Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol ch´è
morto, ond´ io m´accoro";
ed elli a lei
rispondere: "Or aspetta
tanto ch´i´
torni"; e quella: "Segnor mio",
come persona in cui
dolor s´affretta,
"se tu non
torni?"; ed ei: "Chi fia dov´ io,
la ti farà"; ed
ella: "L´altrui bene
a te che fia, se ´l tuo
metti in oblio?";
ond´ elli: "Or ti
conforta; ch´ei convene
ch´i´ solva il mio
dovere anzi ch´i´ mova:
giustizia vuole e pietà
mi ritene".
Colui che mai non vide
cosa nova
produsse esto visibile
parlare,
novello a noi perché
qui non si trova.
Mentr´ io mi dilettava
di guardare
l´imagini di tante
umilitadi,
e per lo fabbro loro a
veder care,
"Ecco di qua, ma
fanno i passi radi",
mormorava il poeta,
"molte genti:
questi ne ´nvïeranno a
li alti gradi".
Li occhi miei, ch´a
mirare eran contenti
per veder novitadi ond´
e´ son vaghi,
volgendosi ver´ lui non
furon lenti.
Non vo´ però, lettor,
che tu ti smaghi
di buon proponimento
per udire
come Dio vuol che ´l
debito si paghi.
Non attender la forma
del martìre:
pensa la succession;
pensa ch´al peggio
oltre la gran sentenza
non può ire.
Io cominciai:
"Maestro, quel ch´io veggio
muovere a noi, non mi
sembian persone,
e non so che, sì nel
veder vaneggio".
Ed elli a me: "La
grave condizione
di lor tormento a terra
li rannicchia,
sì che ´ miei occhi
pria n´ebber tencione.
Ma guarda fiso là, e
disviticchia
col viso quel che vien
sotto a quei sassi:
già scorger puoi come
ciascun si picchia".
O superbi cristian,
miseri lassi,
che, de la vista de la
mente infermi,
fidanza avete ne´
retrosi passi,
non v´accorgete voi che
noi siam vermi
nati a formar l´angelica
farfalla,
che vola a la giustizia
sanza schermi?
Di che l´animo vostro
in alto galla,
poi siete quasi
antomata in difetto,
sì come vermo in cui
formazion falla?
Come per sostentar
solaio o tetto,
per mensola talvolta
una figura
si vede giugner le
ginocchia al petto,
la qual fa del non ver
vera rancura
nascere ´n chi la vede;
così fatti
vid´ io color, quando
puosi ben cura.
Vero è che più e meno
eran contratti
secondo ch´avien più e
meno a dosso;
e qual più pazïenza
avea ne li atti,
piangendo parea dicer:
`Più non posso´.
"O Padre nostro,
che ne´ cieli stai,
non circunscritto, ma
per più amore
ch´ai primi effetti di
là sù tu hai,
laudato sia ´l tuo nome
e ´l tuo valore
da ogne creatura, com´ è
degno
di render grazie al tuo
dolce vapore.
Vegna ver´ noi la pace
del tuo regno,
ché noi ad essa non
potem da noi,
s´ella non vien, con
tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li
angeli tuoi
fan sacrificio a te,
cantando osanna,
così facciano li uomini
de´ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana
manna,
sanza la qual per
questo aspro diserto
a retro va chi più di
gir s´affanna.
E come noi lo mal ch´avem
sofferto
perdoniamo a ciascuno,
e tu perdona
benigno, e non guardar
lo nostro merto.
Nostra virtù che di
legger s´adona,
non spermentar con l´antico
avversaro,
ma libera da lui che sì
la sprona.
Quest´ ultima
preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi,
ché non bisogna,
ma per color che dietro
a noi restaro".
Così a sé e noi buona
ramogna
quell´ ombre orando,
andavan sotto ´l pondo,
simile a quel che
talvolta si sogna,
disparmente angosciate
tutte a tondo
e lasse su per la prima
cornice,
purgando la caligine
del mondo.
Se di là sempre ben per
noi si dice,
di qua che dire e far
per lor si puote
da quei c´hanno al
voler buona radice?
Ben si de´ loro atar
lavar le note
che portar quinci, sì
che, mondi e lievi,
possano uscire a le
stellate ruote.
"Deh, se giustizia
e pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate
muover l´ala,
che secondo il disio
vostro vi lievi,
mostrate da qual mano
inver´ la scala
si va più corto; e se c´è
più d´un varco,
quel ne ´nsegnate che
men erto cala;
ché questi che vien
meco, per lo ´ncarco
de la carne d´Adamo
onde si veste,
al montar sù, contra
sua voglia, è parco".
Le lor parole, che
rendero a queste
che dette avea colui cu´
io seguiva,
non fur da cui venisser
manifeste;
ma fu detto: "A
man destra per la riva
con noi venite, e
troverete il passo
possibile a salir
persona viva.
E s´io non fossi
impedito dal sasso
che la cervice mia
superba doma,
onde portar convienmi
il viso basso,
cotesti, ch´ancor vive
e non si noma,
guardere´ io, per veder
s´i´ ´l conosco,
e per farlo pietoso a
questa soma.
Io fui latino e nato d´un
gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco
fu mio padre;
non so se ´l nome suo
già mai fu vosco.
L´antico sangue e l´opere
leggiadre
d´i miei maggior mi fer
sì arrogante,
che, non pensando a la
comune madre,
ogn´ uomo ebbi in
despetto tanto avante,
ch´io ne mori´, come i
Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico
ogne fante.
Io sono Omberto; e non
pur a me danno
superbia fa, ché tutti
miei consorti
ha ella tratti seco nel
malanno.
E qui convien ch´io
questo peso porti
per lei, tanto che a
Dio si sodisfaccia,
poi ch´io nol fe´ tra ´
vivi, qui tra ´ morti".
Ascoltando chinai in giù
la faccia;
e un di lor, non questi
che parlava,
si torse sotto il peso
che li ´mpaccia,
e videmi e conobbemi e
chiamava,
tenendo li occhi con
fatica fisi
a me che tutto chin con
loro andava.
"Oh!", diss´
io lui, "non se´ tu Oderisi,
l´onor d´Agobbio e l´onor
di quell´ arte
ch´alluminar chiamata è
in Parisi?".
"Frate", diss´
elli, "più ridon le carte
che pennelleggia Franco
Bolognese;
l´onore è tutto or suo,
e mio in parte.
Ben non sare´ io stato
sì cortese
mentre ch´io vissi, per
lo gran disio
de l´eccellenza ove mio
core intese.
Di tal superbia qui si
paga il fio;
e ancor non sarei qui,
se non fosse
che, possendo peccar,
mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l´umane
posse!
com´ poco verde in su
la cima dura,
se non è giunta da l´etati
grosse!
Credette Cimabue ne la
pittura
tener lo campo, e ora
ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui
è scura.
Così ha tolto l´uno a l´altro
Guido
la gloria de la lingua;
e forse è nato
chi l´uno e l´altro
caccerà del nido.
Non è il mondan romore
altro ch´un fiato
di vento, ch´or vien
quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta
lato.
Che voce avrai tu più,
se vecchia scindi
da te la carne, che se
fossi morto
anzi che tu lasciassi
il `pappo´ e ´l `dindi´,
pria che passin mill´
anni? ch´è più corto
spazio a l´etterno, ch´un
muover di ciglia
al cerchio che più
tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin sì
poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò
tutta;
e ora a pena in Siena
sen pispiglia,
ond´ era sire quando fu
distrutta
la rabbia fiorentina,
che superba
fu a quel tempo sì com´
ora è putta.
La vostra nominanza è
color d´erba,
che viene e va, e quei
la discolora
per cui ella esce de la
terra acerba".
E io a lui: "Tuo
vero dir m´incora
bona umiltà, e gran
tumor m´appiani;
ma chi è quei di cui tu
parlavi ora?".
"Quelli è",
rispuose, "Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu
presuntüoso
a recar Siena tutta a
le sue mani.
Ito è così e va, sanza
riposo,
poi che morì; cotal
moneta rende
a sodisfar chi è di là
troppo oso".
E io: "Se quello
spirito ch´attende,
pria che si penta, l´orlo
de la vita,
qua giù dimora e qua sù
non ascende,
se buona orazïon lui
non aita,
prima che passi tempo
quanto visse,
come fu la venuta lui
largita?".
"Quando vivea più
glorïoso", disse,
"liberamente nel
Campo di Siena,
ogne vergogna diposta,
s´affisse;
e lì, per trar l´amico
suo di pena,
ch´e´ sostenea ne la
prigion di Carlo,
si condusse a tremar
per ogne vena.
Più non dirò, e scuro
so che parlo;
ma poco tempo andrà,
che ´ tuoi vicini
faranno sì che tu
potrai chiosarlo.
Quest´ opera li tolse
quei confini".
Di pari, come buoi che
vanno a giogo,
m´andava io con quell´
anima carca,
fin che ´l sofferse il
dolce pedagogo.
Ma quando disse:
"Lascia lui e varca;
ché qui è buono con l´ali
e coi remi,
quantunque può, ciascun
pinger sua barca";
dritto sì come andar
vuolsi rife´mi
con la persona, avvegna
che i pensieri
mi rimanessero e
chinati e scemi.
Io m´era mosso, e
seguia volontieri
del mio maestro i
passi, e amendue
già mostravam com´
eravam leggeri;
ed el mi disse:
"Volgi li occhi in giùe:
buon ti sarà, per
tranquillar la via,
veder lo letto de le
piante tue".
Come, perché di lor
memoria sia,
sovra i sepolti le
tombe terragne
portan segnato quel ch´elli
eran pria,
onde lì molte volte si
ripiagne
per la puntura de la
rimembranza,
che solo a´ pïi dà de
le calcagne;
sì vid´ io lì, ma di
miglior sembianza
secondo l´artificio,
figurato
quanto per via di fuor
del monte avanza.
Vedea colui che fu
nobil creato
più ch´altra creatura,
giù dal cielo
folgoreggiando scender,
da l´un lato.
Vedëa Brïareo fitto dal
telo
celestïal giacer, da l´altra
parte,
grave a la terra per lo
mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea
Pallade e Marte,
armati ancora, intorno
al padre loro,
mirar le membra d´i
Giganti sparte.
Vedea Nembròt a piè del
gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar
le genti
che ´n Sennaàr con lui
superbi fuoro.
O Nïobè, con che occhi
dolenti
vedea io te segnata in
su la strada,
tra sette e sette tuoi
figliuoli spenti!
O Saùl, come in su la
propria spada
quivi parevi morto in
Gelboè,
che poi non sentì
pioggia né rugiada!
O folle Aragne, sì
vedea io te
già mezza ragna, trista
in su li stracci
de l´opera che mal per
te si fé.
O Roboàm, già non par
che minacci
quivi ´l tuo segno; ma
pien di spavento
nel porta un carro,
sanza ch´altri il cacci.
Mostrava ancor lo duro
pavimento
come Almeon a sua madre
fé caro
parer lo sventurato
addornamento.
Mostrava come i figli
si gittaro
sovra Sennacherìb
dentro dal tempio,
e come, morto lui,
quivi il lasciaro.
Mostrava la ruina e ´l
crudo scempio
che fé Tamiri, quando
disse a Ciro:
"Sangue sitisti, e
io di sangue t´empio".
Mostrava come in rotta
si fuggiro
li Assiri, poi che fu
morto Oloferne,
e anche le reliquie del
martiro.
Vedeva Troia in cenere
e in caverne;
o Ilïón, come te basso
e vile
mostrava il segno che lì
si discerne!
Qual di pennel fu
maestro o di stile
che ritraesse l´ombre e
´ tratti ch´ivi
mirar farieno uno
ingegno sottile?
Morti li morti e i vivi
parean vivi:
non vide mei di me chi
vide il vero,
quant´ io calcai, fin
che chinato givi.
Or superbite, e via col
viso altero,
figliuoli d´Eva, e non
chinate il volto
sì che veggiate il
vostro mal sentero!
Più era già per noi del
monte vòlto
e del cammin del sole
assai più speso
che non stimava l´animo
non sciolto,
quando colui che sempre
innanzi atteso
andava, cominciò:
"Drizza la testa;
non è più tempo di gir
sì sospeso.
Vedi colà un angel che
s´appresta
per venir verso noi;
vedi che torna
dal servigio del dì l´ancella
sesta.
Di reverenza il viso e
li atti addorna,
sì che i diletti lo ´nvïarci
in suso;
pensa che questo dì mai
non raggiorna!".
Io era ben del suo
ammonir uso
pur di non perder
tempo, sì che ´n quella
materia non potea
parlarmi chiuso.
A noi venìa la creatura
bella,
biancovestito e ne la
faccia quale
par tremolando
mattutina stella.
Le braccia aperse, e
indi aperse l´ale;
disse: "Venite:
qui son presso i gradi,
e agevolemente omai si
sale.
A questo invito vegnon
molto radi:
o gente umana, per
volar sù nata,
perché a poco vento così
cadi?".
Menocci ove la roccia
era tagliata;
quivi mi batté l´ali
per la fronte;
poi mi promise sicura l´andata.
Come a man destra, per
salire al monte
dove siede la chiesa
che soggioga
la ben guidata sopra
Rubaconte,
si rompe del montar l´ardita
foga
per le scalee che si
fero ad etade
ch´era sicuro il
quaderno e la doga;
così s´allenta la ripa
che cade
quivi ben ratta da l´altro
girone;
ma quinci e quindi l´alta
pietra rade.
Noi volgendo ivi le
nostre persone,
`Beati
pauperes spiritu!´ voci
cantaron sì, che nol
diria sermone.
Ahi quanto son diverse
quelle foci
da l´infernali! ché
quivi per canti
s´entra, e là giù per
lamenti feroci.
Già montavam su per li
scaglion santi,
ed esser mi parea
troppo più lieve
che per lo pian non mi
parea davanti.
Ond´ io: "Maestro,
dì, qual cosa greve
levata s´è da me, che
nulla quasi
per me fatica, andando,
si riceve?".
Rispuose: "Quando
i P che son rimasi
ancor nel volto tuo
presso che stinti,
saranno, com´ è l´un,
del tutto rasi,
fier li tuoi piè dal
buon voler sì vinti,
che non pur non fatica
sentiranno,
ma fia diletto loro
esser sù pinti".
Allor fec´ io come
color che vanno
con cosa in capo non da
lor saputa,
se non che ´ cenni altrui
sospecciar fanno;
per che la mano ad
accertar s´aiuta,
e cerca e truova e
quello officio adempie
che non si può fornir
per la veduta;
e con le dita de la
destra scempie
trovai pur sei le
lettere che ´ncise
quel da le chiavi a me
sovra le tempie:
a che guardando, il mio
duca sorrise.
Noi eravamo al sommo de
la scala,
dove secondamente si
risega
lo monte che salendo
altrui dismala.
Ivi così una cornice
lega
dintorno il poggio,
come la primaia;
se non che l´arco suo
più tosto piega.
Ombra non lì è né segno
che si paia:
parsi la ripa e parsi
la via schietta
col livido color de la
petraia.
"Se qui per
dimandar gente s´aspetta",
ragionava il poeta,
"io temo forse
che troppo avrà d´indugio
nostra eletta".
Poi fisamente al sole
li occhi porse;
fece del destro lato a
muover centro,
e la sinistra parte di
sé torse.
"O dolce lume a
cui fidanza i´ entro
per lo novo cammin, tu
ne conduci",
dicea, "come
condur si vuol quinc´ entro.
Tu scaldi il mondo, tu
sovr´ esso luci;
s´altra ragione in
contrario non ponta,
esser dien sempre li
tuoi raggi duci".
Quanto di qua per un
migliaio si conta,
tanto di là eravam noi
già iti,
con poco tempo, per la
voglia pronta;
e verso noi volar furon
sentiti,
non però visti, spiriti
parlando
a la mensa d´amor
cortesi inviti.
La prima voce che passò
volando
`Vinum non
habent´ altamente disse,
e dietro a noi l´andò
reïterando.
E prima che del tutto
non si udisse
per allungarsi, un´altra
`I´ sono Oreste´
passò gridando, e anco
non s´affisse.
"Oh!", diss´
io, "padre, che voci son queste?".
E com´ io domandai,
ecco la terza
dicendo:
`Amate da cui male aveste´.
E ´l buon maestro:
"Questo cinghio sferza
la colpa de la invidia,
e però sono
tratte d´amor le corde
de la ferza.
Lo fren vuol esser del
contrario suono;
credo che l´udirai, per
mio avviso,
prima che giunghi al
passo del perdono.
Ma ficca li occhi per l´aere
ben fiso,
e vedrai gente innanzi
a noi sedersi,
e ciascun è lungo la
grotta assiso".
Allora più che prima li
occhi apersi;
guarda´mi innanzi, e
vidi ombre con manti
al color de la pietra
non diversi.
E poi che fummo un poco
più avanti,
udia gridar:
`Maria, òra per noi´:
gridar
`Michele´ e `Pietro´ e `Tutti santi´.
Non credo che per terra
vada ancoi
omo sì duro, che non
fosse punto
per compassion di quel
ch´i´ vidi poi;
ché, quando fui sì
presso di lor giunto,
che li atti loro a me
venivan certi,
per li occhi fui di
grave dolor munto.
Di vil ciliccio mi
parean coperti,
e l´un sofferia l´altro
con la spalla,
e tutti da la ripa eran
sofferti.
Così li ciechi a cui la
roba falla,
stanno a´ perdoni a
chieder lor bisogna,
e l´uno il capo sopra l´altro
avvalla,
perché ´n altrui pietà
tosto si pogna,
non pur per lo sonar de
le parole,
ma per la vista che non
meno agogna.
E come a li orbi non
approda il sole,
così a l´ombre quivi,
ond´ io parlo ora,
luce del ciel di sé
largir non vole;
ché a tutti un fil di
ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a
sparvier selvaggio
si fa però che queto
non dimora.
A me pareva, andando,
fare oltraggio,
veggendo altrui, non
essendo veduto:
per ch´io mi volsi al
mio consiglio saggio.
Ben sapev´ ei che volea
dir lo muto;
e però non attese mia
dimanda,
ma disse: "Parla,
e sie breve e arguto".
Virgilio mi venìa da
quella banda
de la cornice onde
cader si puote,
perché da nulla sponda
s´inghirlanda;
da l´altra parte m´eran
le divote
ombre, che per l´orribile
costura
premevan sì, che
bagnavan le gote.
Volsimi a loro e:
"O gente sicura",
incominciai, "di
veder l´alto lume
che ´l disio vostro
solo ha in sua cura,
se tosto grazia resolva
le schiume
di vostra coscïenza sì
che chiaro
per essa scenda de la
mente il fiume,
ditemi, ché mi fia
grazioso e caro,
s´anima è qui tra voi
che sia latina;
e forse lei sarà buon s´i´
l´apparo".
"O frate mio,
ciascuna è cittadina
d´una vera città; ma tu
vuo´ dire
che vivesse in Italia
peregrina".
Questo mi parve per
risposta udire
più innanzi alquanto
che là dov´ io stava,
ond´ io mi feci ancor
più là sentire.
Tra l´altre vidi un´ombra
ch´aspettava
in vista; e se volesse
alcun dir `Come?´,
lo mento a guisa d´orbo
in sù levava.
"Spirto",
diss´ io, "che per salir ti dome,
se tu se´ quelli che mi
rispondesti,
fammiti conto o per
luogo o per nome".
"Io fui
sanese", rispuose, "e con questi
altri rimendo qui la
vita ria,
lagrimando a colui che
sé ne presti.
Savia non fui, avvegna
che Sapìa
fossi chiamata, e fui
de li altrui danni
più lieta assai che di
ventura mia.
E perché tu non creda
ch´io t´inganni,
odi s´i´ fui, com´ io
ti dico, folle,
già discendendo l´arco
d´i miei anni.
Eran li cittadin miei
presso a Colle
in campo giunti co´
loro avversari,
e io pregava Iddio di
quel ch´e´ volle.
Rotti fuor quivi e vòlti
ne li amari
passi di fuga; e
veggendo la caccia,
letizia presi a tutte
altre dispari,
tanto ch´io volsi in sù
l´ardita faccia,
gridando a Dio:
"Omai più non ti temo!",
come fé ´l merlo per
poca bonaccia.
Pace volli con Dio in
su lo stremo
de la mia vita; e ancor
non sarebbe
lo mio dover per
penitenza scemo,
se ciò non fosse, ch´a
memoria m´ebbe
Pier Pettinaio in sue
sante orazioni,
a cui di me per
caritate increbbe.
Ma tu chi se´, che
nostre condizioni
vai dimandando, e porti
li occhi sciolti,
sì com´ io credo, e
spirando ragioni?".
"Li occhi",
diss´ io, "mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché
poca è l´offesa
fatta per esser con
invidia vòlti.
Troppa è più la paura
ond´ è sospesa
l´anima mia del
tormento di sotto,
che già lo ´ncarco di là
giù mi pesa".
Ed ella a me: "Chi
t´ha dunque condotto
qua sù tra noi, se giù
ritornar credi?".
E io: "Costui ch´è
meco e non fa motto.
E vivo sono; e però mi
richiedi,
spirito eletto, se tu
vuo´ ch´i´ mova
di là per te ancor li
mortai piedi".
"Oh, questa è a
udir sì cosa nuova",
rispuose, "che
gran segno è che Dio t´ami;
però col priego tuo
talor mi giova.
E cheggioti, per quel
che tu più brami,
se mai calchi la terra
di Toscana,
che a´ miei propinqui
tu ben mi rinfami.
Tu li vedrai tra quella
gente vana
che spera in Talamone,
e perderagli
più di speranza ch´a
trovar la Diana;
ma più vi perderanno li
ammiragli".
"Chi è costui che ´l
nostro monte cerchia
prima che morte li
abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua
voglia e coverchia?".
"Non so chi sia,
ma so ch´e´ non è solo;
domandal tu che più li
t´avvicini,
e dolcemente, sì che parli,
acco´lo".
Così due spirti, l´uno
a l´altro chini,
ragionavan di me ivi a
man dritta;
poi fer li visi, per
dirmi, supini;
e disse l´uno: "O
anima che fitta
nel corpo ancora inver´
lo ciel ten vai,
per carità ne consola e
ne ditta
onde vieni e chi se´;
ché tu ne fai
tanto maravigliar de la
tua grazia,
quanto vuol cosa che
non fu più mai".
E io: "Per mezza
Toscana si spazia
un fiumicel che nasce
in Falterona,
e cento miglia di corso
nol sazia.
Di sovr´ esso rech´ io
questa persona:
dirvi ch´i´ sia, saria
parlare indarno,
ché ´l nome mio ancor
molto non suona".
"Se ben lo ´ntendimento
tuo accarno
con lo ´ntelletto",
allora mi rispuose
quei che diceva pria,
"tu parli d´Arno".
E l´altro disse lui:
"Perché nascose
questi il vocabol di
quella riviera,
pur com´ om fa de l´orribili
cose?".
E l´ombra che di ciò
domandata era,
si sdebitò così:
"Non so; ma degno
ben è che ´l nome di
tal valle pèra;
ché dal principio suo,
ov´ è sì pregno
l´alpestro monte ond´ è
tronco Peloro,
che ´n pochi luoghi
passa oltra quel segno,
infin là ´ve si rende
per ristoro
di quel che ´l ciel de
la marina asciuga,
ond´ hanno i fiumi ciò
che va con loro,
vertù così per nimica
si fuga
da tutti come biscia, o
per sventura
del luogo, o per mal
uso che li fruga:
ond´ hanno sì mutata
lor natura
li abitator de la
misera valle,
che par che Circe li
avesse in pastura.
Tra brutti porci, più
degni di galle
che d´altro cibo fatto
in uman uso,
dirizza prima il suo
povero calle.
Botoli trova poi,
venendo giuso,
ringhiosi più che non
chiede lor possa,
e da lor disdegnosa
torce il muso.
Vassi caggendo; e quant´
ella più ´ngrossa,
tanto più trova di can
farsi lupi
la maladetta e
sventurata fossa.
Discesa poi per più
pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene
di froda,
che non temono ingegno
che le occùpi.
Né lascerò di dir perch´
altri m´oda;
e buon sarà costui, s´ancor
s´ammenta
di ciò che vero spirto
mi disnoda.
Io veggio tuo nepote
che diventa
cacciator di quei lupi
in su la riva
del fiero fiume, e
tutti li sgomenta.
Vende la carne loro
essendo viva;
poscia li ancide come
antica belva;
molti di vita e sé di
pregio priva.
Sanguinoso esce de la
trista selva;
lasciala tal, che di
qui a mille anni
ne lo stato primaio non
si rinselva".
Com´ a l´annunzio di
dogliosi danni
si turba il viso di
colui ch´ascolta,
da qual che parte il
periglio l´assanni,
così vid´ io l´altr´
anima, che volta
stava a udir, turbarsi
e farsi trista,
poi ch´ebbe la parola a
sé raccolta.
Lo dir de l´una e de l´altra
la vista
mi fer voglioso di
saper lor nomi,
e dimanda ne fei con
prieghi mista;
per che lo spirto che
di pria parlòmi
ricominciò: "Tu
vuo´ ch´io mi deduca
nel fare a te ciò che
tu far non vuo´mi.
Ma da che Dio in te
vuol che traluca
tanto sua grazia, non
ti sarò scarso;
però sappi ch´io fui
Guido del Duca.
Fu il sangue mio d´invidia
sì rïarso,
che se veduto avesse
uom farsi lieto,
visto m´avresti di
livore sparso.
Di mia semente cotal paglia
mieto;
o gente umana, perché
poni ´l core
là ´v´ è mestier di
consorte divieto?
Questi è Rinier; questi
è ´l pregio e l´onore
de la casa da Calboli,
ove nullo
fatto s´è reda poi del
suo valore.
E non pur lo suo sangue
è fatto brullo,
tra ´l Po e ´l monte e
la marina e ´l Reno,
del ben richesto al
vero e al trastullo;
ché dentro a questi
termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì
che tardi
per coltivare omai
verrebber meno.
Ov´ è ´l buon Lizio e
Arrigo Mainardi?
Pier Traversaro e Guido
di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati
in bastardi!
Quando in Bologna un
Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un
Bernardin di Fosco,
verga gentil di
picciola gramigna?
Non ti maravigliar s´io
piango, Tosco,
quando rimembro, con
Guido da Prata,
Ugolin d´Azzo che
vivette nosco,
Federigo Tignoso e sua
brigata,
la casa Traversara e li
Anastagi
(e l´una gente e l´altra
è diretata),
le donne e ´ cavalier,
li affanni e li agi
che ne ´nvogliava amore
e cortesia
là dove i cuor son
fatti sì malvagi.
O Bretinoro, ché non
fuggi via,
poi che gita se n´è la
tua famiglia
e molta gente per non
esser ria?
Ben fa Bagnacaval, che
non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e
peggio Conio,
che di figliar tai
conti più s´impiglia.
Ben faranno i Pagan, da
che ´l demonio
lor sen girà; ma non
però che puro
già mai rimagna d´essi
testimonio.
O Ugolin de´ Fantolin,
sicuro
è ´l nome tuo, da che
più non s´aspetta
chi far lo possa,
tralignando, scuro.
Ma va via, Tosco, omai;
ch´or mi diletta
troppo di pianger più
che di parlare,
sì m´ha nostra ragion
la mente stretta".
Noi sapavam che quell´
anime care
ci sentivano andar; però,
tacendo,
facëan noi del cammin
confidare.
Poi fummo fatti soli
procedendo,
folgore parve quando l´aere
fende,
voce che giunse di
contra dicendo:
`Anciderammi
qualunque m´apprende´;
e fuggì come tuon che
si dilegua,
se sùbito la nuvola
scoscende.
Come da lei l´udir
nostro ebbe triegua,
ed ecco l´altra con sì
gran fracasso,
che somigliò tonar che
tosto segua:
"Io sono Aglauro
che divenni sasso";
e allor, per
ristrignermi al poeta,
in destro feci, e non
innanzi, il passo.
Già era l´aura d´ogne
parte queta;
ed el mi disse:
"Quel fu ´l duro camo
che dovria l´uom tener
dentro a sua meta.
Ma voi prendete l´esca,
sì che l´amo
de l´antico avversaro a
sé vi tira;
e però poco val freno o
richiamo.
Chiamavi ´l cielo e ´ntorno
vi si gira,
mostrandovi le sue
bellezze etterne,
e l´occhio vostro pur a
terra mira;
onde vi batte chi tutto
discerne".
Quanto tra l´ultimar de
l´ora terza
e ´l principio del dì
par de la spera
che sempre a guisa di
fanciullo scherza,
tanto pareva già inver´
la sera
essere al sol del suo
corso rimaso;
vespero là, e qui mezza
notte era.
E i raggi ne ferien per
mezzo ´l naso,
perché per noi girato
era sì ´l monte,
che già dritti andavamo
inver´ l´occaso,
quand´ io senti´ a me
gravar la fronte
a lo splendore assai più
che di prima,
e stupor m´eran le cose
non conte;
ond´ io levai le mani
inver´ la cima
de le mie ciglia, e
fecimi ´l solecchio,
che del soverchio
visibile lima.
Come quando da l´acqua
o da lo specchio
salta lo raggio a l´opposita
parte,
salendo su per lo modo
parecchio
a quel che scende, e
tanto si diparte
dal cader de la pietra
in igual tratta,
sì come mostra esperïenza
e arte;
così mi parve da luce
rifratta
quivi dinanzi a me
esser percosso;
per che a fuggir la mia
vista fu ratta.
"Che è quel, dolce
padre, a che non posso
schermar lo viso tanto
che mi vaglia",
diss´ io, "e pare
inver´ noi esser mosso?".
"Non ti
maravigliar s´ancor t´abbaglia
la famiglia del
cielo", a me rispuose:
"messo è che viene
ad invitar ch´om saglia.
Tosto sarà ch´a veder
queste cose
non ti fia grave, ma
fieti diletto
quanto natura a sentir
ti dispuose".
Poi giunti fummo a l´angel
benedetto,
con lieta voce disse:
"Intrate quinci
ad un scaleo vie men
che li altri eretto".
Noi montavam, già
partiti di linci,
e `Beati
misericordes!´ fue
cantato retro, e
`Godi tu che vinci!´.
Lo mio maestro e io
soli amendue
suso andavamo; e io
pensai, andando,
prode acquistar ne le
parole sue;
e dirizza´mi a lui sì
dimandando:
"Che volse dir lo
spirto di Romagna,
e `divieto´ e
`consorte´ menzionando?".
Per ch´elli a me:
"Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però
non s´ammiri
se ne riprende perché
men si piagna.
Perché s´appuntano i
vostri disiri
dove per compagnia
parte si scema,
invidia move il mantaco
a´ sospiri.
Ma se l´amor de la
spera supprema
torcesse in suso il
disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto
quella tema;
ché, per quanti si dice
più lì `nostro´,
tanto possiede più di
ben ciascuno,
e più di caritate arde
in quel chiostro".
"Io son d´esser
contento più digiuno",
diss´ io, "che se
mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la
mente aduno.
Com´ esser puote ch´un
ben, distributo
in più posseditor,
faccia più ricchi
di sé che se da pochi è
posseduto?".
Ed elli a me: "Però
che tu rificchi
la mente pur a le cose
terrene,
di vera luce tenebre
dispicchi.
Quello infinito e
ineffabil bene
che là sù è, così corre
ad amore
com´ a lucido corpo
raggio vene.
Tanto si dà quanto
trova d´ardore;
sì che, quantunque
carità si stende,
cresce sovr´ essa l´etterno
valore.
E quanta gente più là sù
s´intende,
più v´è da bene amare,
e più vi s´ama,
e come specchio l´uno a
l´altro rende.
E se la mia ragion non
ti disfama,
vedrai Beatrice, ed
ella pienamente
ti torrà questa e
ciascun´ altra brama.
Procaccia pur che tosto
sieno spente,
come son già le due, le
cinque piaghe,
che si richiudon per
esser dolente".
Com´ io voleva dicer
`Tu m´appaghe´,
vidimi giunto in su l´altro
girone,
sì che tacer mi fer le
luci vaghe.
Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito
esser tratto,
e vedere in un tempio
più persone;
e una donna, in su l´entrar,
con atto
dolce di madre dicer:
"Figliuol mio,
perché hai tu così
verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo
padre e io
ti cercavamo". E
come qui si tacque,
ciò che pareva prima,
dispario.
Indi m´apparve un´altra
con quell´ acque
giù per le gote che ´l
dolor distilla
quando di gran dispetto
in altrui nacque,
e dir: "Se tu se´
sire de la villa
del cui nome ne´ dèi fu
tanta lite,
e onde ogne scïenza
disfavilla,
vendica te di quelle
braccia ardite
ch´abbracciar nostra
figlia, o Pisistràto".
E ´l segnor mi parea,
benigno e mite,
risponder lei con viso
temperato:
"Che farem noi a
chi mal ne disira,
se quei che ci ama è
per noi condannato?",
Poi vidi genti accese
in foco d´ira
con pietre un
giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur:
"Martira, martira!".
E lui vedea chinarsi,
per la morte
che l´aggravava già,
inver´ la terra,
ma de li occhi facea
sempre al ciel porte,
orando a l´alto Sire,
in tanta guerra,
che perdonasse a´ suoi
persecutori,
con quello aspetto che
pietà diserra.
Quando l´anima mia tornò
di fori
a le cose che son fuor
di lei vere,
io riconobbi i miei non
falsi errori.
Lo duca mio, che mi
potea vedere
far sì com´ om che dal
sonno si slega,
disse: "Che hai
che non ti puoi tenere,
ma se´ venuto più che
mezza lega
velando li occhi e con
le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o
sonno piega?".
"O dolce padre
mio, se tu m´ascolte,
io ti dirò", diss´
io, "ciò che m´apparve
quando le gambe mi
furon sì tolte".
Ed ei: "Se tu
avessi cento larve
sovra la faccia, non mi
sarian chiuse
le tue cogitazion,
quantunque parve.
Ciò che vedesti fu
perché non scuse
d´aprir lo core a l´acque
de la pace
che da l´etterno fonte
son diffuse.
Non dimandai "Che
hai?" per quel che face
chi guarda pur con l´occhio
che non vede,
quando disanimato il
corpo giace;
ma dimandai per darti
forza al piede:
così frugar conviensi i
pigri, lenti
ad usar lor vigilia
quando riede".
Noi andavam per lo
vespero, attenti
oltre quanto potean li
occhi allungarsi
contra i raggi serotini
e lucenti.
Ed ecco a poco a poco
un fummo farsi
verso di noi come la
notte oscuro;
né da quello era loco
da cansarsi.
Questo ne tolse li
occhi e l´aere puro.
Buio d´inferno e di
notte privata
d´ogne pianeto, sotto
pover cielo,
quant´ esser può di
nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì
grosso velo
come quel fummo ch´ivi
ci coperse,
né a sentir di così
aspro pelo,
che l´occhio stare
aperto non sofferse;
onde la scorta mia
saputa e fida
mi s´accostò e l´omero
m´offerse.
Sì come cieco va dietro
a sua guida
per non smarrirsi e per
non dar di cozzo
in cosa che ´l molesti,
o forse ancida,
m´andava io per l´aere
amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca
che diceva
pur: "Guarda che
da me tu non sia mozzo".
Io sentia voci, e
ciascuna pareva
pregar per pace e per
misericordia
l´Agnel di Dio che le
peccata leva.
Pur `Agnus
Dei´ eran le loro essordia;
una parola in tutte era
e un modo,
sì che parea tra esse
ogne concordia.
"Quei sono spirti,
maestro, ch´i´ odo?",
diss´ io. Ed elli a me:
"Tu vero apprendi,
e d´iracundia van
solvendo il nodo".
"Or tu chi se´ che
´l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come
se tue
partissi ancor lo tempo
per calendi?".
Così per una voce detto
fue;
onde ´l maestro mio
disse: "Rispondi,
e domanda se quinci si
va sùe".
E io: "O creatura
che ti mondi
per tornar bella a
colui che ti fece,
maraviglia udirai, se
mi secondi".
"Io ti seguiterò
quanto mi lece",
rispuose; "e se
veder fummo non lascia,
l´udir ci terrà giunti
in quella vece".
Allora incominciai:
"Con quella fascia
che la morte dissolve
men vo suso,
e venni qui per l´infernale
ambascia.
E se Dio m´ha in sua
grazia rinchiuso,
tanto che vuol ch´i´
veggia la sua corte
per modo tutto fuor del
moderno uso,
non mi celar chi fosti
anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s´i´
vo bene al varco;
e tue parole fier le
nostre scorte".
"Lombardo fui, e
fu´ chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel
valore amai
al quale ha or ciascun
disteso l´arco.
Per montar sù
dirittamente vai".
Così rispuose, e
soggiunse: "I´ ti prego
che per me prieghi quando
sù sarai".
E io a lui: "Per
fede mi ti lego
di far ciò che mi
chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s´io
non me ne spiego.
Prima era scempio, e
ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che
mi fa certo
qui, e altrove, quello
ov´ io l´accoppio.
Lo mondo è ben così
tutto diserto
d´ogne virtute, come tu
mi sone,
e di malizia gravido e
coverto;
ma priego che m´addite
la cagione,
sì ch´i´ la veggia e ch´i´
la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un
qua giù la pone".
Alto sospir, che duolo
strinse in "uhi!",
mise fuor prima; e poi
cominciò: "Frate,
lo mondo è cieco, e tu
vien ben da lui.
Voi che vivete ogne
cagion recate
pur suso al cielo, pur
come se tutto
movesse seco di
necessitate.
Se così fosse, in voi
fora distrutto
libero arbitrio, e non
fora giustizia
per ben letizia, e per
male aver lutto.
Lo cielo i vostri
movimenti inizia;
non dico tutti, ma,
posto ch´i´ ´l dica,
lume v´è dato a bene e
a malizia,
e libero voler; che, se
fatica
ne le prime battaglie
col ciel dura,
poi vince tutto, se ben
si notrica.
A maggior forza e a
miglior natura
liberi soggiacete; e
quella cria
la mente in voi, che ´l
ciel non ha in sua cura.
Però, se ´l mondo
presente disvia,
in voi è la cagione, in
voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera
spia.
Esce di mano a lui che
la vagheggia
prima che sia, a guisa
di fanciulla
che piangendo e ridendo
pargoleggia,
l´anima semplicetta che
sa nulla,
salvo che, mossa da
lieto fattore,
volontier torna a ciò
che la trastulla.
Di picciol bene in pria
sente sapore;
quivi s´inganna, e
dietro ad esso corre,
se guida o fren non
torce suo amore.
Onde convenne legge per
fren porre;
convenne rege aver, che
discernesse
de la vera cittade
almen la torre.
Le leggi son, ma chi
pon mano ad esse?
Nullo, però che ´l
pastor che procede,
rugumar può, ma non ha
l´unghie fesse;
per che la gente, che
sua guida vede
pur a quel ben fedire
ond´ ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più
oltre non chiede.
Ben puoi veder che la
mala condotta
è la cagion che ´l
mondo ha fatto reo,
e non natura che ´n voi
sia corrotta.
Soleva Roma, che ´l
buon mondo feo,
due soli aver, che l´una
e l´altra strada
facean vedere, e del
mondo e di Deo.
L´un l´altro ha spento;
ed è giunta la spada
col pasturale, e l´un
con l´altro insieme
per viva forza mal
convien che vada;
però che, giunti, l´un
l´altro non teme:
se non mi credi, pon
mente a la spiga,
ch´ogn´ erba si conosce
per lo seme.
In sul paese ch´Adice e
Po riga,
solea valore e cortesia
trovarsi,
prima che Federigo
avesse briga;
or può sicuramente indi
passarsi
per qualunque
lasciasse, per vergogna
di ragionar coi buoni o
d´appressarsi.
Ben v´èn tre vecchi
ancora in cui rampogna
l´antica età la nova, e
par lor tardo
che Dio a miglior vita
li ripogna:
Currado da Palazzo e ´l
buon Gherardo
e Guido da Castel, che
mei si noma,
francescamente, il
semplice Lombardo.
Dì oggimai che la
Chiesa di Roma,
per confondere in sé
due reggimenti,
cade nel fango, e sé
brutta e la soma".
"O Marco
mio", diss´ io, "bene argomenti;
e or discerno perché
dal retaggio
li figli di Levì furono
essenti.
Ma qual Gherardo è quel
che tu per saggio
di´ ch´è rimaso de la
gente spenta,
in rimprovèro del secol
selvaggio?".
"O tuo parlar m´inganna,
o el mi tenta",
rispuose a me; "ché,
parlandomi tosco,
par che del buon
Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io
nol conosco,
s´io nol togliessi da
sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più
non vegno vosco.
Vedi l´albor che per lo
fummo raia
già biancheggiare, e me
convien partirmi
(l´angelo è ivi) prima
ch´io li paia".
Così tornò, e più non
volle udirmi.
Ricorditi, lettor, se
mai ne l´alpe
ti colse nebbia per la
qual vedessi
non altrimenti che per
pelle talpe,
come, quando i vapori
umidi e spessi
a diradar cominciansi,
la spera
del sol debilemente
entra per essi;
e fia la tua imagine
leggera
in giugnere a veder com´
io rividi
lo sole in pria, che già
nel corcar era.
Sì, pareggiando i miei
co´ passi fidi
del mio maestro, usci´
fuor di tal nube
ai raggi morti già ne´
bassi lidi.
O imaginativa che ne
rube
talvolta sì di fuor, ch´om
non s´accorge
perché dintorno suonin
mille tube,
chi move te, se ´l
senso non ti porge?
Moveti lume che nel
ciel s´informa,
per sé o per voler che
giù lo scorge.
De l´empiezza di lei
che mutò forma
ne l´uccel ch´a cantar
più si diletta,
ne l´imagine mia
apparve l´orma;
e qui fu la mia mente sì
ristretta
dentro da sé, che di
fuor non venìa
cosa che fosse allor da
lei ricetta.
Poi piovve dentro a l´alta
fantasia
un crucifisso,
dispettoso e fero
ne la sua vista, e
cotal si moria;
intorno ad esso era il
grande Assüero,
Estèr sua sposa e ´l
giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far
così intero.
E come questa imagine
rompeo
sé per sé stessa, a
guisa d´una bulla
cui manca l´acqua sotto
qual si feo,
surse in mia visïone
una fanciulla
piangendo forte, e
dicea: "O regina,
perché per ira hai
voluto esser nulla?
Ancisa t´hai per non perder
Lavina;
or m´hai perduta! Io
son essa che lutto,
madre, a la tua pria ch´a
l´altrui ruina".
Come si frange il sonno
ove di butto
nova luce percuote il
viso chiuso,
che fratto guizza pria
che muoia tutto;
così l´imaginar mio
cadde giuso
tosto che lume il volto
mi percosse,
maggior assai che quel
ch´è in nostro uso.
I´ mi volgea per veder
ov´ io fosse,
quando una voce disse
"Qui si monta",
che da ogne altro
intento mi rimosse;
e fece la mia voglia
tanto pronta
di riguardar chi era
che parlava,
che mai non posa, se
non si raffronta.
Ma come al sol che
nostra vista grava
e per soverchio sua
figura vela,
così la mia virtù quivi
mancava.
"Questo è divino
spirito, che ne la
via da ir sù ne drizza
sanza prego,
e col suo lume sé
medesmo cela.
Sì fa con noi, come l´uom
si fa sego;
ché quale aspetta prego
e l´uopo vede,
malignamente già si
mette al nego.
Or accordiamo a tanto
invito il piede;
procacciam di salir
pria che s´abbui,
ché poi non si poria,
se ´l dì non riede".
Così disse il mio duca,
e io con lui
volgemmo i nostri passi
ad una scala;
e tosto ch´io al primo
grado fui,
senti´mi presso quasi
un muover d´ala
e ventarmi nel viso e
dir: `Beati
pacifici, che son sanz´
ira mala!´.
Già eran sovra noi
tanto levati
li ultimi raggi che la
notte segue,
che le stelle apparivan
da più lati.
`O virtù mia,
perché sì ti dilegue?´,
fra me stesso dicea, ché
mi sentiva
la possa de le gambe
posta in triegue.
Noi eravam dove più non
saliva
la scala sù, ed eravamo
affissi,
pur come nave ch´a la
piaggia arriva.
E io attesi un poco, s´io
udissi
alcuna cosa nel novo
girone;
poi mi volsi al maestro
mio, e dissi:
"Dolce mio padre,
dì, quale offensione
si purga qui nel giro
dove semo?
Se i piè si stanno, non
stea tuo sermone".
Ed elli a me: "L´amor
del bene, scemo
del suo dover, quiritta
si ristora;
qui si ribatte il mal
tardato remo.
Ma perché più aperto
intendi ancora,
volgi la mente a me, e
prenderai
alcun buon frutto di
nostra dimora".
"Né creator né
creatura mai",
cominciò el,
"figliuol, fu sanza amore,
o naturale o d´animo; e
tu ´l sai.
Lo naturale è sempre
sanza errore,
ma l´altro puote errar
per malo obietto
o per troppo o per poco
di vigore.
Mentre ch´elli è nel primo
ben diretto,
e ne´ secondi sé stesso
misura,
esser non può cagion di
mal diletto;
ma quando al mal si
torce, o con più cura
o con men che non dee
corre nel bene,
contra ´l fattore
adovra sua fattura.
Quinci comprender puoi
ch´esser convene
amor sementa in voi d´ogne
virtute
e d´ogne operazion che
merta pene.
Or, perché mai non può
da la salute
amor del suo subietto
volger viso,
da l´odio proprio son
le cose tute;
e perché intender non
si può diviso,
e per sé stante, alcuno
esser dal primo,
da quello odiare ogne
effetto è deciso.
Resta, se dividendo
bene stimo,
che ´l mal che s´ama è
del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi
in vostro limo.
è chi, per esser suo
vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol
per questo brama
ch´el sia di sua
grandezza in basso messo;
è chi podere, grazia,
onore e fama
teme di perder perch´
altri sormonti,
onde s´attrista sì che ´l
contrario ama;
ed è chi per ingiuria
par ch´aonti,
sì che si fa de la
vendetta ghiotto,
e tal convien che ´l
male altrui impronti.
Questo triforme amor
qua giù di sotto
si piange: or vo´ che
tu de l´altro intende,
che corre al ben con
ordine corrotto.
Ciascun confusamente un
bene apprende
nel qual si queti l´animo,
e disira;
per che di giugner lui
ciascun contende.
Se lento amore a lui
veder vi tira
o a lui acquistar,
questa cornice,
dopo giusto penter, ve
ne martira.
Altro ben è che non fa
l´uom felice;
non è felicità, non è
la buona
essenza, d´ogne ben
frutto e radice.
L´amor ch´ad esso
troppo s´abbandona,
di sovr´ a noi si
piange per tre cerchi;
ma come tripartito si
ragiona,
tacciolo, acciò che tu
per te ne cerchi".
Posto avea fine al suo
ragionamento
l´alto dottore, e
attento guardava
ne la mia vista s´io
parea contento;
e io, cui nova sete
ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro
dicea: `Forse
lo troppo dimandar ch´io
fo li grava´.
Ma quel padre verace,
che s´accorse
del timido voler che
non s´apriva,
parlando, di parlare
ardir mi porse.
Ond´ io: "Maestro,
il mio veder s´avviva
sì nel tuo lume, ch´io
discerno chiaro
quanto la tua ragion
parta o descriva.
Però ti prego, dolce
padre caro,
che mi dimostri amore,
a cui reduci
ogne buono operare e ´l
suo contraro".
"Drizza", disse,
"ver´ me l´agute luci
de lo ´ntelletto, e
fieti manifesto
l´error de´ ciechi che
si fanno duci.
L´animo, ch´è creato ad
amar presto,
ad ogne cosa è mobile
che piace,
tosto che dal piacere
in atto è desto.
Vostra apprensiva da
esser verace
tragge intenzione, e
dentro a voi la spiega,
sì che l´animo ad essa
volger face;
e se, rivolto, inver´
di lei si piega,
quel piegare è amor,
quell´ è natura
che per piacer di novo
in voi si lega.
Poi, come ´l foco
movesi in altura
per la sua forma ch´è
nata a salire
là dove più in sua
matera dura,
così l´animo preso
entra in disire,
ch´è moto spiritale, e
mai non posa
fin che la cosa amata
il fa gioire.
Or ti puote apparer
quant´ è nascosa
la veritate a la gente
ch´avvera
ciascun amore in sé
laudabil cosa;
però che forse appar la
sua matera
sempre esser buona, ma
non ciascun segno
è buono, ancor che
buona sia la cera".
"Le tue parole e ´l
mio seguace ingegno",
rispuos´ io lui,
"m´hanno amor discoverto,
ma ciò m´ha fatto di
dubbiar più pregno;
ché, s´amore è di fuori
a noi offerto
e l´anima non va con
altro piede,
se dritta o torta va,
non è suo merto".
Ed elli a me:
"Quanto ragion qui vede,
dir ti poss´ io; da
indi in là t´aspetta
pur a Beatrice, ch´è
opra di fede.
Ogne forma sustanzïal,
che setta
è da matera ed è con
lei unita,
specifica vertute ha in
sé colletta,
la qual sanza operar
non è sentita,
né si dimostra mai che
per effetto,
come per verdi fronde
in pianta vita.
Però, là onde vegna lo ´ntelletto
de le prime notizie,
omo non sape,
e de´ primi appetibili
l´affetto,
che sono in voi sì come
studio in ape
di far lo mele; e
questa prima voglia
merto di lode o di
biasmo non cape.
Or perché a questa ogn´
altra si raccoglia,
innata v´è la virtù che
consiglia,
e de l´assenso de´
tener la soglia.
Quest´ è ´l principio là
onde si piglia
ragion di meritare in
voi, secondo
che buoni e rei amori
accoglie e viglia.
Color che ragionando
andaro al fondo,
s´accorser d´esta
innata libertate;
però moralità lasciaro
al mondo.
Onde, poniam che di
necessitate
surga ogne amor che
dentro a voi s´accende,
di ritenerlo è in voi
la podestate.
La nobile virtù
Beatrice intende
per lo libero arbitrio,
e però guarda
che l´abbi a mente, s´a
parlar ten prende".
La luna, quasi a mezza
notte tarda,
facea le stelle a noi
parer più rade,
fatta com´ un secchion
che tuttor arda;
e correa contro ´l ciel
per quelle strade
che ´l sole infiamma
allor che quel da Roma
tra ´ Sardi e ´ Corsi
il vede quando cade.
E quell´ ombra gentil
per cui si noma
Pietola più che villa
mantoana,
del mio carcar diposta
avea la soma;
per ch´io, che la
ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni
avea ricolta,
stava com´ om che
sonnolento vana.
Ma questa sonnolenza mi
fu tolta
subitamente da gente
che dopo
le nostre spalle a noi
era già volta.
E quale Ismeno già vide
e Asopo
lungo di sè di notte
furia e calca,
pur che i Teban di
Bacco avesser uopo,
cotal per quel giron
suo passo falca,
per quel ch´io vidi di
color, venendo,
cui buon volere e
giusto amor cavalca.
Tosto fur sovr´ a noi,
perché correndo
si movea tutta quella
turba magna;
e due dinanzi gridavan
piangendo:
"Maria corse con
fretta a la montagna;
e Cesare, per soggiogare
Ilerda,
punse Marsilia e poi
corse in Ispagna".
"Ratto, ratto, che
´l tempo non si perda
per poco amor",
gridavan li altri appresso,
"che studio di ben
far grazia rinverda".
"O gente in cui
fervore aguto adesso
ricompie forse
negligenza e indugio
da voi per tepidezza in
ben far messo,
questi che vive, e
certo i´ non vi bugio,
vuole andar sù, pur che
´l sol ne riluca;
però ne dite ond´ è
presso il pertugio".
Parole furon queste del
mio duca;
e un di quelli spirti
disse: "Vieni
di retro a noi, e
troverai la buca.
Noi siam di voglia a
muoverci sì pieni,
che restar non potem;
però perdona,
se villania nostra
giustizia tieni.
Io fui abate in San
Zeno a Verona
sotto lo ´mperio del
buon Barbarossa,
di cui dolente ancor
Milan ragiona.
E tale ha già l´un piè
dentro la fossa,
che tosto piangerà quel
monastero,
e tristo fia d´avere
avuta possa;
perché suo figlio, mal
del corpo intero,
e de la mente peggio, e
che mal nacque,
ha posto in loco di suo
pastor vero".
Io non so se più disse
o s´ei si tacque,
tant´ era già di là da
noi trascorso;
ma questo intesi, e
ritener mi piacque.
E quei che m´era ad
ogne uopo soccorso
disse: "Volgiti
qua: vedine due
venir dando a l´accidïa
di morso".
Di retro a tutti
dicean: "Prima fue
morta la gente a cui il
mar s´aperse,
che vedesse Iordan le
rede sue.
E quella che l´affanno
non sofferse
fino a la fine col
figlio d´Anchise,
sé stessa a vita sanza
gloria offerse".
Poi quando fuor da noi
tanto divise
quell´ ombre, che veder
più non potiersi,
novo pensiero dentro a
me si mise,
del qual più altri
nacquero e diversi;
e tanto d´uno in altro
vaneggiai,
che li occhi per
vaghezza ricopersi,
e ´l pensamento in
sogno trasmutai.
Ne l´ora che non può ´l
calor dïurno
intepidar più ´l freddo
de la luna,
vinto da terra, e talor
da Saturno
’quando i geomanti lor
Maggior Fortuna
veggiono in orïente,
innanzi a l´alba,
surger per via che poco
le sta bruna’,
mi venne in sogno una
femmina balba,
ne li occhi guercia, e
sovra i piè distorta,
con le man monche, e di
colore scialba.
Io la mirava; e come ´l
sol conforta
le fredde membra che la
notte aggrava,
così lo sguardo mio le
facea scorta
la lingua, e poscia
tutta la drizzava
in poco d´ora, e lo
smarrito volto,
com´ amor vuol, così le
colorava.
Poi ch´ell´ avea ´l
parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì,
che con pena
da lei avrei mio
intento rivolto.
"Io son",
cantava, "io son dolce serena,
che ´ marinari in mezzo
mar dismago;
tanto son di piacere a
sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo
cammin vago
al canto mio; e qual
meco s´ausa,
rado sen parte; sì
tutto l´appago!".
Ancor non era sua bocca
richiusa,
quand´ una donna
apparve santa e presta
lunghesso me per far
colei confusa.
"O Virgilio,
Virgilio, chi è questa?",
fieramente dicea; ed el
venìa
con li occhi fitti pur
in quella onesta.
L´altra prendea, e
dinanzi l´apria
fendendo i drappi, e
mostravami ´l ventre;
quel mi svegliò col
puzzo che n´uscia.
Io mossi li occhi, e ´l
buon maestro: "Almen tre
voci t´ho messe!",
dicea, "Surgi e vieni;
troviam l´aperta per la
qual tu entre".
Sù mi levai, e tutti
eran già pieni
de l´alto dì i giron
del sacro monte,
e andavam col sol novo
a le reni.
Seguendo lui, portava
la mia fronte
come colui che l´ha di
pensier carca,
che fa di sé un mezzo
arco di ponte;
quand´ io udi´
"Venite; qui si varca"
parlare in modo soave e
benigno,
qual non si sente in
questa mortal marca.
Con l´ali aperte, che
parean di cigno,
volseci in sù colui che
sì parlonne
tra due pareti del duro
macigno.
Mosse le penne poi e
ventilonne,
`Qui lugent´
affermando esser beati,
ch´avran di consolar l´anime
donne.
"Che hai che pur
inver´ la terra guati?",
la guida mia incominciò
a dirmi,
poco amendue da l´angel
sormontati.
E io: "Con tanta
sospeccion fa irmi
novella visïon ch´a sé
mi piega,
sì ch´io non posso dal
pensar partirmi".
"Vedesti",
disse, "quell´antica strega
che sola sovr´ a noi
omai si piagne;
vedesti come l´uom da
lei si slega.
Bastiti, e batti a
terra le calcagne;
li occhi rivolgi al
logoro che gira
lo rege etterno con le
rote magne".
Quale ´l falcon, che
prima a´ pié si mira,
indi si volge al grido
e si protende
per lo disio del pasto
che là il tira,
tal mi fec´ io; e tal,
quanto si fende
la roccia per dar via a
chi va suso,
n´andai infin dove ´l
cerchiar si prende.
Com´ io nel quinto giro
fui dischiuso,
vidi gente per esso che
piangea,
giacendo a terra tutta
volta in giuso.
`Adhaesit
pavimento anima mea´
sentia dir lor con sì
alti sospiri,
che la parola a pena s´intendea.
"O eletti di Dio,
li cui soffriri
e giustizia e speranza
fa men duri,
drizzate noi verso li
alti saliri".
"Se voi venite dal
giacer sicuri,
e volete trovar la via
più tosto,
le vostre destre sien
sempre di fori".
Così pregò ´l poeta, e
sì risposto
poco dinanzi a noi ne
fu; per ch´io
nel parlare avvisai l´altro
nascosto,
e volsi li occhi a li
occhi al segnor mio:
ond´ elli m´assentì con
lieto cenno
ciò che chiedea la
vista del disio.
Poi ch´io potei di me
fare a mio senno,
trassimi sovra quella
creatura
le cui parole pria
notar mi fenno,
dicendo: "Spirto
in cui pianger matura
quel sanza ´l quale a
Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me
tua maggior cura.
Chi fosti e perché vòlti
avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo´
ch´io t´impetri
cosa di là ond´ io
vivendo mossi".
Ed elli a me:
"Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé,
saprai; ma prima
scias quod ego fui
successor Petri.
Intra Sïestri e
Chiaveri s´adima
una fiumana bella, e
del suo nome
lo titol del mio sangue
fa sua cima.
Un mese e poco più
prova´ io come
pesa il gran manto a
chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte
l´altre some.
La mia conversïone, omè!,
fu tarda;
ma, come fatto fui
roman pastore,
così scopersi la vita
bugiarda.
Vidi che lì non s´acquetava
il core,
né più salir potiesi in
quella vita;
per che di questa in me
s´accese amore.
Fino a quel punto
misera e partita
da Dio anima fui, del
tutto avara;
or, come vedi, qui ne
son punita.
Quel ch´avarizia fa,
qui si dichiara
in purgazion de l´anime
converse;
e nulla pena il monte
ha più amara.
Sì come l´occhio nostro
non s´aderse
in alto, fisso a le
cose terrene,
così giustizia qui a
terra il merse.
Come avarizia spense a
ciascun bene
lo nostro amore, onde
operar perdési,
così giustizia qui
stretti ne tene,
ne´ piedi e ne le man
legati e presi;
e quanto fia piacer del
giusto Sire,
tanto staremo immobili
e distesi".
Io m´era inginocchiato
e volea dire;
ma com´ io cominciai ed
el s´accorse,
solo ascoltando, del
mio reverire,
"Qual
cagion", disse, "in giù così ti torse?".
E io a lui: "Per
vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi
rimorse".
"Drizza le gambe,
lèvati sù, frate!",
rispuose; "non
errar: conservo sono
teco e con li altri ad
una podestate.
Se mai quel santo
evangelico suono
che dice
`Neque nubent´ intendesti,
ben puoi veder perch´
io così ragiono.
Vattene omai: non vo´
che più t´arresti;
ché la tua stanza mio
pianger disagia,
col qual maturo ciò che
tu dicesti.
Nepote ho io di là c´ha
nome Alagia,
buona da sé, pur che la
nostra casa
non faccia lei per
essempro malvagia;
e questa sola di là m´è
rimasa".
Contra miglior voler
voler mal pugna;
onde contra ´l piacer
mio, per piacerli,
trassi de l´acqua non
sazia la spugna.
Mossimi; e ´l duca mio
si mosse per li
luoghi spediti pur
lungo la roccia,
come si va per muro
stretto a´ merli;
ché la gente che fonde
a goccia a goccia
per li occhi il mal che
tutto ´l mondo occupa,
da l´altra parte in
fuor troppo s´approccia.
Maladetta sie tu,
antica lupa,
che più che tutte l´altre
bestie hai preda
per la tua fame sanza
fine cupa!
O ciel, nel cui girar
par che si creda
le condizion di qua giù
trasmutarsi,
quando verrà per cui
questa disceda?
Noi andavam con passi
lenti e scarsi,
e io attento a l´ombre,
ch´i´ sentia
pietosamente piangere e
lagnarsi;
e per ventura udi´
"Dolce Maria!"
dinanzi a noi chiamar
così nel pianto
come fa donna che in
parturir sia;
e seguitar:
"Povera fosti tanto,
quanto veder si può per
quello ospizio
dove sponesti il tuo
portato santo".
Seguentemente intesi:
"O buon Fabrizio,
con povertà volesti
anzi virtute
che gran ricchezza
posseder con vizio".
Queste parole m´eran sì
piaciute,
ch´io mi trassi oltre
per aver contezza
di quello spirto onde
parean venute.
Esso parlava ancor de
la larghezza
che fece Niccolò a le
pulcelle,
per condurre ad onor
lor giovinezza.
"O anima che tanto
ben favelle,
dimmi chi fosti",
dissi, "e perché sola
tu queste degne lode
rinovelle.
Non fia sanza mercé la
tua parola,
s´io ritorno a compiér
lo cammin corto
di quella vita ch´al
termine vola".
Ed elli: "Io ti
dirò, non per conforto
ch´io attenda di là, ma
perché tanta
grazia in te luce prima
che sie morto.
Io fui radice de la
mala pianta
che la terra cristiana
tutta aduggia,
sì che buon frutto rado
se ne schianta.
Ma se Doagio, Lilla,
Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne
saria vendetta;
e io la cheggio a lui
che tutto giuggia.
Chiamato fui di là Ugo
Ciappetta;
di me son nati i
Filippi e i Luigi
per cui novellamente è
Francia retta.
Figliuol fu´ io d´un
beccaio di Parigi:
quando li regi antichi
venner meno
tutti, fuor ch´un
renduto in panni bigi,
trova´mi stretto ne le
mani il freno
del governo del regno,
e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì
d´amici pieno,
ch´a la corona vedova
promossa
la testa di mio figlio
fu, dal quale
cominciar di costor le
sacrate ossa.
Mentre che la gran dota
provenzale
al sangue mio non tolse
la vergogna,
poco valea, ma pur non
facea male.
Lì cominciò con forza e
con menzogna
la sua rapina; e
poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese
e Guascogna.
Carlo venne in Italia
e, per ammenda,
vittima fé di
Curradino; e poi
ripinse al ciel
Tommaso, per ammenda.
Tempo vegg´ io, non
molto dopo ancoi,
che tragge un altro
Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio
e sé e ´ suoi.
Sanz´ arme n´esce e
solo con la lancia
con la qual giostrò
Giuda, e quella ponta
sì, ch´a Fiorenza fa
scoppiar la pancia.
Quindi non terra, ma
peccato e onta
guadagnerà, per sé
tanto più grave,
quanto più lieve simil
danno conta.
L´altro, che già uscì
preso di nave,
veggio vender sua
figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de
l´altre schiave.
O avarizia, che puoi tu
più farne,
poscia c´ha´ il mio
sangue a te sì tratto,
che non si cura de la
propria carne?
Perché men paia il mal
futuro e ´l fatto,
veggio in Alagna intrar
lo fiordaliso,
e nel vicario suo
Cristo esser catto.
Veggiolo un´altra volta
esser deriso;
veggio rinovellar l´aceto
e ´l fiele,
e tra vivi ladroni esser
anciso.
Veggio il novo Pilato sì
crudele,
che ciò nol sazia, ma
sanza decreto
portar nel Tempio le
cupide vele.
O Segnor mio, quando
sarò io lieto
a veder la vendetta
che, nascosa,
fa dolce l´ira tua nel
tuo secreto?
Ciò ch´io dicea di
quell´ unica sposa
de lo Spirito Santo e
che ti fece
verso me volger per
alcuna chiosa,
tanto è risposto a
tutte nostre prece
quanto ´l dì dura; ma
com´ el s´annotta,
contrario suon prendemo
in quella vece.
Noi repetiam Pigmalïon
allotta,
cui traditore e ladro e
paricida
fece la voglia sua de l´oro
ghiotta;
e la miseria de l´avaro
Mida,
che seguì a la sua
dimanda gorda,
per la qual sempre
convien che si rida.
Del folle Acàn ciascun
poi si ricorda,
come furò le spoglie, sì
che l´ira
di Iosüè qui par ch´ancor
lo morda.
Indi accusiam col
marito Saffira;
lodiam i calci ch´ebbe
Elïodoro;
e in infamia tutto ´l
monte gira
Polinestòr ch´ancise
Polidoro;
ultimamente ci si
grida: "Crasso,
dilci, che ´l sai: di
che sapore è l´oro?".
Talor parla l´uno alto
e l´altro basso,
secondo l´affezion ch´ad
ir ci sprona
ora a maggiore e ora a
minor passo:
però al ben che ´l dì
ci si ragiona,
dianzi non era io sol;
ma qui da presso
non alzava la voce
altra persona".
Noi eravam partiti già
da esso,
e brigavam di
soverchiar la strada
tanto quanto al poder n´era
permesso,
quand´ io senti´, come
cosa che cada,
tremar lo monte; onde
mi prese un gelo
qual prender suol colui
ch´a morte vada.
Certo non si scoteo sì
forte Delo,
pria che Latona in lei
facesse ´l nido
a parturir li due occhi
del cielo.
Poi cominciò da tutte
parti un grido
tal, che ´l maestro
inverso me si feo,
dicendo: "Non
dubbiar, mentr´ io ti guido".
`Glorïa in
excelsis´ tutti `Deo´
dicean, per quel ch´io
da´ vicin compresi,
onde intender lo grido
si poteo.
No´ istavamo immobili e
sospesi
come i pastor che prima
udir quel canto,
fin che ´l tremar cessò
ed el compiési.
Poi ripigliammo nostro
cammin santo,
guardando l´ombre che
giacean per terra,
tornate già in su l´usato
pianto.
Nulla ignoranza mai con
tanta guerra
mi fé desideroso di
sapere,
se la memoria mia in ciò
non erra,
quanta pareami allor,
pensando, avere;
né per la fretta
dimandare er´ oso,
né per me lì potea cosa
vedere:
così m´andava timido e
pensoso.
La sete natural che mai
non sazia
se non con l´acqua onde
la femminetta
samaritana domandò la
grazia,
mi travagliava, e
pungeami la fretta
per la ´mpacciata via
dietro al mio duca,
e condoleami a la
giusta vendetta.
Ed ecco, sì come ne
scrive Luca
che Cristo apparve a´
due ch´erano in via,
già surto fuor de la
sepulcral buca,
ci apparve un´ombra, e
dietro a noi venìa,
dal piè guardando la
turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì
parlò pria,
dicendo: "O frati
miei, Dio vi dea pace".
Noi ci volgemmo sùbiti,
e Virgilio
rendéli ´l cenno ch´a
ciò si conface.
Poi cominciò: "Nel
beato concilio
ti ponga in pace la
verace corte
che me rilega ne l´etterno
essilio".
"Come!", diss´
elli, e parte andavam forte:
"se voi siete
ombre che Dio sù non degni,
chi v´ha per la sua
scala tanto scorte?".
E ´l dottor mio:
"Se tu riguardi a´ segni
che questi porta e che
l´angel profila,
ben vedrai che coi buon
convien ch´e´ regni.
Ma perché lei che dì e
notte fila
non li avea tratta
ancora la conocchia
che Cloto impone a
ciascuno e compila,
l´anima sua, ch´è tua e
mia serocchia,
venendo sù, non potea
venir sola,
però ch´al nostro modo
non adocchia.
Ond´ io fui tratto fuor
de l´ampia gola
d´inferno per
mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto ´l potrà
menar mia scola.
Ma dimmi, se tu sai,
perché tai crolli
diè dianzi ´l monte, e
perché tutto ad una
parve gridare infino a´
suoi piè molli".
Sì mi diè, dimandando,
per la cruna
del mio disio, che pur
con la speranza
si fece la mia sete men
digiuna.
Quei cominciò:
"Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che
sia fuor d´usanza.
Libero è qui da ogne
alterazione:
di quel che ´l ciel da
sé in sé riceve
esser ci puote, e non d´altro,
cagione.
Per che non pioggia,
non grando, non neve,
non rugiada, non brina
più sù cade
che la scaletta di tre
gradi breve;
nuvole spesse non paion
né rade,
né coruscar, né figlia
di Taumante,
che di là cangia
sovente contrade;
secco vapor non surge
più avante
ch´al sommo d´i tre
gradi ch´io parlai,
dov´ ha ´l vicario di
Pietro le piante.
Trema forse più giù
poco o assai;
ma per vento che ´n
terra si nasconda,
non so come, qua sù non
tremò mai.
Tremaci quando alcuna
anima monda
sentesi, sì che surga o
che si mova
per salir sù; e tal
grido seconda.
De la mondizia sol
voler fa prova,
che, tutto libero a
mutar convento,
l´alma sorprende, e di
voler le giova.
Prima vuol ben, ma non
lascia il talento
che divina giustizia,
contra voglia,
come fu al peccar, pone
al tormento.
E io, che son giaciuto
a questa doglia
cinquecent´ anni e più,
pur mo sentii
libera volontà di
miglior soglia:
però sentisti il
tremoto e li pii
spiriti per lo monte
render lode
a quel Segnor, che
tosto sù li ´nvii".
Così ne disse; e però
ch´el si gode
tanto del ber quant´ è
grande la sete,
non saprei dir quant´
el mi fece prode.
E ´l savio duca:
"Omai veggio la rete
che qui vi ´mpiglia e
come si scalappia,
perché ci trema e di
che congaudete.
Ora chi fosti,
piacciati ch´io sappia,
e perché tanti secoli
giaciuto
qui se´, ne le parole
tue mi cappia".
"Nel tempo che ´l
buon Tito, con l´aiuto
del sommo rege, vendicò
le fóra
ond´ uscì ´l sangue per
Giuda venduto,
col nome che più dura e
più onora
era io di là",
rispuose quello spirto,
"famoso assai, ma
non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio
vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi
trasse Roma,
dove mertai le tempie
ornar di mirto.
Stazio la gente ancor
di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi
del grande Achille;
ma caddi in via con la
seconda soma.
Al mio ardor fuor seme
le faville,
che mi scaldar, de la
divina fiamma
onde sono allumati più
di mille;
de l´Eneïda dico, la
qual mamma
fummi, e fummi nutrice,
poetando:
sanz´ essa non fermai
peso di dramma.
E per esser vivuto di là
quando
visse Virgilio,
assentirei un sole
più che non deggio al
mio uscir di bando".
Volser Virgilio a me
queste parole
con viso che, tacendo,
disse `Taci´;
ma non può tutto la
virtù che vuole;
ché riso e pianto son
tanto seguaci
a la passion di che
ciascun si spicca,
che men seguon voler ne´
più veraci.
Io pur sorrisi come l´uom
ch´ammicca;
per che l´ombra si
tacque, e riguardommi
ne li occhi ove ´l
sembiante più si ficca;
e "Se tanto labore
in bene assommi",
disse, "perché la
tua faccia testeso
un lampeggiar di riso
dimostrommi?".
Or son io d´una parte e
d´altra preso:
l´una mi fa tacer, l´altra
scongiura
ch´io dica; ond´ io
sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e
"Non aver paura",
mi dice, "di
parlar; ma parla e digli
quel ch´e´ dimanda con
cotanta cura".
Ond´ io: "Forse
che tu ti maravigli,
antico spirto, del
rider ch´io fei;
ma più d´ammirazion vo´
che ti pigli.
Questi che guida in
alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal
qual tu togliesti
forte a cantar de li
uomini e d´i dèi.
Se cagion altra al mio
rider credesti,
lasciala per non vera,
ed esser credi
quelle parole che di
lui dicesti".
Già s´inchinava ad
abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li
disse: "Frate,
non far, ché tu se´
ombra e ombra vedi".
Ed ei surgendo:
"Or puoi la quantitate
comprender de l´amor ch´a
te mi scalda,
quand´ io dismento
nostra vanitate,
trattando l´ombre come
cosa salda".
Già era l´angel dietro
a noi rimaso,
l´angel che n´avea vòlti
al sesto giro,
avendomi dal viso un
colpo raso;
e quei c´hanno a
giustizia lor disiro
detto n´avea beati, e
le sue voci
con `sitiunt´,
sanz´ altro, ciò forniro.
E io più lieve che per
l´altre foci
m´andava, sì che sanz´
alcun labore
seguiva in sù li
spiriti veloci;
quando Virgilio
incominciò: "Amore,
acceso di virtù, sempre
altro accese,
pur che la fiamma sua
paresse fore;
onde da l´ora che tra
noi discese
nel limbo de lo ´nferno
Giovenale,
che la tua affezion mi
fé palese,
mia benvoglienza
inverso te fu quale
più strinse mai di non
vista persona,
sì ch´or mi parran
corte queste scale.
Ma dimmi, e come amico
mi perdona
se troppa sicurtà m´allarga
il freno,
e come amico omai meco
ragiona:
come poté trovar dentro
al tuo seno
loco avarizia, tra
cotanto senno
di quanto per tua cura
fosti pieno?".
Queste parole Stazio
mover fenno
un poco a riso pria; poscia
rispuose:
"Ogne tuo dir d´amor
m´è caro cenno.
Veramente più volte
appaion cose
che danno a dubitar
falsa matera
per le vere ragion che
son nascose.
La tua dimanda tuo
creder m´avvera
esser ch´i´ fossi avaro
in l´altra vita,
forse per quella
cerchia dov´ io era.
Or sappi ch´avarizia fu
partita
troppo da me, e questa
dismisura
migliaia di lunari
hanno punita.
E se non fosse ch´io
drizzai mia cura,
quand´ io intesi là
dove tu chiame,
crucciato quasi a l´umana
natura:
`Per che non
reggi tu, o sacra fame
de l´oro, l´appetito de´
mortali?´,
voltando sentirei le
giostre grame.
Allor m´accorsi che
troppo aprir l´ali
potean le mani a
spendere, e pente´mi
così di quel come de li
altri mali.
Quanti risurgeran coi
crini scemi
per ignoranza, che di
questa pecca
toglie ´l penter
vivendo e ne li stremi!
E sappie che la colpa
che rimbecca
per dritta opposizione
alcun peccato,
con esso insieme qui
suo verde secca;
però, s´io son tra
quella gente stato
che piange l´avarizia,
per purgarmi,
per lo contrario suo m´è
incontrato".
"Or quando tu
cantasti le crude armi
de la doppia trestizia
di Giocasta",
disse ´l cantor de´
buccolici carmi,
"per quello che Clïò
teco lì tasta,
non par che ti facesse
ancor fedele
la fede, sanza qual ben
far non basta.
Se così è, qual sole o
quai candele
ti stenebraron sì, che
tu drizzasti
poscia di retro al
pescator le vele?".
Ed elli a lui: "Tu
prima m´invïasti
verso Parnaso a ber ne
le sue grotte,
e prima appresso Dio m´alluminasti.
Facesti come quei che
va di notte,
che porta il lume
dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le
persone dotte,
quando dicesti:
`Secol si rinova;
torna giustizia e primo
tempo umano,
e progenïe scende da
ciel nova´.
Per te poeta fui, per
te cristiano:
ma perché veggi mei ciò
ch´io disegno,
a colorare stenderò la
mano.
Già era ´l mondo tutto
quanto pregno
de la vera credenza,
seminata
per li messaggi de l´etterno
regno;
e la parola tua sopra
toccata
si consonava a´ nuovi
predicanti;
ond´ io a visitarli
presi usata.
Vennermi poi parendo
tanto santi,
che, quando Domizian li
perseguette,
sanza mio lagrimar non
fur lor pianti;
e mentre che di là per
me si stette,
io li sovvenni, e i lor
dritti costumi
fer dispregiare a me
tutte altre sette.
E pria ch´io conducessi
i Greci a´ fiumi
di Tebe poetando, ebb´
io battesmo;
ma per paura chiuso
cristian fu´mi,
lungamente mostrando
paganesmo;
e questa tepidezza il
quarto cerchio
cerchiar mi fé più che ´l
quarto centesmo.
Tu dunque, che levato
hai il coperchio
che m´ascondeva quanto
bene io dico,
mentre che del salire
avem soverchio,
dimmi dov´ è Terrenzio
nostro antico,
Cecilio e Plauto e
Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, e
in qual vico".
"Costoro e Persio
e io e altri assai",
rispuose il duca mio,
"siam con quel Greco
che le Muse lattar più
ch´altri mai,
nel primo cinghio del
carcere cieco;
spesse fïate ragioniam
del monte
che sempre ha le
nutrice nostre seco.
Euripide v´è nosco e
Antifonte,
Simonide, Agatone e
altri piùe
Greci che già di lauro
ornar la fronte.
Quivi si veggion de le
genti tue
Antigone, Deïfile e
Argia,
e Ismene sì trista come
fue.
Védeisi quella che
mostrò Langia;
èvvi la figlia di
Tiresia, e Teti,
e con le suore sue Deïdamia".
Tacevansi ambedue già
li poeti,
di novo attenti a
riguardar dintorno,
liberi da saliri e da
pareti;
e già le quattro
ancelle eran del giorno
rimase a dietro, e la
quinta era al temo,
drizzando pur in sù l´ardente
corno,
quando il mio duca:
"Io credo ch´a lo stremo
le destre spalle volger
ne convegna,
girando il monte come
far solemo".
Così l´usanza fu lì
nostra insegna,
e prendemmo la via con
men sospetto
per l´assentir di quell´
anima degna.
Elli givan dinanzi, e
io soletto
di retro, e ascoltava i
lor sermoni,
ch´a poetar mi davano
intelletto.
Ma tosto ruppe le dolci
ragioni
un alber che trovammo
in mezza strada,
con pomi a odorar soavi
e buoni;
e come abete in alto si
digrada
di ramo in ramo, così
quello in giuso,
cred´ io, perché
persona sù non vada.
Dal lato onde ´l cammin
nostro era chiuso,
cadea de l´alta roccia
un liquor chiaro
e si spandeva per le
foglie suso.
Li due poeti a l´alber
s´appressaro;
e una voce per entro le
fronde
gridò: "Di questo
cibo avrete caro".
Poi disse: "Più
pensava Maria onde
fosser le nozze
orrevoli e intere,
ch´a la sua bocca, ch´or
per voi risponde.
E le Romane antiche,
per lor bere,
contente furon d´acqua;
e Danïello
dispregiò cibo e
acquistò savere.
Lo secol primo, quant´
oro fu bello,
fé savorose con fame le
ghiande,
e nettare con sete ogne
ruscello.
Mele e locuste furon le
vivande
che nodriro il Batista
nel diserto;
per ch´elli è glorïoso
e tanto grande
quanto per lo Vangelio
v´è aperto".
Mentre che li occhi per
la fronda verde
ficcava ïo sì come far
suole
chi dietro a li
uccellin sua vita perde,
lo più che padre mi
dicea: "Figliuole,
vienne oramai, ché ´l
tempo che n´è imposto
più utilmente compartir
si vuole".
Io volsi ´l viso, e ´l
passo non men tosto,
appresso i savi, che
parlavan sìe,
che l´andar mi facean
di nullo costo.
Ed ecco piangere e
cantar s´udìe
`Labïa mëa,
Domine´ per modo
tal, che diletto e
doglia parturìe.
"O dolce padre,
che è quel ch´i´ odo?",
comincia´ io; ed elli:
"Ombre che vanno
forse di lor dover
solvendo il nodo".
Sì come i peregrin
pensosi fanno,
giugnendo per cammin
gente non nota,
che si volgono ad essa
e non restanno,
così di retro a noi, più
tosto mota,
venendo e trapassando
ci ammirava
d´anime turba tacita e
devota.
Ne li occhi era
ciascuna oscura e cava,
palida ne la faccia, e
tanto scema
che da l´ossa la pelle
s´informava.
Non credo che così a
buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più
n´ebbe tema.
Io dicea fra me stesso
pensando: `Ecco
la gente che perdé
Ierusalemme,
quando Maria nel figlio
diè di becco!´
Parean l´occhiaie
anella sanza gemme:
chi nel viso de li
uomini legge `omo´
ben avria quivi
conosciuta l´emme.
Chi crederebbe che l´odor
d´un pomo
sì governasse,
generando brama,
e quel d´un´acqua, non
sappiendo como?
Già era in ammirar che
sì li affama,
per la cagione ancor
non manifesta
di lor magrezza e di
lor trista squama,
ed ecco del profondo de
la testa
volse a me li occhi un´ombra
e guardò fiso;
poi gridò forte:
"Qual grazia m´è questa?".
Mai non l´avrei
riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu
palese
ciò che l´aspetto in sé
avea conquiso.
Questa favilla tutta mi
raccese
mia conoscenza a la
cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di
Forese.
"Deh, non
contendere a l´asciutta scabbia
che mi scolora",
pregava, "la pelle,
né a difetto di carne
ch´io abbia;
ma dimmi il ver di te,
dì chi son quelle
due anime che là ti
fanno scorta;
non rimaner che tu non
mi favelle!".
"La faccia tua, ch´io
lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non
minor doglia",
rispuos´ io lui,
"veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio,
che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr´
io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è
pien d´altra voglia".
Ed elli a me: "De
l´etterno consiglio
cade vertù ne l´acqua e
ne la pianta
rimasa dietro ond´ io sì
m´assottiglio.
Tutta esta gente che
piangendo canta
per seguitar la gola
oltra misura,
in fame e ´n sete qui
si rifà santa.
Di bere e di mangiar n´accende
cura
l´odor ch´esce del pomo
e de lo sprazzo
che si distende su per
sua verdura.
E non pur una volta,
questo spazzo
girando, si rinfresca
nostra pena:
io dico pena, e dovria
dir sollazzo,
ché quella voglia a li
alberi ci mena
che menò Cristo lieto a
dire `Elì´,
quando ne liberò con la
sua vena".
E io a lui:
"Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo
a miglior vita,
cinqu´ anni non son vòlti
infino a qui.
Se prima fu la possa in
te finita
di peccar più, che
sovvenisse l´ora
del buon dolor ch´a Dio
ne rimarita,
come se´ tu qua sù
venuto ancora?
Io ti credea trovar là
giù di sotto,
dove tempo per tempo si
ristora".
Ond´ elli a me: "Sì
tosto m´ha condotto
a ber lo dolce assenzo
d´i martìri
la Nella mia con suo
pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti
e con sospiri
tratto m´ha de la costa
ove s´aspetta,
e liberato m´ha de li
altri giri.
Tanto è a Dio più cara
e più diletta
la vedovella mia, che
molto amai,
quanto in bene operare è
più soletta;
ché la Barbagia di
Sardigna assai
ne le femmine sue più è
pudica
che la Barbagia dov´ io
la lasciai.
O dolce frate, che vuo´
tu ch´io dica?
Tempo futuro m´è già
nel cospetto,
cui non sarà quest´ ora
molto antica,
nel qual sarà in
pergamo interdetto
a le sfacciate donne
fiorentine
l´andar mostrando con
le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai,
quai saracine,
cui bisognasse, per
farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate
fosser certe
di quel che ´l ciel
veloce loro ammanna,
già per urlare avrian
le bocche aperte;
ché, se l´antiveder qui
non m´inganna,
prima fien triste che
le guance impeli
colui che mo si consola
con nanna.
Deh, frate, or fa che
più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma
questa gente
tutta rimira là dove ´l
sol veli".
Per ch´io a lui:
"Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual
io teco fui,
ancor fia grave il
memorar presente.
Di quella vita mi volse
costui
che mi va innanzi, l´altr´
ier, quando tonda
vi si mostrò la suora
di colui",
e ´l sol mostrai;
"costui per la profonda
notte menato m´ha d´i
veri morti
con questa vera carne
che ´l seconda.
Indi m´han tratto sù li
suoi conforti,
salendo e rigirando la
montagna
che drizza voi che ´l
mondo fece torti.
Tanto dice di farmi sua
compagna
che io sarò là dove fia
Beatrice;
quivi convien che sanza
lui rimagna.
Virgilio è questi che
così mi dice",
e addita´lo; "e
quest´ altro è quell´ ombra
per cuï scosse dianzi
ogne pendice
lo vostro regno, che da
sé lo sgombra".
Né ´l dir l´andar, né l´andar
lui più lento
facea, ma ragionando
andavam forte,
sì come nave pinta da
buon vento;
e l´ombre, che parean
cose rimorte,
per le fosse de li
occhi ammirazione
traean di me, di mio
vivere accorte.
E io, continüando al
mio sermone,
dissi: "Ella sen
va sù forse più tarda
che non farebbe, per
altrui cagione.
Ma dimmi, se tu sai,
dov´ è Piccarda;
dimmi s´io veggio da
notar persona
tra questa gente che sì
mi riguarda".
"La mia sorella,
che tra bella e buona
non so qual fosse più,
trïunfa lieta
ne l´alto Olimpo già di
sua corona".
Sì disse prima; e poi:
"Qui non si vieta
di nominar ciascun, da
ch´è sì munta
nostra sembianza via
per la dïeta.
Questi", e mostrò
col dito, "è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e
quella faccia
di là da lui più che l´altre
trapunta
ebbe la Santa Chiesa in
le sue braccia:
dal Torso fu, e purga
per digiuno
l´anguille di Bolsena e
la vernaccia".
Molti altri mi nomò ad
uno ad uno;
e del nomar parean
tutti contenti,
sì ch´io però non vidi
un atto bruno.
Vidi per fame a vòto
usar li denti
Ubaldin da la Pila e
Bonifazio
che pasturò col rocco
molte genti.
Vidi messer Marchese,
ch´ebbe spazio
già di bere a Forlì con
men secchezza,
e sì fu tal, che non si
sentì sazio.
Ma come fa chi guarda e
poi s´apprezza
più d´un che d´altro,
fei a quel da Lucca,
che più parea di me
aver contezza.
El mormorava; e non so
che "Gentucca"
sentiv´ io là, ov´ el
sentia la piaga
de la giustizia che sì
li pilucca.
"O anima",
diss´ io, "che par sì vaga
di parlar meco, fa sì
ch´io t´intenda,
e te e me col tuo
parlare appaga".
"Femmina è nata, e
non porta ancor benda",
cominciò el, "che
ti farà piacere
la mia città, come ch´om
la riprenda.
Tu te n´andrai con
questo antivedere:
se nel mio mormorar
prendesti errore,
dichiareranti ancor le
cose vere.
Ma dì s´i´ veggio qui
colui che fore
trasse le nove rime,
cominciando
`Donne ch´avete
intelletto d´amore´".
E io a lui: "I´ mi
son un che, quando
Amor mi spira, noto, e
a quel modo
ch´e´ ditta dentro vo
significando".
"O frate, issa
vegg´ io", diss´ elli, "il nodo
che ´l Notaro e
Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil
novo ch´i´ odo!
Io veggio ben come le
vostre penne
di retro al dittator
sen vanno strette,
che de le nostre certo
non avvenne;
e qual più a gradire
oltre si mette,
non vede più da l´uno a
l´altro stilo";
e, quasi contentato, si
tacette.
Come li augei che
vernan lungo ´l Nilo,
alcuna volta in aere
fanno schiera,
poi volan più a fretta
e vanno in filo,
così tutta la gente che
lì era,
volgendo ´l viso,
raffrettò suo passo,
e per magrezza e per
voler leggera.
E come l´uom che di
trottare è lasso,
lascia andar li
compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi l´affollar
del casso,
sì lasciò trapassar la
santa greggia
Forese, e dietro meco
sen veniva,
dicendo: "Quando
fia ch´io ti riveggia?".
"Non so", rispuos´
io lui, "quant´ io mi viva;
ma già non fïa il
tornar mio tantosto,
ch´io non sia col voler
prima a la riva;
però che ´l loco u´ fui
a viver posto,
di giorno in giorno più
di ben si spolpa,
e a trista ruina par
disposto".
"Or va", diss´
el; "che quei che più n´ha colpa,
vegg´ ïo a coda d´una
bestia tratto
inver´ la valle ove mai
non si scolpa.
La bestia ad ogne passo
va più ratto,
crescendo sempre, fin
ch´ella il percuote,
e lascia il corpo
vilmente disfatto.
Non hanno molto a volger
quelle ruote",
e drizzò li occhi al
ciel, "che ti fia chiaro
ciò che ´l mio dir più
dichiarar non puote.
Tu ti rimani omai; ché ´l
tempo è caro
in questo regno, sì ch´io
perdo troppo
venendo teco sì a paro
a paro".
Qual esce alcuna volta
di gualoppo
lo cavalier di schiera
che cavalchi,
e va per farsi onor del
primo intoppo,
tal si partì da noi con
maggior valchi;
e io rimasi in via con
esso i due
che fuor del mondo sì
gran marescalchi.
E quando innanzi a noi
intrato fue,
che li occhi miei si
fero a lui seguaci,
come la mente a le
parole sue,
parvermi i rami gravidi
e vivaci
d´un altro pomo, e non
molto lontani
per esser pur allora vòlto
in laci.
Vidi gente sott´ esso
alzar le mani
e gridar non so che
verso le fronde,
quasi bramosi fantolini
e vani
che pregano, e ´l
pregato non risponde,
ma, per fare esser ben
la voglia acuta,
tien alto lor disio e
nol nasconde.
Poi si partì sì come
ricreduta;
e noi venimmo al grande
arbore adesso,
che tanti prieghi e
lagrime rifiuta.
"Trapassate oltre
sanza farvi presso:
legno è più sù che fu
morso da Eva,
e questa pianta si levò
da esso".
Sì tra le frasche non
so chi diceva;
per che Virgilio e
Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato
che si leva.
"Ricordivi",
dicea, "d´i maladetti
nei nuvoli formati,
che, satolli,
Tesëo combatter co´
doppi petti;
e de li Ebrei ch´al ber
si mostrar molli,
per che no i volle
Gedeon compagni,
quando inver´ Madïan
discese i colli".
Sì accostati a l´un d´i
due vivagni
passammo, udendo colpe
de la gola
seguite già da miseri
guadagni.
Poi, rallargati per la
strada sola,
ben mille passi e più
ci portar oltre,
contemplando ciascun
sanza parola.
"Che andate
pensando sì voi sol tre?".
sùbita voce disse; ond´
io mi scossi
come fan bestie
spaventate e poltre.
Drizzai la testa per
veder chi fossi;
e già mai non si videro
in fornace
vetri o metalli sì
lucenti e rossi,
com´ io vidi un che
dicea: "S´a voi piace
montare in sù, qui si
convien dar volta;
quinci si va chi vuole
andar per pace".
L´aspetto suo m´avea la
vista tolta;
per ch´io mi volsi
dietro a´ miei dottori,
com´ om che va secondo
ch´elli ascolta.
E quale, annunziatrice
de li albori,
l´aura di maggio movesi
e olezza,
tutta impregnata da l´erba
e da´ fiori;
tal mi senti´ un vento
dar per mezza
la fronte, e ben senti´
mover la piuma,
che fé sentir d´ambrosïa
l´orezza.
E senti´ dir:
"Beati cui alluma
tanto di grazia, che l´amor
del gusto
nel petto lor troppo
disir non fuma,
esurïendo sempre quanto
è giusto!".
Ora era onde ´l salir
non volea storpio;
ché ´l sole avëa il
cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la
notte a lo Scorpio:
per che, come fa l´uom
che non s´affigge
ma vassi a la via sua,
che che li appaia,
se di bisogno stimolo
il trafigge,
così intrammo noi per
la callaia,
uno innanzi altro
prendendo la scala
che per artezza i
salitor dispaia.
E quale il cicognin che
leva l´ala
per voglia di volare, e
non s´attenta
d´abbandonar lo nido, e
giù la cala;
tal era io con voglia
accesa e spenta
di dimandar, venendo
infino a l´atto
che fa colui ch´a dicer
s´argomenta.
Non lasciò, per l´andar
che fosse ratto,
lo dolce padre mio, ma
disse: "Scocca
l´arco del dir, che ´nfino
al ferro hai tratto".
Allor sicuramente apri´
la bocca
e cominciai: "Come
si può far magro
là dove l´uopo di
nodrir non tocca?".
"Se t´ammentassi
come Meleagro
si consumò al consumar
d´un stizzo,
non fora", disse,
"a te questo sì agro;
e se pensassi come, al
vostro guizzo,
guizza dentro a lo
specchio vostra image,
ciò che par duro ti
parrebbe vizzo.
Ma perché dentro a tuo
voler t´adage,
ecco qui Stazio; e io
lui chiamo e prego
che sia or sanator de
le tue piage".
"Se la veduta
etterna li dislego",
rispuose Stazio,
"là dove tu sie,
discolpi me non potert´
io far nego".
Poi cominciò: "Se
le parole mie,
figlio, la mente tua
guarda e riceve,
lume ti fiero al come
che tu die.
Sangue perfetto, che
poi non si beve
da l´assetate vene, e
si rimane
quasi alimento che di
mensa leve,
prende nel core a tutte
membra umane
virtute informativa,
come quello
ch´a farsi quelle per
le vene vane.
Ancor digesto, scende
ov´ è più bello
tacer che dire; e
quindi poscia geme
sovr´ altrui sangue in
natural vasello.
Ivi s´accoglie l´uno e
l´altro insieme,
l´un disposto a patire,
e l´altro a fare
per lo perfetto loco
onde si preme;
e, giunto lui, comincia
ad operare
coagulando prima, e poi
avviva
ciò che per sua matera
fé constare.
Anima fatta la virtute
attiva
qual d´una pianta, in
tanto differente,
che questa è in via e
quella è già a riva,
tanto ovra poi, che già
si move e sente,
come spungo marino; e
indi imprende
ad organar le posse ond´
è semente.
Or si spiega,
figliuolo, or si distende
la virtù ch´è dal cor
del generante,
dove natura a tutte
membra intende.
Ma come d´animal
divegna fante,
non vedi tu ancor:
quest´ è tal punto,
che più savio di te fé
già errante,
sì che per sua dottrina
fé disgiunto
da l´anima il possibile
intelletto,
perché da lui non vide
organo assunto.
Apri a la verità che
viene il petto;
e sappi che, sì tosto
come al feto
l´articular del cerebro
è perfetto,
lo motor primo a lui si
volge lieto
sovra tant´ arte di
natura, e spira
spirito novo, di vertù
repleto,
che ciò che trova
attivo quivi, tira
in sua sustanzia, e
fassi un´alma sola,
che vive e sente e sé
in sé rigira.
E perché meno ammiri la
parola,
guarda il calor del
sole che si fa vino,
giunto a l´omor che de
la vite cola.
Quando Làchesis non ha
più del lino,
solvesi da la carne, e
in virtute
ne porta seco e l´umano
e ´l divino:
l´altre potenze tutte
quante mute;
memoria, intelligenza e
volontade
in atto molto più che
prima agute.
Sanza restarsi, per sé
stessa cade
mirabilmente a l´una de
le rive;
quivi conosce prima le
sue strade.
Tosto che loco lì la
circunscrive,
la virtù formativa
raggia intorno
così e quanto ne le
membra vive.
E come l´aere, quand´ è
ben pïorno,
per l´altrui raggio che
´n sé si reflette,
di diversi color
diventa addorno;
così l´aere vicin quivi
si mette
e in quella forma ch´è
in lui suggella
virtüalmente l´alma che
ristette;
e simigliante poi a la
fiammella
che segue il foco là ´vunque
si muta,
segue lo spirto sua
forma novella.
Però che quindi ha
poscia sua paruta,
è chiamata ombra; e
quindi organa poi
ciascun sentire infino
a la veduta.
Quindi parliamo e
quindi ridiam noi;
quindi facciam le
lagrime e ´ sospiri
che per lo monte aver
sentiti puoi.
Secondo che ci
affliggono i disiri
e li altri affetti, l´ombra
si figura;
e quest´ è la cagion di
che tu miri".
E già venuto a l´ultima
tortura
s´era per noi, e vòlto
a la man destra,
ed eravamo attenti ad
altra cura.
Quivi la ripa fiamma in
fuor balestra,
e la cornice spira
fiato in suso
che la reflette e via
da lei sequestra;
ond´ ir ne convenia dal
lato schiuso
ad uno ad uno; e io temëa
´l foco
quinci, e quindi temeva
cader giuso.
Lo duca mio dicea:
"Per questo loco
si vuol tenere a li occhi
stretto il freno,
però ch´errar
potrebbesi per poco".
`Summae Deus
clementïae´ nel seno
al grande ardore allora
udi´ cantando,
che di volger mi fé
caler non meno;
e vidi spirti per la
fiamma andando;
per ch´io guardava a
loro e a´ miei passi
compartendo la vista a
quando a quando.
Appresso il fine ch´a
quell´ inno fassi,
gridavano alto:
`Virum non cognosco´;
indi ricominciavan l´inno
bassi.
Finitolo, anco
gridavano: "Al bosco
si tenne Diana, ed
Elice caccionne
che di Venere avea
sentito il tòsco".
Indi al cantar
tornavano; indi donne
gridavano e mariti che
fuor casti
come virtute e
matrimonio imponne.
E questo modo credo che
lor basti
per tutto il tempo che ´l
foco li abbruscia:
con tal cura conviene e
con tai pasti
che la piaga da sezzo
si ricuscia.
Mentre che sì per l´orlo,
uno innanzi altro,
ce n´andavamo, e spesso
il buon maestro
diceami: "Guarda:
giovi ch´io ti scaltro";
feriami il sole in su l´omero
destro,
che già, raggiando,
tutto l´occidente
mutava in bianco
aspetto di cilestro;
e io facea con l´ombra
più rovente
parer la fiamma; e pur
a tanto indizio
vidi molt´ ombre,
andando, poner mente.
Questa fu la cagion che
diede inizio
loro a parlar di me; e
cominciarsi
a dir: "Colui non
par corpo fittizio";
poi verso me, quanto
potëan farsi,
certi si fero, sempre
con riguardo
di non uscir dove non
fosser arsi.
"O tu che vai, non
per esser più tardo,
ma forse reverente, a
li altri dopo,
rispondi a me che ´n sete
e ´n foco ardo.
Né solo a me la tua
risposta è uopo;
ché tutti questi n´hanno
maggior sete
che d´acqua fredda Indo
o Etïopo.
Dinne com´ è che fai di
te parete
al sol, pur come tu non
fossi ancora
di morte intrato dentro
da la rete".
Sì mi parlava un d´essi;
e io mi fora
già manifesto, s´io non
fossi atteso
ad altra novità ch´apparve
allora;
ché per lo mezzo del
cammino acceso
venne gente col viso
incontro a questa,
la qual mi fece a
rimirar sospeso.
Lì veggio d´ogne parte
farsi presta
ciascun´ ombra e
basciarsi una con una
sanza restar, contente
a brieve festa;
così per entro loro
schiera bruna
s´ammusa l´una con l´altra
formica,
forse a spïar lor via e
lor fortuna.
Tosto che parton l´accoglienza
amica,
prima che ´l primo
passo lì trascorra,
sopragridar ciascuna s´affatica:
la nova gente:
"Soddoma e Gomorra";
e l´altra: "Ne la
vacca entra Pasife,
perché ´l torello a sua
lussuria corra".
Poi, come grue ch´a le
montagne Rife
volasser parte, e parte
inver´ l´arene,
queste del gel, quelle
del sole schife,
l´una gente sen va, l´altra
sen vene;
e tornan, lagrimando, a´
primi canti
e al gridar che più lor
si convene;
e raccostansi a me,
come davanti,
essi medesmi che m´avean
pregato,
attenti ad ascoltar ne´
lor sembianti.
Io, che due volte avea
visto lor grato,
incominciai: "O
anime sicure
d´aver, quando che sia,
di pace stato,
non son rimase acerbe né
mature
le membra mie di là, ma
son qui meco
col sangue suo e con le
sue giunture.
Quinci sù vo per non
esser più cieco;
donna è di sopra che m´acquista
grazia,
per che ´l mortal per
vostro mondo reco.
Ma se la vostra maggior
voglia sazia
tosto divegna, sì che ´l
ciel v´alberghi
ch´è pien d´amore e più
ampio si spazia,
ditemi, acciò ch´ancor carte
ne verghi,
chi siete voi, e chi è
quella turba
che se ne va di retro a´
vostri terghi".
Non altrimenti stupido
si turba
lo montanaro, e
rimirando ammuta,
quando rozzo e
salvatico s´inurba,
che ciascun´ ombra fece
in sua paruta;
ma poi che furon di
stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor
tosto s´attuta,
"Beato te, che de
le nostre marche",
ricominciò colei che
pria m´inchiese,
"per morir meglio,
esperïenza imbarche!
La gente che non vien
con noi, offese
di ciò per che già
Cesar, trïunfando,
"Regina"
contra sé chiamar s´intese:
però si parton
"Soddoma" gridando,
rimproverando a sé com´
hai udito,
e aiutan l´arsura
vergognando.
Nostro peccato fu
ermafrodito;
ma perché non servammo
umana legge,
seguendo come bestie l´appetito,
in obbrobrio di noi,
per noi si legge,
quando partinci, il
nome di colei
che s´imbestiò ne le ´mbestiate
schegge.
Or sai nostri atti e di
che fummo rei:
se forse a nome vuo´
saper chi semo,
tempo non è di dire, e
non saprei.
Farotti ben di me
volere scemo:
son Guido Guinizzelli,
e già mi purgo
per ben dolermi prima
ch´a lo stremo".
Quali ne la tristizia
di Ligurgo
si fer due figli a
riveder la madre,
tal mi fec´ io, ma non
a tanto insurgo,
quand´ io odo nomar sé
stesso il padre
mio e de li altri miei
miglior che mai
rime d´amore usar dolci
e leggiadre;
e sanza udire e dir
pensoso andai
lunga fïata rimirando
lui,
né, per lo foco, in là
più m´appressai.
Poi che di riguardar
pasciuto fui,
tutto m´offersi pronto
al suo servigio
con l´affermar che fa
credere altrui.
Ed elli a me: "Tu
lasci tal vestigio,
per quel ch´i´ odo, in
me, e tanto chiaro,
che Letè nol può tòrre
né far bigio.
Ma se le tue parole or
ver giuraro,
dimmi che è cagion per
che dimostri
nel dire e nel guardar
d´avermi caro".
E io a lui: "Li
dolci detti vostri,
che, quanto durerà l´uso
moderno,
faranno cari ancora i
loro incostri".
"O frate",
disse, "questi ch´io ti cerno
col dito", e additò
un spirto innanzi,
"fu miglior fabbro
del parlar materno.
Versi d´amore e prose
di romanzi
soverchiò tutti; e
lascia dir li stolti
che quel di Lemosì
credon ch´avanzi.
A voce più ch´al ver
drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch´arte o ragion
per lor s´ascolti.
Così fer molti antichi
di Guittone,
di grido in grido pur
lui dando pregio,
fin che l´ha vinto il
ver con più persone.
Or se tu hai sì ampio
privilegio,
che licito ti sia l´andare
al chiostro
nel quale è Cristo
abate del collegio,
falli per me un dir d´un
paternostro,
quanto bisogna a noi di
questo mondo,
dove poter peccar non è
più nostro".
Poi, forse per dar
luogo altrui secondo
che presso avea,
disparve per lo foco,
come per l´acqua il
pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato
innanzi un poco,
e dissi ch´al suo nome
il mio disire
apparecchiava grazïoso
loco.
El cominciò liberamente
a dire:
"Tan m´abellis
vostre cortes deman,
qu´ieu no me puesc ni
voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que
plor e vau cantan;
consiros vei la passada
folor,
e vei jausen lo joi qu´esper,
denan.
Ara vos prec, per
aquella valor
que vos guida al som de
l´escalina,
sovenha vos a temps de
ma dolor!".
Poi s´ascose nel foco
che li affina.
Sì come quando i primi
raggi vibra
là dove il suo fattor
lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l´alta
Libra,
e l´onde in Gange da
nona rïarse,
sì stava il sole; onde ´l
giorno sen giva,
come l´angel di Dio
lieto ci apparse.
Fuor de la fiamma stava
in su la riva,
e cantava
`Beati mundo corde!´
in voce assai più che
la nostra viva.
Poscia "Più non si
va, se pria non morde,
anime sante, il foco:
intrate in esso,
e al cantar di là non
siate sorde",
ci disse come noi li
fummo presso;
per ch´io divenni tal,
quando lo ´ntesi,
qual è colui che ne la
fossa è messo.
In su le man commesse
mi protesi,
guardando il foco e
imaginando forte
umani corpi già veduti
accesi.
Volsersi verso me le
buone scorte;
e Virgilio mi disse:
"Figliuol mio,
qui può esser tormento,
ma non morte.
Ricorditi, ricorditi! E
se io
sovresso Gerïon ti
guidai salvo,
che farò ora presso più
a Dio?
Credi per certo che se
dentro a l´alvo
di questa fiamma stessi
ben mille anni,
non ti potrebbe far d´un
capel calvo.
E se tu forse credi ch´io
t´inganni,
fatti ver´ lei, e fatti
far credenza
con le tue mani al
lembo d´i tuoi panni.
Pon giù omai, pon giù
ogne temenza;
volgiti in qua e vieni:
entra sicuro!".
E io pur fermo e contra
coscïenza.
Quando mi vide star pur
fermo e duro,
turbato un poco disse:
"Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è
questo muro".
Come al nome di Tisbe
aperse il ciglio
Piramo in su la morte,
e riguardolla,
allor che ´l gelso
diventò vermiglio;
così, la mia durezza
fatta solla,
mi volsi al savio duca,
udendo il nome
che ne la mente sempre
mi rampolla.
Ond´ ei crollò la
fronte e disse: "Come!
volenci star di
qua?"; indi sorrise
come al fanciul si fa
ch´è vinto al pome.
Poi dentro al foco
innanzi mi si mise,
pregando Stazio che
venisse retro,
che pria per lunga
strada ci divise.
Sì com´ fui dentro, in
un bogliente vetro
gittato mi sarei per
rinfrescarmi,
tant´ era ivi lo ´ncendio
sanza metro.
Lo dolce padre mio, per
confortarmi,
pur di Beatrice
ragionando andava,
dicendo: "Li occhi
suoi già veder parmi".
Guidavaci una voce che
cantava
di là; e noi, attenti
pur a lei,
venimmo fuor là ove si
montava.
`Venite,
benedicti Patris mei´,
sonò dentro a un lume
che lì era,
tal che mi vinse e
guardar nol potei.
"Lo sol sen
va", soggiunse, "e vien la sera;
non v´arrestate, ma
studiate il passo,
mentre che l´occidente
non si annera".
Dritta salia la via per
entro ´l sasso
verso tal parte ch´io
toglieva i raggi
dinanzi a me del sol ch´era
già basso.
E di pochi scaglion
levammo i saggi,
che ´l sol corcar, per
l´ombra che si spense,
sentimmo dietro e io e
li miei saggi.
E pria che ´n tutte le
sue parti immense
fosse orizzonte fatto d´uno
aspetto,
e notte avesse tutte
sue dispense,
ciascun di noi d´un
grado fece letto;
ché la natura del monte
ci affranse
la possa del salir più
e ´l diletto.
Quali si stanno
ruminando manse
le capre, state rapide
e proterve
sovra le cime avante
che sien pranse,
tacite a l´ombra,
mentre che ´l sol ferve,
guardate dal pastor,
che ´n su la verga
poggiato s´è e lor di
posa serve;
e quale il mandrïan che
fori alberga,
lungo il pecuglio suo
queto pernotta,
guardando perché fiera
non lo sperga;
tali eravamo tutti e
tre allotta,
io come capra, ed ei
come pastori,
fasciati quinci e
quindi d´alta grotta.
Poco parer potea lì del
di fori;
ma, per quel poco,
vedea io le stelle
di lor solere e più
chiare e maggiori.
Sì ruminando e sì
mirando in quelle,
mi prese il sonno; il
sonno che sovente,
anzi che ´l fatto sia,
sa le novelle.
Ne l´ora, credo, che de
l´orïente
prima raggiò nel monte
Citerea,
che di foco d´amor par
sempre ardente,
giovane e bella in
sogno mi parea
donna vedere andar per
una landa
cogliendo fiori; e
cantando dicea:
"Sappia qualunque
il mio nome dimanda
ch´i´ mi son Lia, e vo
movendo intorno
le belle mani a farmi
una ghirlanda.
Per piacermi a lo
specchio, qui m´addorno;
ma mia suora Rachel mai
non si smaga
dal suo miraglio, e
siede tutto giorno.
Ell´ è d´i suoi belli
occhi veder vaga
com´ io de l´addornarmi
con le mani;
lei lo vedere, e me l´ovrare
appaga".
E già per li splendori
antelucani,
che tanto a´ pellegrin
surgon più grati,
quanto, tornando,
albergan men lontani,
le tenebre fuggian da
tutti lati,
e ´l sonno mio con esse;
ond´ io leva´mi,
veggendo i gran maestri
già levati.
"Quel dolce pome
che per tanti rami
cercando va la cura de´
mortali,
oggi porrà in pace le
tue fami".
Virgilio inverso me
queste cotali
parole usò; e mai non
furo strenne
che fosser di piacere a
queste iguali.
Tanto voler sopra voler
mi venne
de l´esser sù, ch´ad
ogne passo poi
al volo mi sentia
crescer le penne.
Come la scala tutta
sotto noi
fu corsa e fummo in su ´l
grado superno,
in me ficcò Virgilio li
occhi suoi,
e disse: "Il
temporal foco e l´etterno
veduto hai, figlio; e
se´ venuto in parte
dov´ io per me più
oltre non discerno.
Tratto t´ho qui con
ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai
prendi per duce;
fuor se´ de l´erte vie,
fuor se´ de l´arte.
Vedi lo sol che ´n
fronte ti riluce;
vedi l´erbette, i fiori
e li arbuscelli
che qui la terra sol da
sé produce.
Mentre che vegnan lieti
li occhi belli
che, lagrimando, a te
venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi
andar tra elli.
Non aspettar mio dir più
né mio cenno;
libero, dritto e sano è
tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a
suo senno:
per ch´io te sovra te
corono e mitrio".
Vago già di cercar
dentro e dintorno
la divina foresta
spessa e viva,
ch´a li occhi temperava
il novo giorno,
sanza più aspettar,
lasciai la riva,
prendendo la campagna
lento lento
su per lo suol che d´ogne
parte auliva.
Un´aura dolce, sanza
mutamento
avere in sé, mi feria
per la fronte
non di più colpo che
soave vento;
per cui le fronde,
tremolando, pronte
tutte quante piegavano
a la parte
u´ la prim´ ombra gitta
il santo monte;
non però dal loro esser
dritto sparte
tanto, che li
augelletti per le cime
lasciasser d´operare
ogne lor arte;
ma con piena letizia l´ore
prime,
cantando, ricevieno
intra le foglie,
che tenevan bordone a
le sue rime,
tal qual di ramo in
ramo si raccoglie
per la pineta in su ´l
lito di Chiassi,
quand´ ëolo scilocco
fuor discioglie.
Già m´avean trasportato
i lenti passi
dentro a la selva
antica tanto, ch´io
non potea rivedere ond´
io mi ´ntrassi;
ed ecco più andar mi
tolse un rio,
che ´nver´ sinistra con
sue picciole onde
piegava l´erba che ´n
sua ripa uscìo.
Tutte l´acque che son
di qua più monde,
parrieno avere in sé
mistura alcuna
verso di quella, che
nulla nasconde,
avvegna che si mova
bruna bruna
sotto l´ombra perpetüa,
che mai
raggiar non lascia sole
ivi né luna.
Coi piè ristetti e con
li occhi passai
di là dal fiumicello,
per mirare
la gran varïazion d´i
freschi mai;
e là m´apparve, sì com´
elli appare
subitamente cosa che
disvia
per maraviglia tutto
altro pensare,
una donna soletta che
si gia
e cantando e scegliendo
fior da fiore
ond´ era pinta tutta la
sua via.
"Deh, bella donna,
che a´ raggi d´amore
ti scaldi, s´i´ vo´
credere a´ sembianti
che soglion esser
testimon del core,
vegnati in voglia di
trarreti avanti",
diss´ io a lei,
"verso questa rivera,
tanto ch´io possa
intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar
dove e qual era
Proserpina nel tempo
che perdette
la madre lei, ed ella
primavera".
Come si volge, con le
piante strette
a terra e intra sé,
donna che balli,
e piede innanzi piede a
pena mette,
volsesi in su i
vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non
altrimenti
che vergine che li
occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei
esser contenti,
sì appressando sé, che ´l
dolce suono
veniva a me co´ suoi
intendimenti.
Tosto che fu là dove l´erbe
sono
bagnate già da l´onde
del bel fiume,
di levar li occhi suoi
mi fece dono.
Non credo che
splendesse tanto lume
sotto le ciglia a
Venere, trafitta
dal figlio fuor di
tutto suo costume.
Ella ridea da l´altra
riva dritta,
trattando più color con
le sue mani,
che l´alta terra sanza
seme gitta.
Tre passi ci facea il
fiume lontani;
ma Elesponto, là ´ve
passò Serse,
ancora freno a tutti
orgogli umani,
più odio da Leandro non
sofferse
per mareggiare intra
Sesto e Abido,
che quel da me perch´
allor non s´aperse.
"Voi siete nuovi,
e forse perch´ io rido",
cominciò ella, "in
questo luogo eletto
a l´umana natura per
suo nido,
maravigliando tienvi
alcun sospetto;
ma luce rende il salmo
Delectasti,
che puote disnebbiar
vostro intelletto.
E tu che se´ dinanzi e
mi pregasti,
dì s´altro vuoli udir;
ch´i´ venni presta
ad ogne tua question
tanto che basti".
"L´acqua",
diss´ io, "e ´l suon de la foresta
impugnan dentro a me
novella fede
di cosa ch´io udi´
contraria a questa".
Ond´ ella: "Io
dicerò come procede
per sua cagion ciò ch´ammirar
ti face,
e purgherò la nebbia
che ti fiede.
Lo sommo Ben, che solo
esso a sé piace,
fé l´uom buono e a
bene, e questo loco
diede per arr´ a lui d´etterna
pace.
Per sua difalta qui
dimorò poco;
per sua difalta in
pianto e in affanno
cambiò onesto riso e
dolce gioco.
Perché ´l turbar che
sotto da sé fanno
l´essalazion de l´acqua
e de la terra,
che quanto posson
dietro al calor vanno,
a l´uomo non facesse
alcuna guerra,
questo monte salìo
verso ´l ciel tanto,
e libero n´è d´indi ove
si serra.
Or perché in circuito
tutto quanto
l´aere si volge con la
prima volta,
se non li è rotto il
cerchio d´alcun canto,
in questa altezza ch´è
tutta disciolta
ne l´aere vivo, tal
moto percuote,
e fa sonar la selva
perch´ è folta;
e la percossa pianta tanto
puote,
che de la sua virtute l´aura
impregna
e quella poi, girando,
intorno scuote;
e l´altra terra,
secondo ch´è degna
per sé e per suo ciel,
concepe e figlia
di diverse virtù
diverse legna.
Non parrebbe di là poi
maraviglia,
udito questo, quando
alcuna pianta
sanza seme palese vi s´appiglia.
E saper dei che la
campagna santa
dove tu se´, d´ogne
semenza è piena,
e frutto ha in sé che
di là non si schianta.
L´acqua che vedi non
surge di vena
che ristori vapor che
gel converta,
come fiume ch´acquista
e perde lena;
ma esce di fontana
salda e certa,
che tanto dal voler di
Dio riprende,
quant´ ella versa da
due parti aperta.
Da questa parte con
virtù discende
che toglie altrui
memoria del peccato;
da l´altra d´ogne ben
fatto la rende.
Quinci Letè; così da l´altro
lato
Eünoè si chiama, e non
adopra
se quinci e quindi pria
non è gustato:
a tutti altri sapori
esto è di sopra.
E avvegna ch´assai
possa esser sazia
la sete tua perch´ io
più non ti scuopra,
darotti un corollario
ancor per grazia;
né credo che ´l mio dir
ti sia men caro,
se oltre promession
teco si spazia.
Quelli ch´anticamente
poetaro
l´età de l´oro e suo
stato felice,
forse in Parnaso esto
loco sognaro.
Qui fu innocente l´umana
radice;
qui primavera sempre e
ogne frutto;
nettare è questo di che
ciascun dice".
Io mi rivolsi ´n dietro
allora tutto
a´ miei poeti, e vidi
che con riso
udito avëan l´ultimo
costrutto;
poi a la bella donna
torna´ il viso.
Cantando come donna
innamorata,
continüò col fin di sue
parole:
`Beati quorum
tecta sunt peccata!´.
E come ninfe che si
givan sole
per le salvatiche
ombre, disïando
qual di veder, qual di
fuggir lo sole,
allor si mosse contra ´l
fiume, andando
su per la riva; e io
pari di lei,
picciol passo con
picciol seguitando.
Non eran cento tra ´
suoi passi e ´ miei,
ando le ripe igualmente
dier volta,
per modo ch´a levante
mi rendei.
Né ancor fu così nostra
via molta,
quando la donna tutta a
me si torse,
dicendo: "Frate
mio, guarda e ascolta".
Ed ecco un lustro sùbito
trascorse
da tutte parti per la
gran foresta,
tal che di balenar mi
mise in forse.
Ma perché ´l balenar,
come vien, resta,
e quel, durando, più e
più splendeva,
nel mio pensier dicea:
`Che cosa è questa?´.
E una melodia dolce
correva per l´aere luminoso; onde buon zelo mi fé riprender l´ardimento d´Eva,
che là dove ubidia la
terra e ´l cielo, femmina, sola e pur testé formata, non sofferse di star sotto
alcun velo;
sotto ´l qual se divota
fosse stata, avrei quelle ineffabili delizie sentite prima e più lunga fïata.
Mentr´ io m´andava tra
tante primizie de l´etterno piacer tutto sospeso, e disïoso ancora a più
letizie,
dinanzi a noi, tal
quale un foco acceso, ci si fé l´aere sotto i verdi rami; e ´l dolce suon per
canti era già inteso.
O sacrosante Vergini,
se fami, freddi o vigilie mai per voi soffersi, cagion mi sprona ch´io mercé vi
chiami.
Or convien che Elicona
per me versi, e Uranìe m´aiuti col suo coro forti cose a pensar mettere in
versi.
Poco più oltre, sette
alberi d´oro falsava nel parere il lungo tratto del mezzo ch´era ancor tra noi
e loro;
ma quand´ i´ fui sì
presso di lor fatto, che l´obietto comun, che ´l senso inganna, non perdea per
distanza alcun suo atto,
la virtù ch´a ragion
discorso ammanna, sì com´ elli eran candelabri apprese, e ne le voci del
cantare `Osanna´.
Di sopra fiammeggiava
il bello arnese più chiaro assai che luna per sereno di mezza notte nel suo
mezzo mese.
Io mi rivolsi d´ammirazion
pieno al buon Virgilio, ed esso mi rispuose con vista carca di stupor non meno.
Indi rendei l´aspetto a
l´alte cose che si movieno incontr´ a noi sì tardi, che foran vinte da novelle
spose.
La donna mi sgridò:
"Perché pur ardi sì ne l´affetto de le vive luci, e ciò che vien di retro
a lor non guardi?".
Genti vid´ io allor,
come a lor duci, venire appresso, vestite di bianco; e tal candor di qua già
mai non fuci.
L´acqua imprendëa dal
sinistro fianco, e rendea me la mia sinistra costa, s´io riguardava in lei,
come specchio anco.
Quand´ io da la mia
riva ebbi tal posta, che solo il fiume mi facea distante, per veder meglio ai
passi diedi sosta,
e vidi le fiammelle
andar davante, lasciando dietro a sé l´aere dipinto, e di tratti pennelli avean
sembiante;
sì che lì sopra rimanea
distinto di sette liste, tutte in quei colori onde fa l´arco il Sole e Delia il
cinto.
Questi ostendali in
dietro eran maggiori che la mia vista; e, quanto a mio avviso, diece passi
distavan quei di fori.
Sotto così bel ciel com´
io diviso, ventiquattro seniori, a due a due, coronati venien di fiordaliso.
Tutti cantavan:
"Benedicta tue ne le figlie d´Adamo, e benedette sieno in etterno le
bellezze tue!".
Poscia che i fiori e l´altre
fresche erbette a rimpetto di me da l´altra sponda libere fuor da quelle genti
elette,
sì come luce luce in
ciel seconda, vennero appresso lor quattro animali, coronati ciascun di verde
fronda.
Ognuno era pennuto di
sei ali; le penne piene d´occhi; e li occhi d´Argo, se fosser vivi, sarebber
cotali.
A descriver lor forme
più non spargo rime, lettor; ch´altra spesa mi strigne, tanto ch´a questa non
posso esser largo;
ma leggi Ezechïel, che
li dipigne come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con
igne;
e quali i troverai ne
le sue carte, tali eran quivi, salvo ch´a le penne Giovanni è meco e da lui si
diparte.
Lo spazio dentro a lor
quattro contenne un carro, in su due rote, trïunfale, ch´al collo d´un grifon
tirato venne.
Esso tendeva in sù l´una
e l´altra ale tra la mezzana e le tre e tre liste, sì ch´a nulla, fendendo,
facea male.
Tanto salivan che non
eran viste; le membra d´oro avea quant´ era uccello, e bianche l´altre, di
vermiglio miste.
Non che Roma di carro
così bello rallegrasse Affricano, o vero Augusto, ma quel del Sol saria pover
con ello;
quel del Sol che, svïando,
fu combusto per l´orazion de la Terra devota, quando fu Giove arcanamente
giusto.
Tre donne in giro da la
destra rota venian danzando; l´una tanto rossa ch´a pena fora dentro al foco
nota;
l´altr´ era come se le
carni e l´ossa fossero state di smeraldo fatte; la terza parea neve testé
mossa;
e or parëan da la
bianca tratte, or da la rossa; e dal canto di questa l´altre toglien l´andare e
tarde e ratte.
Da la sinistra quattro
facean festa, in porpore vestite, dietro al modo d´una di lor ch´avea tre occhi
in testa.
Appresso tutto il
pertrattato nodo vidi due vecchi in abito dispari, ma pari in atto e onesto e
sodo.
L´un si mostrava alcun
de´ famigliari di quel sommo Ipocràte che natura a li animali fé ch´ell´ ha più
cari;
mostrava l´altro la
contraria cura con una spada lucida e aguta, tal che di qua dal rio mi fé
paura.
Poi vidi quattro in
umile paruta; e di retro da tutti un vecchio solo venir, dormendo, con la
faccia arguta.
E questi sette col
primaio stuolo erano abitüati, ma di gigli dintorno al capo non facëan brolo,
anzi di rose e d´altri
fior vermigli; giurato avria poco lontano aspetto che tutti ardesser di sopra
da´ cigli.
E quando il carro a me
fu a rimpetto, un tuon s´udì, e quelle genti degne parvero aver l´andar più
interdetto,
fermandosi ivi con le
prime insegne.
Quando il settentrïon
del primo cielo,
che né occaso mai seppe
né orto
né d´altra nebbia che
di colpa velo,
e che faceva lì ciascun
accorto
di suo dover, come ´l
più basso face
qual temon gira per
venire a porto,
fermo s´affisse: la
gente verace,
venuta prima tra ´l
grifone ed esso,
al carro volse sé come
a sua pace;
e un di loro, quasi da
ciel messo,
`Veni,
sponsa, de Libano´ cantando
gridò tre volte, e
tutti li altri appresso.
Quali i beati al
novissimo bando
surgeran presti ognun
di sua caverna,
la revestita voce
alleluiando,
cotali in su la divina
basterna
si levar cento, ad
vocem tanti senis,
ministri e messaggier
di vita etterna.
Tutti dicean:
`Benedictus qui venis!´,
e fior gittando e di
sopra e dintorno,
`Manibus, oh,
date lilïa plenis!´.
Io vidi già nel
cominciar del giorno
la parte orïental tutta
rosata,
e l´altro ciel di bel
sereno addorno;
e la faccia del sol
nascere ombrata,
sì che per temperanza
di vapori
l´occhio la sostenea
lunga fïata:
così dentro una nuvola
di fiori
che da le mani
angeliche saliva
e ricadeva in giù
dentro e di fori,
sovra candido vel cinta
d´uliva
donna m´apparve, sotto
verde manto
vestita di color di
fiamma viva.
E lo spirito mio, che
già cotanto
tempo era stato ch´a la
sua presenza
non era di stupor,
tremando, affranto,
sanza de li occhi aver
più conoscenza,
per occulta virtù che
da lei mosse,
d´antico amor sentì la
gran potenza.
Tosto che ne la vista
mi percosse
l´alta virtù che già m´avea
trafitto
prima ch´io fuor di püerizia
fosse,
volsimi a la sinistra
col respitto
col quale il fantolin
corre a la mamma
quando ha paura o
quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio:
`Men che dramma
di sangue m´è rimaso
che non tremi:
conosco i segni de l´antica
fiamma´.
Ma Virgilio n´avea
lasciati scemi
di sé, Virgilio
dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia
salute die´mi;
né quantunque perdeo l´antica
matre,
valse a le guance nette
di rugiada,
che, lagrimando, non
tornasser atre.
"Dante, perché
Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non
piangere ancora;
ché pianger ti conven
per altra spada".
Quasi ammiraglio che in
poppa e in prora
viene a veder la gente
che ministra
per li altri legni, e a
ben far l´incora;
in su la sponda del
carro sinistra,
quando mi volsi al suon
del nome mio,
che di necessità qui si
registra,
vidi la donna che pria
m´appario
velata sotto l´angelica
festa,
drizzar li occhi ver´
me di qua dal rio.
Tutto che ´l vel che le
scendea di testa,
cerchiato de le fronde
di Minerva,
non la lasciasse parer
manifesta,
regalmente ne l´atto
ancor proterva
continüò come colui che
dice
e ´l più caldo parlar
dietro reserva:
"Guardaci ben! Ben
son, ben son Beatrice.
Come degnasti d´accedere
al monte?
non sapei tu che qui è
l´uom felice?".
Li occhi mi cadder giù
nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso,
i trassi a l´erba,
tanta vergogna mi gravò
la fronte.
Così la madre al figlio
par superba,
com´ ella parve a me;
perché d´amaro
sente il sapor de la
pietade acerba.
Ella si tacque; e li
angeli cantaro
di sùbito `In
te, Domine, speravi´;
ma oltre
`pedes meos´ non passaro.
Sì come neve tra le
vive travi
per lo dosso d´Italia
si congela,
soffiata e stretta da
li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé
stessa trapela,
pur che la terra che
perde ombra spiri,
sì che par foco fonder
la candela;
così fui sanza lagrime
e sospiri
anzi ´l cantar di quei
che notan sempre
dietro a le note de li
etterni giri;
ma poi che ´ntesi ne le
dolci tempre
lor compatire a me, par
che se detto
avesser:
`Donna, perché sì lo stempre?´,
lo gel che m´era
intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi,
e con angoscia
de la bocca e de li
occhi uscì del petto.
Ella, pur ferma in su
la detta coscia
del carro stando, a le
sustanze pie
volse le sue parole così
poscia:
"Voi vigilate ne l´etterno
die,
sì che notte né sonno a
voi non fura
passo che faccia il
secol per sue vie;
onde la mia risposta è
con più cura
che m´intenda colui che
di là piagne,
perché sia colpa e duol
d´una misura.
Non pur per ovra de le
rote magne,
che drizzan ciascun
seme ad alcun fine
secondo che le stelle
son compagne,
ma per larghezza di
grazie divine,
che sì alti vapori
hanno a lor piova,
che nostre viste là non
van vicine,
questi fu tal ne la sua
vita nova
virtüalmente, ch´ogne
abito destro
fatto averebbe in lui
mirabil prova.
Ma tanto più maligno e
più silvestro
si fa ´l terren col mal
seme e non cólto,
quant´ elli ha più di
buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni
col mio volto:
mostrando li occhi
giovanetti a lui,
meco il menava in
dritta parte vòlto.
Sì tosto come in su la
soglia fui
di mia seconda etade e
mutai vita,
questi si tolse a me, e
diessi altrui.
Quando di carne a
spirto era salita,
e bellezza e virtù
cresciuta m´era,
fu´ io a lui men cara e
men gradita;
e volse i passi suoi
per via non vera,
imagini di ben seguendo
false,
che nulla promession
rendono intera.
Né l´impetrare
ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno
e altrimenti
lo rivocai: sì poco a
lui ne calse!
Tanto giù cadde, che
tutti argomenti
a la salute sua eran già
corti,
fuor che mostrarli le
perdute genti.
Per questo visitai l´uscio
d´i morti,
e a colui che l´ha qua
sù condotto,
li prieghi miei,
piangendo, furon porti.
Alto fato di Dio
sarebbe rotto,
se Letè si passasse e
tal vivanda
fosse gustata sanza
alcuno scotto
di pentimento che
lagrime spanda".
"O tu che se´ di là
dal fiume sacro",
volgendo suo parlare a
me per punta,
che pur per taglio m´era
paruto acro,
ricominciò, seguendo
sanza cunta,
"dì, dì se questo è
vero: a tanta accusa
tua confession conviene
esser congiunta".
Era la mia virtù tanto
confusa,
che la voce si mosse, e
pria si spense
che da li organi suoi
fosse dischiusa.
Poco sofferse; poi
disse: "Che pense?
Rispondi a me; ché le
memorie triste
in te non sono ancor da
l´acqua offense".
Confusione e paura
insieme miste
mi pinsero un tal
"sì" fuor de la bocca,
al quale intender fuor
mestier le viste.
Come balestro frange,
quando scocca
da troppa tesa, la sua
corda e l´arco,
e con men foga l´asta
il segno tocca,
sì scoppia´ io sottesso
grave carco,
fuori sgorgando lagrime
e sospiri,
e la voce allentò per
lo suo varco.
Ond´ ella a me:
"Per entro i mie´ disiri,
che ti menavano ad amar
lo bene
di là dal qual non è a
che s´aspiri,
quai fossi attraversati
o quai catene
trovasti, per che del
passare innanzi
dovessiti così spogliar
la spene?
E quali agevolezze o
quali avanzi
ne la fronte de li
altri si mostraro,
per che dovessi lor
passeggiare anzi?".
Dopo la tratta d´un
sospiro amaro,
a pena ebbi la voce che
rispuose,
e le labbra a fatica la
formaro.
Piangendo dissi:
"Le presenti cose
col falso lor piacer
volser miei passi,
tosto che ´l vostro
viso si nascose".
Ed ella: "Se
tacessi o se negassi
ciò che confessi, non
fora men nota
la colpa tua: da tal
giudice sassi!
Ma quando scoppia de la
propria gota
l´accusa del peccato,
in nostra corte
rivolge sé contra ´l
taglio la rota.
Tuttavia, perché mo
vergogna porte
del tuo errore, e perché
altra volta,
udendo le serene, sie
più forte,
pon giù il seme del
piangere e ascolta:
sì udirai come in
contraria parte
mover dovieti mia carne
sepolta.
Mai non t´appresentò
natura o arte
piacer, quanto le belle
membra in ch´io
rinchiusa fui, e che so´
´n terra sparte;
e se ´l sommo piacer sì
ti fallio
per la mia morte, qual
cosa mortale
dovea poi trarre te nel
suo disio?
Ben ti dovevi, per lo
primo strale
de le cose fallaci,
levar suso
di retro a me che non
era più tale.
Non ti dovea gravar le
penne in giuso,
ad aspettar più colpo,
o pargoletta
o altra novità con sì
breve uso.
Novo augelletto due o
tre aspetta;
ma dinanzi da li occhi
d´i pennuti
rete si spiega indarno
o si saetta".
Quali fanciulli, vergognando,
muti
con li occhi a terra
stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e
ripentuti,
tal mi stav´ io; ed
ella disse: "Quando
per udir se´ dolente,
alza la barba,
e prenderai più doglia
riguardando".
Con men di resistenza
si dibarba
robusto cerro, o vero
al nostral vento
o vero a quel de la
terra di Iarba,
ch´io non levai al suo
comando il mento;
e quando per la barba
il viso chiese,
ben conobbi il velen de
l´argomento.
E come la mia faccia si
distese,
posarsi quelle prime
creature
da loro aspersïon l´occhio
comprese;
e le mie luci, ancor
poco sicure,
vider Beatrice volta in
su la fiera
ch´è sola una persona
in due nature.
Sotto ´l suo velo e
oltre la rivera
vincer pariemi più sé
stessa antica,
vincer che l´altre qui,
quand´ ella c´era.
Di penter sì mi punse
ivi l´ortica,
che di tutte altre cose
qual mi torse
più nel suo amor, più
mi si fé nemica.
Tanta riconoscenza il
cor mi morse,
ch´io caddi vinto; e
quale allora femmi,
salsi colei che la
cagion mi porse.
Poi, quando il cor virtù
di fuor rendemmi,
la donna ch´io avea
trovata sola
sopra me vidi, e dicea:
"Tiemmi, tiemmi!".
Tratto m´avea nel fiume
infin la gola,
e tirandosi me dietro
sen giva
sovresso l´acqua lieve
come scola.
Quando fui presso a la
beata riva,
`Asperges me´
sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar,
non ch´io lo scriva.
La bella donna ne le
braccia aprissi;
abbracciommi la testa e
mi sommerse
ove convenne ch´io l´acqua
inghiottissi.
Indi mi tolse, e
bagnato m´offerse
dentro a la danza de le
quattro belle;
e ciascuna del braccio
mi coperse.
"Noi siam qui
ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice
discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei
per sue ancelle.
Merrenti a li occhi
suoi; ma nel giocondo
lume ch´è dentro
aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran
più profondo".
Così cantando
cominciaro; e poi
al petto del grifon
seco menarmi,
ove Beatrice stava
volta a noi.
Disser: "Fa che le
viste non risparmi;
posto t´avem dinanzi a
li smeraldi
ond´ Amor già ti trasse
le sue armi".
Mille disiri più che
fiamma caldi
strinsermi li occhi a
li occhi rilucenti,
che pur sopra ´l
grifone stavan saldi.
Come in lo specchio il
sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro
vi raggiava,
or con altri, or con
altri reggimenti.
Pensa, lettor, s´io mi
maravigliava,
quando vedea la cosa in
sé star queta,
e ne l´idolo suo si
trasmutava.
Mentre che piena di
stupore e lieta
l´anima mia gustava di
quel cibo
che, saziando di sé, di
sé asseta,
sé dimostrando di più
alto tribo
ne li atti, l´altre tre
si fero avanti,
danzando al loro
angelico caribo.
"Volgi, Beatrice,
volgi li occhi santi",
era la sua canzone,
"al tuo fedele
che, per vederti, ha
mossi passi tanti!
Per grazia fa noi
grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì
che discerna
la seconda bellezza che
tu cele".
O isplendor di viva
luce etterna,
chi palido si fece
sotto l´ombra
sì di Parnaso, o bevve
in sua cisterna,
che non paresse aver la
mente ingombra,
tentando a render te
qual tu paresti
là dove armonizzando il
ciel t´adombra,
quando ne l´aere aperto
ti solvesti?
Tant´ eran li occhi
miei fissi e attenti
a disbramarsi la
decenne sete,
che li altri sensi m´eran
tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi
avien parete
di non caler, così lo
santo riso
a sé traéli con l´antica
rete;
quando per forza mi fu
vòlto il viso
ver´ la sinistra mia da
quelle dee,
perch´ io udi´ da loro
un "Troppo fiso!";
e la disposizion ch´a
veder èe
ne li occhi pur testé
dal sol percossi,
sanza la vista alquanto
esser mi fée.
Ma poi ch´al poco il
viso riformossi
(e dico `al
poco´ per rispetto al molto
sensibile onde a forza
mi rimossi),
vidi ´n sul braccio
destro esser rivolto
lo glorïoso essercito,
e tornarsi
col sole e con le sette
fiamme al volto.
Come sotto li scudi per
salvarsi
volgesi schiera, e sé
gira col segno,
prima che possa tutta
in sé mutarsi;
quella milizia del
celeste regno
che procedeva, tutta
trapassonne
pria che piegasse il
carro il primo legno.
Indi a le rote si
tornar le donne,
e ´l grifon mosse il
benedetto carco
sì, che però nulla
penna crollonne.
La bella donna che mi
trasse al varco
e Stazio e io
seguitavam la rota
che fé l´orbita sua con
minore arco.
Sì passeggiando l´alta
selva vòta,
colpa di quella ch´al
serpente crese,
temprava i passi un´angelica
nota.
Forse in tre voli tanto
spazio prese
disfrenata saetta,
quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice
scese.
Io senti´ mormorare a
tutti "Adamo";
poi cerchiaro una
pianta dispogliata
di foglie e d´altra
fronda in ciascun ramo.
La coma sua, che tanto
si dilata
più quanto più è sù,
fora da l´Indi
ne´ boschi lor per
altezza ammirata.
"Beato se´,
grifon, che non discindi
col becco d´esto legno
dolce al gusto,
poscia che mal si torce
il ventre quindi".
Così dintorno a l´albero
robusto
gridaron li altri; e l´animal
binato:
"Sì si conserva il
seme d´ogne giusto".
E vòlto al temo ch´elli
avea tirato,
trasselo al piè de la
vedova frasca,
e quel di lei a lei
lasciò legato.
Come le nostre piante,
quando casca
giù la gran luce
mischiata con quella
che raggia dietro a la
celeste lasca,
turgide fansi, e poi si
rinovella
di suo color ciascuna,
pria che ´l sole
giunga li suoi corsier
sotto altra stella;
men che di rose e più
che di vïole
colore aprendo, s´innovò
la pianta,
che prima avea le
ramora sì sole.
Io non lo ´ntesi, né
qui non si canta
l´inno che quella gente
allor cantaro,
né la nota soffersi
tutta quanta.
S´io potessi ritrar
come assonnaro
li occhi spietati
udendo di Siringa,
li occhi a cui pur
vegghiar costò sì caro;
come pintor che con
essempro pinga,
disegnerei com´ io m´addormentai;
ma qual vuol sia che l´assonnar
ben finga.
Però trascorro a quando
mi svegliai,
e dico ch´un splendor
mi squarciò ´l velo
del sonno, e un
chiamar: "Surgi: che fai?".
Quali a veder de´
fioretti del melo
che del suo pome li
angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel
cielo,
Pietro e Giovanni e
Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la
parola
da la qual furon
maggior sonni rotti,
e videro scemata loro
scuola
così di Moïsè come d´Elia,
e al maestro suo
cangiata stola;
tal torna´ io, e vidi
quella pia
sovra me starsi che
conducitrice
fu de´ miei passi lungo
´l fiume pria.
E tutto in dubbio
dissi: "Ov´ è Beatrice?".
Ond´ ella: "Vedi
lei sotto la fronda
nova sedere in su la
sua radice.
Vedi la compagnia che
la circonda:
li altri dopo ´l grifon
sen vanno suso
con più dolce canzone e
più profonda".
E se più fu lo suo
parlar diffuso,
non so, però che già ne
li occhi m´era
quella ch´ad altro
intender m´avea chiuso.
Sola sedeasi in su la
terra vera,
come guardia lasciata lì
del plaustro
che legar vidi a la
biforme fera.
In cerchio le facevan
di sé claustro
le sette ninfe, con
quei lumi in mano
che son sicuri d´Aquilone
e d´Austro.
"Qui sarai tu poco
tempo silvano;
e sarai meco sanza fine
cive
di quella Roma onde
Cristo è romano.
Però, in pro del mondo
che mal vive,
al carro tieni or li
occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che
tu scrive".
Così Beatrice; e io,
che tutto ai piedi
d´i suoi comandamenti
era divoto,
la mente e li occhi ov´
ella volle diedi.
Non scese mai con sì
veloce moto
foco di spessa nube,
quando piove
da quel confine che più
va remoto,
com´ io vidi calar l´uccel
di Giove
per l´alber giù,
rompendo de la scorza,
non che d´i fiori e de
le foglie nove;
e ferì ´l carro di
tutta sua forza;
ond´ el piegò come nave
in fortuna,
vinta da l´onda, or da
poggia, or da orza.
Poscia vidi avventarsi
ne la cuna
del trïunfal veiculo
una volpe
che d´ogne pasto buon
parea digiuna;
ma, riprendendo lei di
laide colpe,
la donna mia la volse
in tanta futa
quanto sofferser l´ossa
sanza polpe.
Poscia per indi ond´
era pria venuta,
l´aguglia vidi scender
giù ne l´arca
del carro e lasciar lei
di sé pennuta;
e qual esce di cuor che
si rammarca,
tal voce uscì del cielo
e cotal disse:
"O navicella mia,
com´ mal se´ carca!".
Poi parve a me che la terra
s´aprisse
tr´ambo le ruote, e
vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la
coda fisse;
e come vespa che
ritragge l´ago,
a sé traendo la coda
maligna,
trasse del fondo, e
gissen vago vago.
Quel che rimase, come
da gramigna
vivace terra, da la
piuma, offerta
forse con intenzion
sana e benigna,
si ricoperse, e funne
ricoperta
e l´una e l´altra rota
e ´l temo, in tanto
che più tiene un sospir
la bocca aperta.
Trasformato così ´l
dificio santo
mise fuor teste per le
parti sue,
tre sovra ´l temo e una
in ciascun canto.
Le prime eran cornute
come bue,
ma le quattro un sol
corno avean per fronte:
simile mostro visto
ancor non fue.
Sicura, quasi rocca in
alto monte,
seder sovresso una
puttana sciolta
m´apparve con le ciglia
intorno pronte;
e come perché non li
fosse tolta,
vidi di costa a lei
dritto un gigante;
e basciavansi insieme
alcuna volta.
Ma perché l´occhio
cupido e vagante
a me rivolse, quel
feroce drudo
la flagellò dal capo
infin le piante;
poi, di sospetto pieno
e d´ira crudo,
disciolse il mostro, e
trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi
fece scudo
a la puttana e a la
nova belva.
`Deus,
venerunt gentes´, alternando
or tre or quattro dolce
salmodia,
le donne incominciaro,
e lagrimando;
e Bëatrice, sospirosa e
pia,
quelle ascoltava sì
fatta, che poco
più a la croce si cambiò
Maria.
Ma poi che l´altre
vergini dier loco
a lei di dir, levata
dritta in pè,
rispuose, colorata come
foco:
`Modicum, et
non videbitis me;
et iterum, sorelle mie
dilette,
modicum, et vos
videbitis me´.
Poi le si mise innanzi
tutte e sette,
e dopo sé, solo
accennando, mosse
me e la donna e ´l
savio che ristette.
Così sen giva; e non
credo che fosse
lo decimo suo passo in
terra posto,
quando con li occhi li
occhi mi percosse;
e con tranquillo
aspetto "Vien più tosto",
mi disse, "tanto
che, s´io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie
ben disposto".
Sì com´ io fui, com´ io
dovëa, seco,
dissemi: "Frate,
perché non t´attenti
a domandarmi omai
venendo meco?".
Come a color che troppo
reverenti
dinanzi a suo maggior
parlando sono,
che non traggon la voce
viva ai denti,
avvenne a me, che sanza
intero suono
incominciai:
"Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch´ad
essa è buono".
Ed ella a me: "Da
tema e da vergogna
voglio che tu omai ti
disviluppe,
sì che non parli più
com´ om che sogna.
Sappi che ´l vaso che ´l
serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n´ha
colpa, creda
che vendetta di Dio non
teme suppe.
Non sarà tutto tempo
sanza reda
l´aguglia che lasciò le
penne al carro,
per che divenne mostro
e poscia preda;
ch´io veggio
certamente, e però il narro,
a darne tempo già
stelle propinque,
secure d´ogn´ intoppo e
d´ogne sbarro,
nel quale un
cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà
la fuia
con quel gigante che
con lei delinque.
E forse che la mia
narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men
ti persuade,
perch´ a lor modo lo ´ntelletto
attuia;
ma tosto fier li fatti
le Naiade,
che solveranno questo
enigma forte
sanza danno di pecore o
di biade.
Tu nota; e sì come da
me son porte,
così queste parole
segna a´ vivi
del viver ch´è un
correre a la morte.
E aggi a mente, quando
tu le scrivi,
di non celar qual hai
vista la pianta
ch´è or due volte
dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o
quella schianta,
con bestemmia di fatto
offende a Dio,
che solo a l´uso suo la
creò santa.
Per morder quella, in
pena e in disio
cinquemilia anni e più
l´anima prima
bramò colui che ´l
morso in sé punio.
Dorme lo ´ngegno tuo,
se non estima
per singular cagione
esser eccelsa
lei tanto e sì travolta
ne la cima.
E se stati non fossero
acqua d´Elsa
li pensier vani intorno
a la tua mente,
e ´l piacer loro un
Piramo a la gelsa,
per tante circostanze
solamente
la giustizia di Dio, ne
l´interdetto,
conosceresti a l´arbor
moralmente.
Ma perch´ io veggio te
ne lo ´ntelletto
fatto di pietra e,
impetrato, tinto,
sì che t´abbaglia il
lume del mio detto,
voglio anco, e se non
scritto, almen dipinto,
che ´l te ne porti
dentro a te per quello
che si reca il bordon
di palma cinto".
E io: "Sì come
cera da suggello,
che la figura impressa
non trasmuta,
segnato è or da voi lo
mio cervello.
Ma perché tanto sovra
mia veduta
vostra parola disïata
vola,
che più la perde quanto
più s´aiuta?".
"Perché
conoschi", disse, "quella scuola
c´hai seguitata, e
veggi sua dottrina
come può seguitar la
mia parola;
e veggi vostra via da
la divina
distar cotanto, quanto
si discorda
da terra il ciel che più
alto festina".
Ond´ io rispuosi lei:
"Non mi ricorda
ch´i´ stranïasse me già
mai da voi,
né honne coscïenza che
rimorda".
"E se tu ricordar
non te ne puoi",
sorridendo rispuose,
"or ti rammenta
come bevesti di Letè
ancoi;
e se dal fummo foco s´argomenta,
cotesta oblivïon chiaro
conchiude
colpa ne la tua voglia
altrove attenta.
Veramente oramai
saranno nude
le mie parole, quanto
converrassi
quelle scovrire a la
tua vista rude".
E più corusco e con più
lenti passi
teneva il sole il
cerchio di merigge,
che qua e là, come li
aspetti, fassi,
quando s´affisser, sì
come s´affigge
chi va dinanzi a gente
per iscorta
se trova novitate o sue
vestigge,
le sette donne al fin d´un´ombra
smorta,
qual sotto foglie verdi
e rami nigri
sovra suoi freddi rivi
l´alpe porta.
Dinanzi ad esse ëufratès
e Tigri
veder mi parve uscir d´una
fontana,
e, quasi amici,
dipartirsi pigri.
"O luce, o gloria
de la gente umana,
che acqua è questa che
qui si dispiega
da un principio e sé da
sé lontana?".
Per cotal priego detto
mi fu: "Priega
Matelda che ´l ti
dica". E qui rispuose,
come fa chi da colpa si
dislega,
la bella donna:
"Questo e altre cose
dette li son per me; e
son sicura
che l´acqua di Letè non
gliel nascose".
E Bëatrice: "Forse
maggior cura,
che spesse volte la
memoria priva,
fatt´ ha la mente sua
ne li occhi oscura.
Ma vedi Eünoè che là
diriva:
menalo ad esso, e come
tu se´ usa,
la tramortita sua virtù
ravviva".
Come anima gentil, che
non fa scusa,
ma fa sua voglia de la
voglia altrui
tosto che è per segno
fuor dischiusa;
così, poi che da essa
preso fui,
la bella donna mossesi,
e a Stazio
donnescamente disse:
"Vien con lui".
S´io avessi, lettor, più
lungo spazio
da scrivere, i´ pur
cantere´ in parte
lo dolce ber che mai
non m´avria sazio;
ma perché piene son
tutte le carte
ordite a questa cantica
seconda,
non mi lascia più ir lo
fren de l´arte.
Io ritornai da la
santissima onda
rifatto sì come piante
novelle
rinovellate di novella
fronda,
puro e disposto a
salire a le stelle.
La gloria di colui che
tutto move
per l´universo penetra,
e risplende
in una parte più e meno
altrove.
Nel ciel che più de la
sua luce prende
fu´ io, e vidi cose che
ridire
né sa né può chi di là
sù discende;
perché appressando sé
al suo disire,
nostro intelletto si
profonda tanto,
che dietro la memoria
non può ire.
Veramente quant´ io del
regno santo
ne la mia mente potei
far tesoro,
sarà ora materia del
mio canto.
O buono Appollo, a l´ultimo
lavoro
fammi del tuo valor sì
fatto vaso,
come dimandi a dar l´amato
alloro.
Infino a qui l´un giogo
di Parnaso
assai mi fu; ma or con
amendue
m´è uopo intrar ne l´aringo
rimaso.
Entra nel petto mio, e
spira tue
sì come quando Marsïa
traesti
de la vagina de le
membra sue.
O divina virtù, se mi
ti presti
tanto che l´ombra del
beato regno
segnata nel mio capo io
manifesti,
vedra´mi al piè del tuo
diletto legno
venire, e coronarmi de
le foglie
che la materia e tu mi
farai degno.
Sì rade volte, padre,
se ne coglie
per trïunfare o cesare
o poeta,
colpa e vergogna de l´umane
voglie,
che parturir letizia in
su la lieta
delfica deïtà dovria la
fronda
peneia, quando alcun di
sé asseta.
Poca favilla gran
fiamma seconda:
forse di retro a me con
miglior voci
si pregherà perché
Cirra risponda.
Surge ai mortali per
diverse foci
la lucerna del mondo;
ma da quella
che quattro cerchi
giugne con tre croci,
con miglior corso e con
migliore stella
esce congiunta, e la
mondana cera
più a suo modo tempera
e suggella.
Fatto avea di là mane e
di qua sera
tal foce, e quasi tutto
era là bianco
quello emisperio, e l´altra
parte nera,
quando Beatrice in sul
sinistro fianco
vidi rivolta e
riguardar nel sole:
aguglia sì non li s´affisse
unquanco.
E sì come secondo
raggio suole
uscir del primo e
risalire in suso,
pur come pelegrin che
tornar vuole,
così de l´atto suo, per
li occhi infuso
ne l´imagine mia, il mio
si fece,
e fissi li occhi al
sole oltre nostr´ uso.
Molto è licito là, che
qui non lece
a le nostre virtù, mercé
del loco
fatto per proprio de l´umana
spece.
Io nol soffersi molto,
né sì poco,
ch´io nol vedessi
sfavillar dintorno,
com´ ferro che
bogliente esce del foco;
e di sùbito parve
giorno a giorno
essere aggiunto, come
quei che puote
avesse il ciel d´un
altro sole addorno.
Beatrice tutta ne l´etterne
rote
fissa con li occhi
stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù
rimote.
Nel suo aspetto tal
dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel
gustar de l´erba
che ´l fé consorto in
mar de li altri dèi.
Trasumanar significar
per verba
non si poria; però l´essemplo
basti
a cui esperïenza grazia
serba.
S´i´ era sol di me quel
che creasti
novellamente, amor che ´l
ciel governi,
tu ´l sai, che col tuo
lume mi levasti.
Quando la rota che tu
sempiterni
desiderato, a sé mi
fece atteso
con l´armonia che
temperi e discerni,
parvemi tanto allor del
cielo acceso
de la fiamma del sol,
che pioggia o fiume
lago non fece alcun
tanto disteso.
La novità del suono e ´l
grande lume
di lor cagion m´accesero
un disio
mai non sentito di
cotanto acume.
Ond´ ella, che vedea me
sì com´ io,
a quïetarmi l´animo
commosso,
pria ch´io a dimandar,
la bocca aprio
e cominciò: "Tu
stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì
che non vedi
ciò che vedresti se l´avessi
scosso.
Tu non se´ in terra, sì
come tu credi;
ma folgore, fuggendo il
proprio sito,
non corse come tu ch´ad
esso riedi".
S´io fui del primo
dubbio disvestito
per le sorrise
parolette brevi,
dentro ad un nuovo più
fu´ inretito
e dissi: "Già
contento requïevi
di grande ammirazion;
ma ora ammiro
com´ io trascenda
questi corpi levi".
Ond´ ella, appresso d´un
pïo sospiro,
li occhi drizzò ver´ me
con quel sembiante
che madre fa sovra
figlio deliro,
e cominciò: "Le
cose tutte quante
hanno ordine tra loro,
e questo è forma
che l´universo a Dio fa
simigliante.
Qui veggion l´alte
creature l´orma
de l´etterno valore, il
qual è fine
al quale è fatta la
toccata norma.
Ne l´ordine ch´io dico
sono accline
tutte nature, per
diverse sorti,
più al principio loro e
men vicine;
onde si muovono a
diversi porti
per lo gran mar de l´essere,
e ciascuna
con istinto a lei dato
che la porti.
Questi ne porta il foco
inver´ la luna;
questi ne´ cor mortali è
permotore;
questi la terra in sé
stringe e aduna;
né pur le creature che
son fore
d´intelligenza quest´
arco saetta,
ma quelle c´hanno
intelletto e amore.
La provedenza, che
cotanto assetta,
del suo lume fa ´l ciel
sempre quïeto
nel qual si volge quel
c´ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito
decreto,
cen porta la virtù di
quella corda
che ciò che scocca
drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma
non s´accorda
molte fïate a l´intenzion
de l´arte,
perch´ a risponder la
materia è sorda,
così da questo corso si
diparte
talor la creatura, c´ha
podere
di piegar, così pinta,
in altra parte;
e sì come veder si può
cadere
foco di nube, sì l´impeto
primo
l´atterra torto da
falso piacere.
Non dei più ammirar, se
bene stimo,
lo tuo salir, se non
come d´un rivo
se d´alto monte scende
giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in
te se, privo
d´impedimento, giù ti
fossi assiso,
com´ a terra quïete in
foco vivo".
Quinci rivolse inver´
lo cielo il viso.
O voi che siete in
piccioletta barca,
desiderosi d´ascoltar,
seguiti
dietro al mio legno che
cantando varca,
tornate a riveder li
vostri liti:
non vi mettete in pelago,
ché forse,
perdendo me, rimarreste
smarriti.
L´acqua ch´io prendo già
mai non si corse;
Minerva spira, e
conducemi Appollo,
e nove Muse mi
dimostran l´Orse.
Voialtri pochi che
drizzaste il collo
per tempo al pan de li
angeli, del quale
vivesi qui ma non sen
vien satollo,
metter potete ben per l´alto
sale
vostro navigio,
servando mio solco
dinanzi a l´acqua che
ritorna equale.
Que´ glorïosi che
passaro al Colco
non s´ammiraron come
voi farete,
quando Iasón vider
fatto bifolco.
La concreata e perpetüa
sete
del deïforme regno cen
portava
veloci quasi come ´l
ciel vedete.
Beatrice in suso, e io
in lei guardava;
e forse in tanto in
quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si
dischiava,
giunto mi vidi ove
mirabil cosa
mi torse il viso a sé;
e però quella
cui non potea mia cura
essere ascosa,
volta ver´ me, sì lieta
come bella,
"Drizza la mente
in Dio grata", mi disse,
"che n´ha
congiunti con la prima stella".
Parev´ a me che nube ne
coprisse
lucida, spessa, solida e
pulita,
quasi adamante che lo
sol ferisse.
Per entro sé l´etterna
margarita
ne ricevette, com´
acqua recepe
raggio di luce
permanendo unita.
S´io era corpo, e qui
non si concepe
com´ una dimensione
altra patio,
ch´esser convien se
corpo in corpo repe,
accender ne dovria più
il disio
di veder quella essenza
in che si vede
come nostra natura e
Dio s´unio.
Lì si vedrà ciò che
tenem per fede,
non dimostrato, ma fia
per sé noto
a guisa del ver primo
che l´uom crede.
Io rispuosi: "Madonna,
sì devoto
com´ esser posso più,
ringrazio lui
lo qual dal mortal
mondo m´ha remoto.
Ma ditemi: che son li
segni bui
di questo corpo, che là
giuso in terra
fan di Cain
favoleggiare altrui?".
Ella sorrise alquanto,
e poi "S´elli erra
l´oppinïon", mi
disse, "d´i mortali
dove chiave di senso
non diserra,
certo non ti dovrien
punger li strali
d´ammirazione omai, poi
dietro ai sensi
vedi che la ragione ha
corte l´ali.
Ma dimmi quel che tu da
te ne pensi".
E io: "Ciò che n´appar
qua sù diverso
credo che fanno i corpi
rari e densi".
Ed ella: "Certo
assai vedrai sommerso
nel falso il creder
tuo, se bene ascolti
l´argomentar ch´io li
farò avverso.
La spera ottava vi
dimostra molti
lumi, li quali e nel
quale e nel quanto
notar si posson di
diversi volti.
Se raro e denso ciò
facesser tanto,
una sola virtù sarebbe
in tutti,
più e men distributa e
altrettanto.
Virtù diverse esser
convegnon frutti
di princìpi formali, e
quei, for ch´uno,
seguiterieno a tua
ragion distrutti.
Ancor, se raro fosse di
quel bruno
cagion che tu dimandi,
o d´oltre in parte
fora di sua materia sì
digiuno
esto pianeto, o, sì
come comparte
lo grasso e ´l magro un
corpo, così questo
nel suo volume
cangerebbe carte.
Se ´l primo fosse, fora
manifesto
ne l´eclissi del sol,
per trasparere
lo lume come in altro
raro ingesto.
Questo non è: però è da
vedere
de l´altro; e s´elli
avvien ch´io l´altro cassi,
falsificato fia lo tuo
parere.
S´elli è che questo
raro non trapassi,
esser conviene un
termine da onde
lo suo contrario più
passar non lassi;
e indi l´altrui raggio
si rifonde
così come color torna
per vetro
lo qual di retro a sé
piombo nasconde.
Or dirai tu ch´el si
dimostra tetro
ivi lo raggio più che
in altre parti,
per esser lì refratto
più a retro.
Da questa instanza può
deliberarti
esperïenza, se già mai
la provi,
ch´esser suol fonte ai
rivi di vostr´ arti.
Tre specchi prenderai;
e i due rimovi
da te d´un modo, e l´altro,
più rimosso,
tr´ambo li primi li
occhi tuoi ritrovi.
Rivolto ad essi, fa che
dopo il dosso
ti stea un lume che i
tre specchi accenda
e torni a te da tutti
ripercosso.
Ben che nel quanto
tanto non si stenda
la vista più lontana, lì
vedrai
come convien ch´igualmente
risplenda.
Or, come ai colpi de li
caldi rai
de la neve riman nudo
il suggetto
e dal colore e dal
freddo primai,
così rimaso te ne l´intelletto
voglio informar di luce
sì vivace,
che ti tremolerà nel
suo aspetto.
Dentro dal ciel de la
divina pace
si gira un corpo ne la
cui virtute
l´esser di tutto suo
contento giace.
Lo ciel seguente, c´ha
tante vedute,
quell´ esser parte per
diverse essenze,
da lui distratte e da
lui contenute.
Li altri giron per
varie differenze
le distinzion che
dentro da sé hanno
dispongono a lor fini e
lor semenze.
Questi organi del mondo
così vanno,
come tu vedi omai, di
grado in grado,
che di sù prendono e di
sotto fanno.
Riguarda bene omai sì
com´ io vado
per questo loco al vero
che disiri,
sì che poi sappi sol
tener lo guado.
Lo moto e la virtù d´i
santi giri,
come dal fabbro l´arte
del martello,
da´ beati motor convien
che spiri;
e ´l ciel cui tanti
lumi fanno bello,
de la mente profonda
che lui volve
prende l´image e
fassene suggello.
E come l´alma dentro a
vostra polve
per differenti membra e
conformate
a diverse potenze si
risolve,
così l´intelligenza sua
bontate
multiplicata per le
stelle spiega,
girando sé sovra sua
unitate.
Virtù diversa fa
diversa lega
col prezïoso corpo ch´ella
avviva,
nel qual, sì come vita
in voi, si lega.
Per la natura lieta
onde deriva,
la virtù mista per lo
corpo luce
come letizia per
pupilla viva.
Da essa vien ciò che da
luce a luce
par differente, non da
denso e raro;
essa è formal principio
che produce,
conforme a sua bontà,
lo turbo e ´l chiaro".
Quel sol che pria d´amor
mi scaldò ´l petto,
di bella verità m´avea
scoverto,
provando e riprovando,
il dolce aspetto;
e io, per confessar
corretto e certo
me stesso, tanto quanto
si convenne
leva´ il capo a
proferer più erto;
ma visïone apparve che
ritenne
a sé me tanto stretto,
per vedersi,
che di mia confession
non mi sovvenne.
Quali per vetri
trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide
e tranquille,
non sì profonde che i
fondi sien persi,
tornan d´i nostri visi
le postille
debili sì, che perla in
bianca fronte
non vien men forte a le
nostre pupille;
tali vid´ io più facce
a parlar pronte;
per ch´io dentro a l´error
contrario corsi
a quel ch´accese amor
tra l´omo e ´l fonte.
Sùbito sì com´ io di
lor m´accorsi,
quelle stimando
specchiati sembianti,
per veder di cui
fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e
ritorsili avanti
dritti nel lume de la
dolce guida,
che, sorridendo, ardea
ne li occhi santi.
"Non ti
maravigliar perch´ io sorrida",
mi disse,
"appresso il tuo püeril coto,
poi sopra ´l vero ancor
lo piè non fida,
ma te rivolve, come
suole, a vòto:
vere sustanze son ciò
che tu vedi,
qui rilegate per manco
di voto.
Però parla con esse e
odi e credi;
ché la verace luce che
le appaga
da sé non lascia lor
torcer li piedi".
E io a l´ombra che
parea più vaga
di ragionar, drizza´mi,
e cominciai,
quasi com´ uom cui
troppa voglia smaga:
"O ben creato
spirito, che a´ rai
di vita etterna la
dolcezza senti
che, non gustata, non s´intende
mai,
grazïoso mi fia se mi
contenti
del nome tuo e de la
vostra sorte".
Ond´ ella, pronta e con
occhi ridenti:
"La nostra carità
non serra porte
a giusta voglia, se non
come quella
che vuol simile a sé
tutta sua corte.
I´ fui nel mondo
vergine sorella;
e se la mente tua ben sé
riguarda,
non mi ti celerà l´esser
più bella,
ma riconoscerai ch´i´
son Piccarda,
che, posta qui con
questi altri beati,
beata sono in la spera
più tarda.
Li nostri affetti, che
solo infiammati
son nel piacer de lo
Spirito Santo,
letizian del suo ordine
formati.
E questa sorte che par
giù cotanto,
però n´è data, perché
fuor negletti
li nostri voti, e vòti
in alcun canto".
Ond´ io a lei: "Ne´
mirabili aspetti
vostri risplende non so
che divino
che vi trasmuta da´
primi concetti:
però non fui a
rimembrar festino;
ma or m´aiuta ciò che
tu mi dici,
sì che raffigurar m´è
più latino.
Ma dimmi: voi che siete
qui felici,
disiderate voi più alto
loco
per più vedere e per più
farvi amici?".
Con quelle altr´ ombre
pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose
tanto lieta,
ch´arder parea d´amor
nel primo foco:
"Frate, la nostra
volontà quïeta
virtù di carità, che fa
volerne
sol quel ch´avemo, e d´altro
non ci asseta.
Se disïassimo esser più
superne,
foran discordi li
nostri disiri
dal voler di colui che
qui ne cerne;
che vedrai non capere
in questi giri,
s´essere in carità è
qui necesse,
e se la sua natura ben
rimiri.
Anzi è formale ad esto
beato esse
tenersi dentro a la
divina voglia,
per ch´una fansi nostre
voglie stesse;
sì che, come noi sem di
soglia in soglia
per questo regno, a
tutto il regno piace
com´ a lo re che ´n suo
voler ne ´nvoglia.
E ´n la sua volontade è
nostra pace:
ell´ è quel mare al
qual tutto si move
ciò ch´ella crïa o che
natura face".
Chiaro mi fu allor come
ogne dove
in cielo è paradiso,
etsi la grazia
del sommo ben d´un modo
non vi piove.
Ma sì com´ elli avvien,
s´un cibo sazia
e d´un altro rimane
ancor la gola,
che quel si chere e di
quel si ringrazia,
così fec´ io con atto e
con parola,
per apprender da lei
qual fu la tela
onde non trasse infino
a co la spuola.
"Perfetta vita e
alto merto inciela
donna più sù", mi
disse, "a la cui norma
nel vostro mondo giù si
veste e vela,
perché fino al morir si
vegghi e dorma
con quello sposo ch´ogne
voto accetta
che caritate a suo
piacer conforma.
Dal mondo, per
seguirla, giovinetta
fuggi´mi, e nel suo
abito mi chiusi
e promisi la via de la
sua setta.
Uomini poi, a mal più
ch´a bene usi,
fuor mi rapiron de la
dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi
mia vita fusi.
E quest´ altro splendor
che ti si mostra
da la mia destra parte
e che s´accende
di tutto il lume de la
spera nostra,
ciò ch´io dico di me,
di sé intende;
sorella fu, e così le
fu tolta
di capo l´ombra de le
sacre bende.
Ma poi che pur al mondo
fu rivolta
contra suo grado e
contra buona usanza,
non fu dal vel del cor
già mai disciolta.
Quest´ è la luce de la
gran Costanza
che del secondo vento
di Soave
generò ´l terzo e l´ultima
possanza".
Così parlommi, e poi
cominciò ` Ave,
Maria´ cantando, e
cantando vanio
come per acqua cupa
cosa grave.
La vista mia, che tanto
lei seguio
quanto possibil fu, poi
che la perse,
volsesi al segno di
maggior disio,
e a Beatrice tutta si
converse;
ma quella folgorò nel mïo
sguardo
sì che da prima il viso
non sofferse;
e ciò mi fece a
dimandar più tardo.
Intra due cibi, distanti
e moventi
d´un modo, prima si
morria di fame,
che liber´ omo l´un
recasse ai denti;
sì si starebbe un agno
intra due brame
di fieri lupi,
igualmente temendo;
sì si starebbe un cane
intra due dame:
per che, s´i´ mi tacea,
me non riprendo,
da li miei dubbi d´un
modo sospinto,
poi ch´era necessario,
né commendo.
Io mi tacea, ma ´l mio
disir dipinto
m´era nel viso, e ´l
dimandar con ello,
più caldo assai che per
parlar distinto.
Fé sì Beatrice qual fé
Danïello,
Nabuccodonosor levando
d´ira,
che l´avea fatto
ingiustamente fello;
e disse: "Io
veggio ben come ti tira
uno e altro disio, sì
che tua cura
sé stessa lega sì che
fuor non spira.
Tu argomenti: "Se ´l
buon voler dura,
la vïolenza altrui per
qual ragione
di meritar mi scema la
misura?".
Ancor di dubitar ti dà
cagione
parer tornarsi l´anime
a le stelle,
secondo la sentenza di
Platone.
Queste son le question
che nel tuo velle
pontano igualmente; e
però pria
tratterò quella che più
ha di felle.
D´i Serafin colui che
più s´india,
Moïsè, Samuel, e quel
Giovanni
che prender vuoli, io
dico, non Maria,
non hanno in altro
cielo i loro scanni
che questi spirti che
mo t´appariro,
né hanno a l´esser lor
più o meno anni;
ma tutti fanno bello il
primo giro,
e differentemente han
dolce vita
per sentir più e men l´etterno
spiro.
Qui si mostraro, non
perché sortita
sia questa spera lor,
ma per far segno
de la celestïal c´ha
men salita.
Così parlar conviensi
al vostro ingegno,
però che solo da
sensato apprende
ciò che fa poscia d´intelletto
degno.
Per questo la Scrittura
condescende
a vostra facultate, e
piedi e mano
attribuisce a Dio e
altro intende;
e Santa Chiesa con
aspetto umano
Gabrïel e Michel vi
rappresenta,
e l´altro che Tobia
rifece sano.
Quel che Timeo de l´anime
argomenta
non è simile a ciò che
qui si vede,
però che, come dice,
par che senta.
Dice che l´alma a la
sua stella riede,
credendo quella quindi
esser decisa
quando natura per forma
la diede;
e forse sua sentenza è
d´altra guisa
che la voce non suona,
ed esser puote
con intenzion da non
esser derisa.
S´elli intende tornare
a queste ruote
l´onor de la influenza
e ´l biasmo, forse
in alcun vero suo arco
percuote.
Questo principio, male
inteso, torse
già tutto il mondo
quasi, sì che Giove,
Mercurio e Marte a
nominar trascorse.
L´altra dubitazion che
ti commove
ha men velen, però che
sua malizia
non ti poria menar da
me altrove.
Parere ingiusta la
nostra giustizia
ne li occhi d´i
mortali, è argomento
di fede e non d´eretica
nequizia.
Ma perché puote vostro
accorgimento
ben penetrare a questa
veritate,
come disiri, ti farò
contento.
Se vïolenza è quando
quel che pate
nïente conferisce a
quel che sforza,
non fuor quest´ alme
per essa scusate:
ché volontà, se non
vuol, non s´ammorza,
ma fa come natura face
in foco,
se mille volte vïolenza
il torza.
Per che, s´ella si
piega assai o poco,
segue la forza; e così
queste fero
possendo rifuggir nel
santo loco.
Se fosse stato lor
volere intero,
come tenne Lorenzo in
su la grada,
e fece Muzio a la sua
man severo,
così l´avria ripinte
per la strada
ond´ eran tratte, come
fuoro sciolte;
ma così salda voglia è
troppo rada.
E per queste parole, se
ricolte
l´hai come dei, è l´argomento
casso
che t´avria fatto noia
ancor più volte.
Ma or ti s´attraversa
un altro passo
dinanzi a li occhi, tal
che per te stesso
non usciresti: pria
saresti lasso.
Io t´ho per certo ne la
mente messo
ch´alma beata non poria
mentire,
però ch´è sempre al
primo vero appresso;
e poi potesti da
Piccarda udire
che l´affezion del vel
Costanza tenne;
sì ch´ella par qui meco
contradire.
Molte fïate già, frate,
addivenne
che, per fuggir
periglio, contra grato
si fé di quel che far
non si convenne;
come Almeone, che, di
ciò pregato
dal padre suo, la
propria madre spense,
per non perder pietà si
fé spietato.
A questo punto voglio
che tu pense
che la forza al voler
si mischia, e fanno
sì che scusar non si
posson l´offense.
Voglia assoluta non
consente al danno;
ma consentevi in tanto
in quanto teme,
se si ritrae, cadere in
più affanno.
Però, quando Piccarda
quello spreme,
de la voglia assoluta
intende, e io
de l´altra; sì che ver
diciamo insieme".
Cotal fu l´ondeggiar
del santo rio
ch´uscì del fonte ond´
ogne ver deriva;
tal puose in pace uno e
altro disio.
"O amanza del
primo amante, o diva",
diss´ io appresso,
"il cui parlar m´inonda
e scalda sì, che più e
più m´avviva,
non è l´affezion mia
tanto profonda,
che basti a render voi
grazia per grazia;
ma quei che vede e
puote a ciò risponda.
Io veggio ben che già
mai non si sazia
nostro intelletto, se ´l
ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun
vero si spazia.
Posasi in esso, come
fera in lustra,
tosto che giunto l´ha;
e giugner puollo:
se non, ciascun disio
sarebbe frustra.
Nasce per quello, a
guisa di rampollo,
a piè del vero il
dubbio; ed è natura
ch´al sommo pinge noi
di collo in collo.
Questo m´invita, questo
m´assicura
con reverenza, donna, a
dimandarvi
d´un´altra verità che m´è
oscura.
Io vo´ saper se l´uom
può sodisfarvi
ai voti manchi sì con
altri beni,
ch´a la vostra statera
non sien parvi".
Beatrice mi guardò con
li occhi pieni
di faville d´amor così
divini,
che, vinta, mia virtute
diè le reni,
e quasi mi perdei con
li occhi chini.
"S´io ti
fiammeggio nel caldo d´amore
di là dal modo che ´n
terra si vede,
sì che del viso tuo
vinco il valore,
non ti maravigliar, ché
ciò procede
da perfetto veder, che,
come apprende,
così nel bene appreso
move il piede.
Io veggio ben sì come
già resplende
ne l´intelletto tuo l´etterna
luce,
che, vista, sola e
sempre amore accende;
e s´altra cosa vostro
amor seduce,
non è se non di quella
alcun vestigio,
mal conosciuto, che
quivi traluce.
Tu vuo´ saper se con
altro servigio,
per manco voto, si può
render tanto
che l´anima sicuri di
letigio".
Sì cominciò Beatrice
questo canto;
e sì com´ uom che suo
parlar non spezza,
continüò così ´l
processo santo:
"Lo maggior don
che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la
sua bontate
più conformato, e quel
ch´e´ più apprezza,
fu de la volontà la
libertate;
di che le creature
intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e
son dotate.
Or ti parrà, se tu
quinci argomenti,
l´alto valor del voto,
s´è sì fatto
che Dio consenta quando
tu consenti;
ché, nel fermar tra Dio
e l´omo il patto,
vittima fassi di questo
tesoro,
tal quale io dico; e
fassi col suo atto.
Dunque che render
puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel
c´hai offerto,
di maltolletto vuo´ far
buon lavoro.
Tu se´ omai del maggior
punto certo;
ma perché Santa Chiesa
in ciò dispensa,
che par contra lo ver
ch´i´ t´ho scoverto,
convienti ancor sedere
un poco a mensa,
però che ´l cibo rigido
c´hai preso,
richiede ancora aiuto a
tua dispensa.
Apri la mente a quel ch´io
ti paleso
e fermalvi entro; ché
non fa scïenza,
sanza lo ritenere,
avere inteso.
Due cose si convegnono
a l´essenza
di questo sacrificio: l´una
è quella
di che si fa; l´altr´ è
la convenenza.
Quest´ ultima già mai
non si cancella
se non servata; e
intorno di lei
sì preciso di sopra si
favella:
però necessitato fu a
li Ebrei
pur l´offerere, ancor
ch´alcuna offerta
sì permutasse, come
saver dei.
L´altra, che per
materia t´è aperta,
puote ben esser tal,
che non si falla
se con altra materia si
converta.
Ma non trasmuti carco a
la sua spalla
per suo arbitrio alcun,
sanza la volta
e de la chiave bianca e
de la gialla;
e ogne permutanza credi
stolta,
se la cosa dimessa in
la sorpresa
come ´l quattro nel sei
non è raccolta.
Però qualunque cosa
tanto pesa
per suo valor che
tragga ogne bilancia,
sodisfar non si può con
altra spesa.
Non prendan li mortali
il voto a ciancia;
siate fedeli, e a ciò
far non bieci,
come Ieptè a la sua
prima mancia;
cui più si convenia
dicer `Mal feci´,
che, servando, far
peggio; e così stolto
ritrovar puoi il gran
duca de´ Greci,
onde pianse Efigènia il
suo bel volto,
e fé pianger di sé i
folli e i savi
ch´udir parlar di così
fatto cólto.
Siate, Cristiani, a
muovervi più gravi:
non siate come penna ad
ogne vento,
e non crediate ch´ogne
acqua vi lavi.
Avete il novo e ´l
vecchio Testamento,
e ´l pastor de la
Chiesa che vi guida;
questo vi basti a
vostro salvamento.
Se mala cupidigia altro
vi grida,
uomini siate, e non
pecore matte,
sì che ´l Giudeo di voi
tra voi non rida!
Non fate com´ agnel che
lascia il latte
de la sua madre, e
semplice e lascivo
seco medesmo a suo
piacer combatte!".
Così Beatrice a me com´
ïo scrivo;
poi si rivolse tutta
disïante
a quella parte ove ´l
mondo è più vivo.
Lo suo tacere e ´l
trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio
cupido ingegno,
che già nuove questioni
avea davante;
e sì come saetta che
nel segno
percuote pria che sia
la corda queta,
così corremmo nel
secondo regno.
Quivi la donna mia vid´
io sì lieta,
come nel lume di quel
ciel si mise,
che più lucente se ne fé
´l pianeta.
E se la stella si cambiò
e rise,
qual mi fec´ io che pur
da mia natura
trasmutabile son per
tutte guise!
Come ´n peschiera ch´è
tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò
che vien di fori
per modo che lo stimin
lor pastura,
sì vid´ io ben più di
mille splendori
trarsi ver´ noi, e in
ciascun s´udia:
"Ecco chi crescerà
li nostri amori".
E sì come ciascuno a
noi venìa,
vedeasi l´ombra piena
di letizia
nel folgór chiaro che
di lei uscia.
Pensa, lettor, se quel
che qui s´inizia
non procedesse, come tu
avresti
di più savere
angosciosa carizia;
e per te vederai come
da questi
m´era in disio d´udir
lor condizioni,
sì come a li occhi mi
fur manifesti.
"O bene nato a cui
veder li troni
del trïunfo etternal
concede grazia
prima che la milizia s´abbandoni,
del lume che per tutto
il ciel si spazia
noi semo accesi; e però,
se disii
di noi chiarirti, a tuo
piacer ti sazia".
Così da un di quelli
spirti pii
detto mi fu; e da
Beatrice: "Dì, dì
sicuramente, e credi
come a dii".
"Io veggio ben sì
come tu t´annidi
nel proprio lume, e che
de li occhi il traggi,
perch´ e´ corusca sì
come tu ridi;
ma non so chi tu se´, né
perché aggi,
anima degna, il grado
de la spera
che si vela a´ mortai
con altrui raggi".
Questo diss´ io diritto
a la lumera
che pria m´avea
parlato; ond´ ella fessi
lucente più assai di
quel ch´ell´ era.
Sì come il sol che si
cela elli stessi
per troppa luce, come ´l
caldo ha róse
le temperanze d´i
vapori spessi,
per più letizia sì mi
si nascose
dentro al suo raggio la
figura santa;
e così chiusa chiusa mi
rispuose
nel modo che ´l
seguente canto canta.
"Poscia che
Costantin l´aquila volse
contr´ al corso del
ciel, ch´ella seguio
dietro a l´antico che
Lavina tolse,
cento e cent´ anni e più
l´uccel di Dio
ne lo stremo d´Europa
si ritenne,
vicino a´ monti de´
quai prima uscìo;
e sotto l´ombra de le
sacre penne
governò ´l mondo lì di
mano in mano,
e, sì cangiando, in su
la mia pervenne.
Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del
primo amor ch´i´ sento,
d´entro le leggi trassi
il troppo e ´l vano.
E prima ch´io a l´ovra
fossi attento,
una natura in Cristo
esser, non piùe,
credea, e di tal fede
era contento;
ma ´l benedetto
Agapito, che fue
sommo pastore, a la
fede sincera
mi dirizzò con le parole
sue.
Io li credetti; e ciò
che ´n sua fede era,
vegg´ io or chiaro sì,
come tu vedi
ogni contradizione e
falsa e vera.
Tosto che con la Chiesa
mossi i piedi,
a Dio per grazia
piacque di spirarmi
l´alto lavoro, e tutto ´n
lui mi diedi;
e al mio Belisar
commendai l´armi,
cui la destra del ciel
fu sì congiunta,
che segno fu ch´i´
dovessi posarmi.
Or qui a la question
prima s´appunta
la mia risposta; ma sua
condizione
mi stringe a seguitare
alcuna giunta,
perché tu veggi con
quanta ragione
si move contr´ al
sacrosanto segno
e chi ´l s´appropria e
chi a lui s´oppone.
Vedi quanta virtù l´ha
fatto degno
di reverenza; e cominciò
da l´ora
che Pallante morì per
darli regno.
Tu sai ch´el fece in
Alba sua dimora
per trecento anni e
oltre, infino al fine
che i tre a´ tre pugnar
per lui ancora.
E sai ch´el fé dal mal
de le Sabine
al dolor di Lucrezia in
sette regi,
vincendo intorno le
genti vicine.
Sai quel ch´el fé
portato da li egregi
Romani incontro a
Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri
principi e collegi;
onde Torquato e
Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i
Deci e ´ Fabi
ebber la fama che
volontier mirro.
Esso atterrò l´orgoglio
de li Aràbi
che di retro ad Anibale
passaro
l´alpestre rocce, Po,
di che tu labi.
Sott´ esso giovanetti
trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a
quel colle
sotto ´l qual tu
nascesti parve amaro.
Poi, presso al tempo
che tutto ´l ciel volle
redur lo mondo a suo
modo sereno,
Cesare per voler di
Roma il tolle.
E quel che fé da Varo
infino a Reno,
Isara vide ed Era e
vide Senna
e ogne valle onde
Rodano è pieno.
Quel che fé poi ch´elli
uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di
tal volo,
che nol seguiteria
lingua né penna.
Inver´ la Spagna
rivolse lo stuolo,
poi ver´ Durazzo, e
Farsalia percosse
sì ch´al Nil caldo si
sentì del duolo.
Antandro e Simeonta,
onde si mosse,
rivide e là dov´ Ettore
si cuba;
e mal per Tolomeo
poscia si scosse.
Da indi scese
folgorando a Iuba;
onde si volse nel
vostro occidente,
ove sentia la pompeana
tuba.
Di quel che fé col
baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l´inferno
latra,
e Modena e Perugia fu
dolente.
Piangene ancor la
trista Cleopatra,
che, fuggendoli
innanzi, dal colubro
la morte prese subitana
e atra.
Con costui corse infino
al lito rubro;
con costui puose il
mondo in tanta pace,
che fu serrato a Giano
il suo delubro.
Ma ciò che ´l segno che
parlar mi face
fatto avea prima e poi
era fatturo
per lo regno mortal ch´a
lui soggiace,
diventa in apparenza
poco e scuro,
se in mano al terzo
Cesare si mira
con occhio chiaro e con
affetto puro;
ché la viva giustizia
che mi spira,
li concedette, in mano
a quel ch´i´ dico,
gloria di far vendetta
a la sua ira.
Or qui t´ammira in ciò
ch´io ti replìco:
poscia con Tito a far
vendetta corse
de la vendetta del
peccato antico.
E quando il dente
longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto
le sue ali
Carlo Magno, vincendo,
la soccorse.
Omai puoi giudicar di
quei cotali
ch´io accusai di sopra
e di lor falli,
che son cagion di tutti
vostri mali.
L´uno al pubblico segno
i gigli gialli
oppone, e l´altro
appropria quello a parte,
sì ch´è forte a veder
chi più si falli.
Faccian li Ghibellin,
faccian lor arte
sott´ altro segno, ché
mal segue quello
sempre chi la giustizia
e lui diparte;
e non l´abbatta esto
Carlo novello
coi Guelfi suoi, ma
tema de li artigli
ch´a più alto leon
trasser lo vello.
Molte fïate già pianser
li figli
per la colpa del padre,
e non si creda
che Dio trasmuti l´armi
per suoi gigli!
Questa picciola stella
si correda
d´i buoni spirti che
son stati attivi
perché onore e fama li
succeda:
e quando li disiri
poggian quivi,
sì disvïando, pur
convien che i raggi
del vero amore in sù
poggin men vivi.
Ma nel commensurar d´i
nostri gaggi
col merto è parte di
nostra letizia,
perché non li vedem
minor né maggi.
Quindi addolcisce la
viva giustizia
in noi l´affetto sì,
che non si puote
torcer già mai ad
alcuna nequizia.
Diverse voci fanno
dolci note;
così diversi scanni in
nostra vita
rendon dolce armonia
tra queste rote.
E dentro a la presente
margarita
luce la luce di Romeo,
di cui
fu l´ovra grande e
bella mal gradita.
Ma i Provenzai che
fecer contra lui
non hanno riso; e però
mal cammina
qual si fa danno del
ben fare altrui.
Quattro figlie ebbe, e
ciascuna reina,
Ramondo Beringhiere, e
ciò li fece
Romeo, persona umìle e
peregrina.
E poi il mosser le
parole biece
a dimandar ragione a
questo giusto,
che li assegnò sette e
cinque per diece,
indi partissi povero e
vetusto;
e se ´l mondo sapesse
il cor ch´elli ebbe
mendicando sua vita a
frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo
loderebbe".
"Osanna, sanctus
Deus sabaòth,
superillustrans
claritate tua
felices ignes horum
malacòth!".
Così, volgendosi a la
nota sua,
fu viso a me cantare
essa sustanza,
sopra la qual doppio
lume s´addua;
ed essa e l´altre
mossero a sua danza,
e quasi velocissime
faville
mi si velar di sùbita
distanza.
Io dubitava e dicea
`Dille, dille!´
fra me,
`dille´ dicea, `a la mia donna
che mi diseta con le
dolci stille´.
Ma quella reverenza che
s´indonna
di tutto me, pur per Be
e per ice,
mi richinava come l´uom
ch´assonna.
Poco sofferse me cotal
Beatrice
e cominciò, raggiandomi
d´un riso
tal, che nel foco faria
l´uom felice:
"Secondo mio
infallibile avviso,
come giusta vendetta
giustamente
punita fosse, t´ha in
pensier miso;
ma io ti solverò tosto
la mente;
e tu ascolta, ché le mie
parole
di gran sentenza ti
faran presente.
Per non soffrire a la
virtù che vole
freno a suo prode,
quell´ uom che non nacque,
dannando sé, dannò
tutta sua prole;
onde l´umana specie
inferma giacque
giù per secoli molti in
grande errore,
fin ch´al Verbo di Dio
discender piacque
u´ la natura, che dal
suo fattore
s´era allungata, unì a
sé in persona
con l´atto sol del suo
etterno amore.
Or drizza il viso a
quel ch´or si ragiona:
questa natura al suo
fattore unita,
qual fu creata, fu sincera
e buona;
ma per sé stessa pur fu
ella sbandita
di paradiso, però che
si torse
da via di verità e da
sua vita.
La pena dunque che la
croce porse
s´a la natura assunta
si misura,
nulla già mai sì
giustamente morse;
e così nulla fu di
tanta ingiura,
guardando a la persona
che sofferse,
in che era contratta
tal natura.
Però d´un atto uscir
cose diverse:
ch´a Dio e a´ Giudei
piacque una morte;
per lei tremò la terra
e ´l ciel s´aperse.
Non ti dee oramai parer
più forte,
quando si dice che
giusta vendetta
poscia vengiata fu da
giusta corte.
Ma io veggi´ or la tua
mente ristretta
di pensiero in pensier
dentro ad un nodo,
del qual con gran disio
solver s´aspetta.
Tu dici: "Ben
discerno ciò ch´i´ odo;
ma perché Dio volesse,
m´è occulto,
a nostra redenzion pur
questo modo".
Questo decreto, frate,
sta sepulto
a li occhi di ciascuno
il cui ingegno
ne la fiamma d´amor non
è adulto.
Veramente, però ch´a
questo segno
molto si mira e poco si
discerne,
dirò perché tal modo fu
più degno.
La divina bontà, che da
sé sperne
ogne livore, ardendo in
sé, sfavilla
sì che dispiega le
bellezze etterne.
Ciò che da lei sanza
mezzo distilla
non ha poi fine, perché
non si move
la sua imprenta quand´
ella sigilla.
Ciò che da essa sanza
mezzo piove
libero è tutto, perché
non soggiace
a la virtute de le cose
nove.
Più l´è conforme, e però
più le piace;
ché l´ardor santo ch´ogne
cosa raggia,
ne la più somigliante è
più vivace.
Di tutte queste dote s´avvantaggia
l´umana creatura, e s´una
manca,
di sua nobilità convien
che caggia.
Solo il peccato è quel
che la disfranca
e falla dissimìle al
sommo bene,
per che del lume suo
poco s´imbianca;
e in sua dignità mai
non rivene,
se non rïempie, dove
colpa vòta,
contra mal dilettar con
giuste pene.
Vostra natura, quando
peccò tota
nel seme suo, da queste
dignitadi,
come di paradiso, fu
remota;
né ricovrar potiensi,
se tu badi
ben sottilmente, per
alcuna via,
sanza passar per un di
questi guadi:
o che Dio solo per sua
cortesia
dimesso avesse, o che l´uom
per sé isso
avesse sodisfatto a sua
follia.
Ficca mo l´occhio per
entro l´abisso
de l´etterno consiglio,
quanto puoi
al mio parlar
distrettamente fisso.
Non potea l´uomo ne´
termini suoi
mai sodisfar, per non
potere ir giuso
con umiltate obedïendo
poi,
quanto disobediendo
intese ir suso;
e questa è la cagion
per che l´uom fue
da poter sodisfar per sé
dischiuso.
Dunque a Dio convenia
con le vie sue
riparar l´omo a sua
intera vita,
dico con l´una, o ver
con amendue.
Ma perché l´ovra tanto è
più gradita
da l´operante, quanto
più appresenta
de la bontà del core
ond´ ell´ è uscita,
la divina bontà che ´l
mondo imprenta,
di proceder per tutte
le sue vie,
a rilevarvi suso, fu
contenta.
Né tra l´ultima notte e
´l primo die
sì alto o sì magnifico
processo,
o per l´una o per l´altra,
fu o fie:
ché più largo fu Dio a
dar sé stesso
per far l´uom
sufficiente a rilevarsi,
che s´elli avesse sol
da sé dimesso;
e tutti li altri modi
erano scarsi
a la giustizia, se ´l
Figliuol di Dio
non fosse umilïato ad
incarnarsi.
Or per empierti bene
ogne disio,
ritorno a dichiararti
in alcun loco,
perché tu veggi lì così
com´ io.
Tu dici: "Io
veggio l´acqua, io veggio il foco,
l´aere e la terra e
tutte lor misture
venire a corruzione, e
durar poco;
e queste cose pur furon
creature;
per che, se ciò ch´è
detto è stato vero,
esser dovrien da
corruzion sicure".
Li angeli, frate, e ´l
paese sincero
nel qual tu se´, dir si
posson creati,
sì come sono, in loro
essere intero;
ma li alimenti che tu
hai nomati
e quelle cose che di
lor si fanno
da creata virtù sono
informati.
Creata fu la materia ch´elli
hanno;
creata fu la virtù
informante
in queste stelle che ´ntorno
a lor vanno.
L´anima d´ogne bruto e
de le piante
di complession potenzïata
tira
lo raggio e ´l moto de
le luci sante;
ma vostra vita sanza
mezzo spira
la somma beninanza, e
la innamora
di sé sì che poi sempre
la disira.
E quinci puoi
argomentare ancora
vostra resurrezion, se
tu ripensi
come l´umana carne
fessi allora
che li primi parenti
intrambo fensi".
Solea creder lo mondo
in suo periclo
che la bella Ciprigna
il folle amore
raggiasse, volta nel
terzo epiciclo;
per che non pur a lei
faceano onore
di sacrificio e di
votivo grido
le genti antiche ne l´antico
errore;
ma Dïone onoravano e
Cupido,
quella per madre sua,
questo per figlio,
e dicean ch´el sedette
in grembo a Dido;
e da costei ond´ io
principio piglio
pigliavano il vocabol
de la stella
che ´l sol vagheggia or
da coppa or da ciglio.
Io non m´accorsi del
salire in ella;
ma d´esservi entro mi fé
assai fede
la donna mia ch´i´ vidi
far più bella.
E come in fiamma
favilla si vede,
e come in voce voce si
discerne,
quand´ una è ferma e
altra va e riede,
vid´ io in essa luce
altre lucerne
muoversi in giro più e
men correnti,
al modo, credo, di lor
viste interne.
Di fredda nube non
disceser venti,
o visibili o no, tanto
festini,
che non paressero
impediti e lenti
a chi avesse quei lumi
divini
veduti a noi venir,
lasciando il giro
pria cominciato in li
alti Serafini;
e dentro a quei che più
innanzi appariro
sonava
`Osanna´ sì, che unque poi
di rïudir non fui sanza
disiro.
Indi si fece l´un più
presso a noi
e solo incominciò:
"Tutti sem presti
al tuo piacer, perché
di noi ti gioi.
Noi ci volgiam coi
principi celesti
d´un giro e d´un girare
e d´una sete,
ai quali tu del mondo
già dicesti:
`Voi che ´ntendendo
il terzo ciel movete´;
e sem sì pien d´amor,
che, per piacerti,
non fia men dolce un
poco di quïete".
Poscia che li occhi
miei si fuoro offerti
a la mia donna
reverenti, ed essa
fatti li avea di sé
contenti e certi,
rivolsersi a la luce
che promessa
tanto s´avea, e
"Deh, chi siete?" fue
la voce mia di grande
affetto impressa.
E quanta e quale vid´
io lei far piùe
per allegrezza nova che
s´accrebbe,
quando parlai, a l´allegrezze
sue!
Così fatta, mi disse:
"Il mondo m´ebbe
giù poco tempo; e se più
fosse stato,
molto sarà di mal, che
non sarebbe.
La mia letizia mi ti
tien celato
che mi raggia dintorno
e mi nasconde
quasi animal di sua
seta fasciato.
Assai m´amasti, e
avesti ben onde;
che s´io fossi giù
stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre
che le fronde.
Quella sinistra riva
che si lava
di Rodano poi ch´è
misto con Sorga,
per suo segnore a tempo
m´aspettava,
e quel corno d´Ausonia
che s´imborga
di Bari e di Gaeta e di
Catona,
da ove Tronto e Verde
in mare sgorga.
Fulgeami già in fronte
la corona
di quella terra che ´l
Danubio riga
poi che le ripe
tedesche abbandona.
E la bella Trinacria,
che caliga
tra Pachino e Peloro,
sopra ´l golfo
che riceve da Euro
maggior briga,
non per Tifeo ma per
nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi
regi ancora,
nati per me di Carlo e
di Ridolfo,
se mala segnoria, che
sempre accora
li popoli suggetti, non
avesse
mosso Palermo a gridar:
"Mora, mora!".
E se mio frate questo
antivedesse,
l´avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché
non li offendesse;
ché veramente proveder
bisogna
per lui, o per altrui,
sì ch´a sua barca
carcata più d´incarco
non si pogna.
La sua natura, che di
larga parca
discese, avria mestier
di tal milizia
che non curasse di
mettere in arca".
"Però ch´i´ credo
che l´alta letizia
che ´l tuo parlar m´infonde,
segnor mio,
là ´ve ogne ben si
termina e s´inizia,
per te si veggia come
la vegg´ io,
grata m´è più; e anco
quest´ ho caro
perché ´l discerni
rimirando in Dio.
Fatto m´hai lieto, e
così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a
dubitar m´hai mosso
com´ esser può, di
dolce seme, amaro".
Questo io a lui; ed
elli a me: "S´io posso
mostrarti un vero, a
quel che tu dimandi
terrai lo viso come
tien lo dosso.
Lo ben che tutto il
regno che tu scandi
volge e contenta, fa
esser virtute
sua provedenza in
questi corpi grandi.
E non pur le nature
provedute
sono in la mente ch´è
da sé perfetta,
ma esse insieme con la
lor salute:
per che quantunque
quest´ arco saetta
disposto cade a
proveduto fine,
sì come cosa in suo
segno diretta.
Se ciò non fosse, il
ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi
effetti,
che non sarebbero arti,
ma ruine;
e ciò esser non può, se
li ´ntelletti
che muovon queste
stelle non son manchi,
e manco il primo, che
non li ha perfetti.
Vuo´ tu che questo ver
più ti s´imbianchi?".
E io: "Non già; ché
impossibil veggio
che la natura, in quel
ch´è uopo, stanchi".
Ond´ elli ancora:
"Or dì: sarebbe il peggio
per l´omo in terra, se
non fosse cive?".
"Sì", rispuos´
io; "e qui ragion non cheggio".
"E puot´ elli
esser, se giù non si vive
diversamente per
diversi offici?
Non, se ´l maestro
vostro ben vi scrive".
Sì venne deducendo
infino a quici;
poscia conchiuse:
"Dunque esser diverse
convien di vostri
effetti le radici:
per ch´un nasce Solone
e altro Serse,
altro Melchisedèch e
altro quello
che, volando per l´aere,
il figlio perse.
La circular natura, ch´è
suggello
a la cera mortal, fa
ben sua arte,
ma non distingue l´un
da l´altro ostello.
Quinci addivien ch´Esaù
si diparte
per seme da Iacòb; e
vien Quirino
da sì vil padre, che si
rende a Marte.
Natura generata il suo
cammino
simil farebbe sempre a´
generanti,
se non vincesse il
proveder divino.
Or quel che t´era
dietro t´è davanti:
ma perché sappi che di
te mi giova,
un corollario voglio
che t´ammanti.
Sempre natura, se
fortuna trova
discorde a sé, com´
ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa
mala prova.
E se ´l mondo là giù
ponesse mente
al fondamento che
natura pone,
seguendo lui, avria
buona la gente.
Ma voi torcete a la
religïone
tal che fia nato a
cignersi la spada,
e fate re di tal ch´è
da sermone;
onde la traccia vostra è
fuor di strada".
Da poi che Carlo tuo,
bella Clemenza,
m´ebbe chiarito, mi
narrò li ´nganni
che ricever dovea la
sua semenza;
ma disse: "Taci e
lascia muover li anni";
sì ch´io non posso dir
se non che pianto
giusto verrà di retro
ai vostri danni.
E già la vita di quel
lume santo
rivolta s´era al Sol
che la rïempie
come quel ben ch´a ogne
cosa è tanto.
Ahi anime ingannate e
fatture empie,
che da sì fatto ben
torcete i cuori,
drizzando in vanità le
vostre tempie!
Ed ecco un altro di
quelli splendori
ver´ me si fece, e ´l
suo voler piacermi
significava nel chiarir
di fori.
Li occhi di Bëatrice,
ch´eran fermi
sovra me, come pria, di
caro assenso
al mio disio
certificato fermi.
"Deh, metti al mio
voler tosto compenso,
beato spirto",
dissi, "e fammi prova
ch´i´ possa in te
refletter quel ch´io penso!".
Onde la luce che m´era
ancor nova,
del suo profondo, ond´
ella pria cantava,
seguette come a cui di
ben far giova:
"In quella parte
de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta
e di Piava,
si leva un colle, e non
surge molt´ alto,
là onde scese già una
facella
che fece a la contrada
un grande assalto.
D´una radice nacqui e
io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e
qui refulgo
perché mi vinse il lume
d´esta stella;
ma lietamente a me
medesma indulgo
la cagion di mia sorte,
e non mi noia;
che parria forse forte
al vostro vulgo.
Di questa luculenta e
cara gioia
del nostro cielo che più
m´è propinqua,
grande fama rimase; e
pria che moia,
questo centesimo anno
ancor s´incinqua:
vedi se far si dee l´omo
eccellente,
sì ch´altra vita la
prima relinqua.
E ciò non pensa la
turba presente
che Tagliamento e Adice
richiude,
né per esser battuta
ancor si pente;
ma tosto fia che Padova
al palude
cangerà l´acqua che
Vincenza bagna,
per essere al dover le
genti crude;
e dove Sile e Cagnan s´accompagna,
tal signoreggia e va
con la testa alta,
che già per lui carpir
si fa la ragna.
Piangerà Feltro ancora
la difalta
de l´empio suo pastor,
che sarà sconcia
sì, che per simil non s´entrò
in malta.
Troppo sarebbe larga la
bigoncia
che ricevesse il sangue
ferrarese,
e stanco chi ´l pesasse
a oncia a oncia,
che donerà questo prete
cortese
per mostrarsi di parte;
e cotai doni
conformi fieno al viver
del paese.
Sù sono specchi, voi
dicete Troni,
onde refulge a noi Dio
giudicante;
sì che questi parlar ne
paion buoni".
Qui si tacette; e
fecemi sembiante
che fosse ad altro
volta, per la rota
in che si mise com´ era
davante.
L´altra letizia, che m´era
già nota
per cara cosa, mi si
fece in vista
qual fin balasso in che
lo sol percuota.
Per letiziar là sù
fulgor s´acquista,
sì come riso qui; ma giù
s´abbuia
l´ombra di fuor, come
la mente è trista.
"Dio vede tutto, e
tuo veder s´inluia",
diss´ io, "beato
spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot´
esser fuia.
Dunque la voce tua, che
´l ciel trastulla
sempre col canto di
quei fuochi pii
che di sei ali facen la
coculla,
perché non satisface a´
miei disii?
Già non attendere´ io
tua dimanda,
s´io m´intuassi, come
tu t´inmii".
"La maggior valle
in che l´acqua si spanda",
incominciaro allor le
sue parole,
"fuor di quel mar
che la terra inghirlanda,
tra ´ discordanti liti
contra ´l sole
tanto sen va, che fa
meridïano
là dove l´orizzonte
pria far suole.
Di quella valle fu´ io
litorano
tra Ebro e Macra, che
per cammin corto
parte lo Genovese dal
Toscano.
Ad un occaso quasi e ad
un orto
Buggea siede e la terra
ond´ io fui,
che fé del sangue suo
già caldo il porto.
Folco mi disse quella
gente a cui
fu noto il nome mio; e
questo cielo
di me s´imprenta, com´
io fe´ di lui;
ché più non arse la
figlia di Belo,
noiando e a Sicheo e a
Creusa,
di me, infin che si
convenne al pelo;
né quella Rodopëa che
delusa
fu da Demofoonte, né
Alcide
quando Iole nel core
ebbe rinchiusa.
Non però qui si pente,
ma si ride,
non de la colpa, ch´a
mente non torna,
ma del valor ch´ordinò
e provide.
Qui si rimira ne l´arte
ch´addorna
cotanto affetto, e
discernesi ´l bene
per che ´l mondo di sù
quel di giù torna.
Ma perché tutte le tue
voglie piene
ten porti che son nate
in questa spera,
proceder ancor oltre mi
convene.
Tu vuo´ saper chi è in
questa lumera
che qui appresso me così
scintilla
come raggio di sole in
acqua mera.
Or sappi che là entro
si tranquilla
Raab; e a nostr´ ordine
congiunta,
di lei nel sommo grado
si sigilla.
Da questo cielo, in cui
l´ombra s´appunta
che ´l vostro mondo
face, pria ch´altr´ alma
del trïunfo di Cristo
fu assunta.
Ben si convenne lei
lasciar per palma
in alcun cielo de l´alta
vittoria
che s´acquistò con l´una
e l´altra palma,
perch´ ella favorò la
prima gloria
di Iosüè in su la Terra
Santa,
che poco tocca al papa
la memoria.
La tua città, che di
colui è pianta
che pria volse le
spalle al suo fattore
e di cui è la ´nvidia
tanto pianta,
produce e spande il
maladetto fiore
c´ha disvïate le pecore
e li agni,
però che fatto ha lupo
del pastore.
Per questo l´Evangelio
e i dottor magni
son derelitti, e solo
ai Decretali
si studia, sì che pare
a´ lor vivagni.
A questo intende il
papa e ´ cardinali;
non vanno i lor
pensieri a Nazarette,
là dove Gabrïello
aperse l´ali.
Ma Vaticano e l´altre
parti elette
di Roma che son state
cimitero
a la milizia che Pietro
seguette,
tosto libere fien de l´avoltero".
Guardando nel suo
Figlio con l´Amore
che l´uno e l´altro
etternalmente spira,
lo primo e ineffabile
Valore
quanto per mente e per
loco si gira
con tant´ ordine fé, ch´esser
non puote
sanza gustar di lui chi
ciò rimira.
Leva dunque, lettore, a
l´alte rote
meco la vista, dritto a
quella parte
dove l´un moto e l´altro
si percuote;
e lì comincia a
vagheggiar ne l´arte
di quel maestro che
dentro a sé l´ama,
tanto che mai da lei l´occhio
non parte.
Vedi come da indi si
dirama
l´oblico cerchio che i
pianeti porta,
per sodisfare al mondo
che li chiama.
Che se la strada lor
non fosse torta,
molta virtù nel ciel
sarebbe in vano,
e quasi ogne potenza
qua giù morta;
e se dal dritto più o
men lontano
fosse ´l partire, assai
sarebbe manco
e giù e sù de l´ordine
mondano.
Or ti riman, lettor,
sovra ´l tuo banco,
dietro pensando a ciò
che si preliba,
s´esser vuoi lieto
assai prima che stanco.
Messo t´ho innanzi:
omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la
mia cura
quella materia ond´ io
son fatto scriba.
Lo ministro maggior de
la natura,
che del valor del ciel
lo mondo imprenta
e col suo lume il tempo
ne misura,
con quella parte che sù
si rammenta
congiunto, si girava
per le spire
in che più tosto ognora
s´appresenta;
e io era con lui; ma
del salire
non m´accors´ io, se
non com´ uom s´accorge,
anzi ´l primo pensier,
del suo venire.
è Bëatrice quella che sì
scorge
di bene in meglio, sì
subitamente
che l´atto suo per
tempo non si sporge.
Quant´ esser convenia
da sé lucente
quel ch´era dentro al
sol dov´ io entra´mi,
non per color, ma per
lume parvente!
Perch´ io lo ´ngegno e
l´arte e l´uso chiami,
sì nol direi che mai s´imaginasse;
ma creder puossi e di
veder si brami.
E se le fantasie nostre
son basse
a tanta altezza, non è
maraviglia;
ché sopra ´l sol non fu
occhio ch´andasse.
Tal era quivi la quarta
famiglia
de l´alto Padre, che
sempre la sazia,
mostrando come spira e
come figlia.
E Bëatrice cominciò:
"Ringrazia,
ringrazia il Sol de li
angeli, ch´a questo
sensibil t´ha levato
per sua grazia".
Cor di mortal non fu
mai sì digesto
a divozione e a
rendersi a Dio
con tutto ´l suo gradir
cotanto presto,
come a quelle parole mi
fec´ io;
e sì tutto ´l mio amore
in lui si mise,
che Bëatrice eclissò ne
l´oblio.
Non le dispiacque; ma sì
se ne rise,
che lo splendor de li
occhi suoi ridenti
mia mente unita in più
cose divise.
Io vidi più folgór vivi
e vincenti
far di noi centro e di
sé far corona,
più dolci in voce che
in vista lucenti:
così cinger la figlia
di Latona
vedem talvolta, quando
l´aere è pregno,
sì che ritenga il fil
che fa la zona.
Ne la corte del cielo,
ond´ io rivegno,
si trovan molte gioie
care e belle
tanto che non si posson
trar del regno;
e ´l canto di quei lumi
era di quelle;
chi non s´impenna sì
che là sù voli,
dal muto aspetti quindi
le novelle.
Poi, sì cantando,
quelli ardenti soli
si fuor girati intorno
a noi tre volte,
come stelle vicine a´
fermi poli,
donne mi parver, non da
ballo sciolte,
ma che s´arrestin
tacite, ascoltando
fin che le nove note
hanno ricolte.
E dentro a l´un senti´
cominciar: "Quando
lo raggio de la grazia,
onde s´accende
verace amore e che poi
cresce amando,
multiplicato in te
tanto resplende,
che ti conduce su per
quella scala
u´ sanza risalir nessun
discende;
qual ti negasse il vin
de la sua fiala
per la tua sete, in
libertà non fora
se non com´ acqua ch´al
mar non si cala.
Tu vuo´ saper di quai
piante s´infiora
questa ghirlanda che ´ntorno
vagheggia
la bella donna ch´al
ciel t´avvalora.
Io fui de li agni de la
santa greggia
che Domenico mena per
cammino
u´ ben s´impingua se
non si vaneggia.
Questi che m´è a destra
più vicino,
frate e maestro fummi,
ed esso Alberto
è di Cologna, e io
Thomas d´Aquino.
Se sì di tutti li altri
esser vuo´ certo,
di retro al mio parlar
ten vien col viso
girando su per lo beato
serto.
Quell´ altro
fiammeggiare esce del riso
di Grazïan, che l´uno e
l´altro foro
aiutò sì che piace in
paradiso.
L´altro ch´appresso
addorna il nostro coro,
quel Pietro fu che con
la poverella
offerse a Santa Chiesa
suo tesoro.
La quinta luce, ch´è tra
noi più bella,
spira di tale amor, che
tutto ´l mondo
là giù ne gola di saper
novella:
entro v´è l´alta mente
u´ sì profondo
saver fu messo, che, se
´l vero è vero,
a veder tanto non surse
il secondo.
Appresso vedi il lume
di quel cero
che giù in carne più a
dentro vide
l´angelica natura e ´l
ministero.
Ne l´altra piccioletta
luce ride
quello avvocato de´
tempi cristiani
del cui latino Augustin
si provide.
Or se tu l´occhio de la
mente trani
di luce in luce dietro
a le mie lode,
già de l´ottava con
sete rimani.
Per vedere ogne ben
dentro vi gode
l´anima santa che ´l
mondo fallace
fa manifesto a chi di
lei ben ode.
Lo corpo ond´ ella fu
cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed
essa da martiro
e da essilio venne a
questa pace.
Vedi oltre fiammeggiar
l´ardente spiro
d´Isidoro, di Beda e di
Riccardo,
che a considerar fu più
che viro.
Questi onde a me
ritorna il tuo riguardo,
è ´l lume d´uno spirto
che ´n pensieri
gravi a morir li parve
venir tardo:
essa è la luce etterna
di Sigieri,
che, leggendo nel Vico
de li Strami,
silogizzò invidïosi
veri".
Indi, come orologio che
ne chiami
ne l´ora che la sposa
di Dio surge
a mattinar lo sposo
perché l´ami,
che l´una parte e l´altra
tira e urge,
tin tin sonando con sì
dolce nota,
che ´l ben disposto
spirto d´amor turge;
così vid´ ïo la
gloriosa rota
muoversi e render voce
a voce in tempra
e in dolcezza ch´esser
non pò nota
se non colà dove gioir
s´insempra.
O insensata cura de´
mortali,
quanto son difettivi
silogismi
quei che ti fanno in
basso batter l´ali!
Chi dietro a iura e chi
ad amforismi
sen giva, e chi
seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza
o per sofismi,
e chi rubare e chi
civil negozio,
chi nel diletto de la
carne involto
s´affaticava e chi si
dava a l´ozio,
quando, da tutte queste
cose sciolto,
con Bëatrice m´era suso
in cielo
cotanto glorïosamente
accolto.
Poi che ciascuno fu
tornato ne lo
punto del cerchio in
che avanti s´era,
fermossi, come a
candellier candelo.
E io senti´ dentro a
quella lumera
che pria m´avea
parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi
più mera:
"Così com´ io del
suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la
luce etterna,
li tuoi pensieri onde
cagioni apprendo.
Tu dubbi, e hai voler
che si ricerna
in sì aperta e ´n sì
distesa lingua
lo dicer mio, ch´al tuo
sentir si sterna,
ove dinanzi dissi:
"U´ ben s´impingua",
e là u´ dissi:
"Non nacque il secondo";
e qui è uopo che ben si
distingua.
La provedenza, che
governa il mondo
con quel consiglio nel
quale ogne aspetto
creato è vinto pria che
vada al fondo,
però che andasse ver´
lo suo diletto
la sposa di colui ch´ad
alte grida
disposò lei col sangue
benedetto,
in sé sicura e anche a
lui più fida,
due principi ordinò in
suo favore,
che quinci e quindi le
fosser per guida.
L´un fu tutto serafico
in ardore;
l´altro per sapïenza in
terra fue
di cherubica luce uno
splendore.
De l´un dirò, però che
d´amendue
si dice l´un pregiando,
qual ch´om prende,
perch´ ad un fine fur l´opere
sue.
Intra Tupino e l´acqua
che discende
del colle eletto dal
beato Ubaldo,
fertile costa d´alto
monte pende,
onde Perugia sente
freddo e caldo
da Porta Sole; e di
rietro le piange
per grave giogo Nocera
con Gualdo.
Di questa costa, là dov´
ella frange
più sua rattezza,
nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta
di Gange.
Però chi d´esso loco fa
parole,
non dica Ascesi, ché
direbbe corto,
ma Orïente, se proprio
dir vuole.
Non era ancor molto
lontan da l´orto,
ch´el cominciò a far
sentir la terra
de la sua gran virtute
alcun conforto;
ché per tal donna,
giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui,
come a la morte,
la porta del piacer
nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital
corte
et coram patre le si
fece unito;
poscia di dì in dì l´amò
più forte.
Questa, privata del
primo marito,
millecent´ anni e più
dispetta e scura
fino a costui si stette
sanza invito;
né valse udir che la
trovò sicura
con Amiclate, al suon
de la sua voce,
colui ch´a tutto ´l
mondo fé paura;
né valse esser costante
né feroce,
sì che, dove Maria
rimase giuso,
ella con Cristo pianse
in su la croce.
Ma perch´ io non
proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per
questi amanti
prendi oramai nel mio
parlar diffuso.
La lor concordia e i
lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e
dolce sguardo
facieno esser cagion di
pensier santi;
tanto che ´l venerabile
Bernardo
si scalzò prima, e
dietro a tanta pace
corse e, correndo, li
parve esser tardo.
Oh ignota ricchezza! oh
ben ferace!
Scalzasi Egidio,
scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì
la sposa piace.
Indi sen va quel padre
e quel maestro
con la sua donna e con
quella famiglia
che già legava l´umile
capestro.
Né li gravò viltà di
cuor le ciglia
per esser fi´ di Pietro
Bernardone,
né per parer dispetto a
maraviglia;
ma regalmente sua dura
intenzione
ad Innocenzio aperse, e
da lui ebbe
primo sigillo a sua
religïone.
Poi che la gente
poverella crebbe
dietro a costui, la cui
mirabil vita
meglio in gloria del
ciel si canterebbe,
di seconda corona
redimita
fu per Onorio da l´Etterno
Spiro
la santa voglia d´esto
archimandrita.
E poi che, per la sete
del martiro,
ne la presenza del
Soldan superba
predicò Cristo e li
altri che ´l seguiro,
e per trovare a
conversione acerba
troppo la gente e per
non stare indarno,
redissi al frutto de l´italica
erba,
nel crudo sasso intra
Tevero e Arno
da Cristo prese l´ultimo
sigillo,
che le sue membra due
anni portarno.
Quando a colui ch´a
tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso
a la mercede
ch´el meritò nel suo
farsi pusillo,
a´ frati suoi, sì com´
a giuste rede,
raccomandò la donna sua
più cara,
e comandò che l´amassero
a fede;
e del suo grembo l´anima
preclara
mover si volle,
tornando al suo regno,
e al suo corpo non
volle altra bara.
Pensa oramai qual fu
colui che degno
collega fu a mantener
la barca
di Pietro in alto mar
per dritto segno;
e questo fu il nostro
patrïarca;
per che qual segue lui,
com´ el comanda,
discerner puoi che
buone merce carca.
Ma ´l suo pecuglio di
nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch´esser
non puote
che per diversi salti
non si spanda;
e quanto le sue pecore
remote
e vagabunde più da esso
vanno,
più tornano a l´ovil di
latte vòte.
Ben son di quelle che
temono ´l danno
e stringonsi al pastor;
ma son sì poche,
che le cappe fornisce
poco panno.
Or, se le mie parole
non son fioche,
se la tua audïenza è
stata attenta,
se ciò ch´è detto a la
mente revoche,
in parte fia la tua
voglia contenta,
perché vedrai la pianta
onde si scheggia,
e vedra´ il corrègger
che argomenta
"U´ ben s´impingua,
se non si vaneggia"".
Sì tosto come l´ultima
parola
la benedetta fiamma per
dir tolse,
a rotar cominciò la
santa mola;
e nel suo giro tutta
non si volse
prima ch´un´altra di
cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a
canto colse;
canto che tanto vince
nostre muse,
nostre serene in quelle
dolci tube,
quanto primo splendor
quel ch´e´ refuse.
Come si volgon per
tenera nube
due archi paralelli e
concolori,
quando Iunone a sua
ancella iube,
nascendo di quel d´entro
quel di fori,
a guisa del parlar di
quella vaga
ch´amor consunse come
sol vapori,
e fanno qui la gente
esser presaga,
per lo patto che Dio
con Noè puose,
del mondo che già mai
più non s´allaga:
così di quelle
sempiterne rose
volgiensi circa noi le
due ghirlande,
e sì l´estrema a l´intima
rispuose.
Poi che ´l tripudio e l´altra
festa grande,
sì del cantare e sì del
fiammeggiarsi
luce con luce gaudïose
e blande,
insieme a punto e a
voler quetarsi,
pur come li occhi ch´al
piacer che i move
conviene insieme
chiudere e levarsi;
del cor de l´una de le
luci nove
si mosse voce, che l´ago
a la stella
parer mi fece in
volgermi al suo dove;
e cominciò: "L´amor
che mi fa bella
mi tragge a ragionar de
l´altro duca
per cui del mio sì ben
ci si favella.
Degno è che, dov´ è l´un,
l´altro s´induca:
sì che, com´ elli ad
una militaro,
così la gloria loro
insieme luca.
L´essercito di Cristo,
che sì caro
costò a rïarmar, dietro
a la ´nsegna
si movea tardo,
sospeccioso e raro,
quando lo ´mperador che
sempre regna
provide a la milizia,
ch´era in forse,
per sola grazia, non
per esser degna;
e, come è detto, a sua
sposa soccorse
con due campioni, al
cui fare, al cui dire
lo popol disvïato si
raccorse.
In quella parte ove
surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle
fronde
di che si vede Europa
rivestire,
non molto lungi al
percuoter de l´onde
dietro a le quali, per
la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne
uom si nasconde,
siede la fortunata
Calaroga
sotto la protezion del
grande scudo
in che soggiace il
leone e soggioga:
dentro vi nacque l´amoroso
drudo
de la fede cristiana,
il santo atleta
benigno a´ suoi e a´
nemici crudo;
e come fu creata, fu
repleta
sì la sua mente di viva
vertute
che, ne la madre, lei
fece profeta.
Poi che le sponsalizie
fuor compiute
al sacro fonte intra
lui e la Fede,
u´ si dotar di mutüa
salute,
la donna che per lui l´assenso
diede,
vide nel sonno il
mirabile frutto
ch´uscir dovea di lui e
de le rede;
e perché fosse qual era
in costrutto,
quinci si mosse spirito
a nomarlo
del possessivo di cui
era tutto.
Domenico fu detto; e io
ne parlo
sì come de l´agricola
che Cristo
elesse a l´orto suo per
aiutarlo.
Ben parve messo e
famigliar di Cristo:
che ´l primo amor che ´n
lui fu manifesto,
fu al primo consiglio
che diè Cristo.
Spesse fïate fu tacito
e desto
trovato in terra da la
sua nutrice,
come dicesse:
`Io son venuto a questo´.
Oh padre suo veramente
Felice!
oh madre sua veramente
Giovanna,
se, interpretata, val
come si dice!
Non per lo mondo, per
cui mo s´affanna
di retro ad Ostïense e
a Taddeo,
ma per amor de la
verace manna
in picciol tempo gran
dottor si feo;
tal che si mise a circüir
la vigna
che tosto imbianca, se ´l
vignaio è reo.
E a la sedia che fu già
benigna
più a´ poveri giusti,
non per lei,
ma per colui che siede,
che traligna,
non dispensare o due o
tre per sei,
non la fortuna di prima
vacante,
non decimas, quae sunt
pauperum Dei,
addimandò, ma contro al
mondo errante
licenza di combatter
per lo seme
del qual ti fascian
ventiquattro piante.
Poi, con dottrina e con
volere insieme,
con l´officio
appostolico si mosse
quasi torrente ch´alta
vena preme;
e ne li sterpi eretici
percosse
l´impeto suo, più
vivamente quivi
dove le resistenze eran
più grosse.
Di lui si fecer poi
diversi rivi
onde l´orto catolico si
riga,
sì che i suoi
arbuscelli stan più vivi.
Se tal fu l´una rota de
la biga
in che la Santa Chiesa
si difese
e vinse in campo la sua
civil briga,
ben ti dovrebbe assai
esser palese
l´eccellenza de l´altra,
di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu
sì cortese.
Ma l´orbita che fé la
parte somma
di sua circunferenza, è
derelitta,
sì ch´è la muffa dov´
era la gromma.
La sua famiglia, che si
mosse dritta
coi piedi a le sue
orme, è tanto volta,
che quel dinanzi a quel
di retro gitta;
e tosto si vedrà de la
ricolta
de la mala coltura,
quando il loglio
si lagnerà che l´arca
li sia tolta.
Ben dico, chi cercasse
a foglio a foglio
nostro volume, ancor
troveria carta
u´ leggerebbe "I´
mi son quel ch´i´ soglio";
ma non fia da Casal né
d´Acquasparta,
là onde vegnon tali a
la scrittura,
ch´uno la fugge e altro
la coarta.
Io son la vita di
Bonaventura
da Bagnoregio, che ne´
grandi offici
sempre pospuosi la
sinistra cura.
Illuminato e Augustin
son quici,
che fuor de´ primi
scalzi poverelli
che nel capestro a Dio
si fero amici.
Ugo da San Vittore è
qui con elli,
e Pietro Mangiadore e
Pietro Spano,
lo qual giù luce in
dodici libelli;
Natàn profeta e ´l
metropolitano
Crisostomo e Anselmo e
quel Donato
ch´a la prim´ arte degnò
porre mano.
Rabano è qui, e lucemi
dallato
il calavrese abate
Giovacchino
di spirito profetico
dotato.
Ad inveggiar cotanto
paladino
mi mosse l´infiammata
cortesia
di fra Tommaso e ´l
discreto latino;
e mosse meco questa
compagnia".
Imagini, chi bene
intender cupe
quel ch´i´ or vidi (e
ritegna l´image,
mentre ch´io dico, come
ferma rupe),
quindici stelle che ´n
diverse plage
lo ciel avvivan di
tanto sereno
che soperchia de l´aere
ogne compage;
imagini quel carro a cu´
il seno
basta del nostro cielo
e notte e giorno,
sì ch´al volger del
temo non vien meno;
imagini la bocca di
quel corno
che si comincia in
punta de lo stelo
a cui la prima rota va
dintorno,
aver fatto di sé due
segni in cielo,
qual fece la figliuola
di Minoi
allora che sentì di
morte il gelo;
e l´un ne l´altro aver
li raggi suoi,
e amendue girarsi per
maniera
che l´uno andasse al
primo e l´altro al poi;
e avrà quasi l´ombra de
la vera
costellazione e de la
doppia danza
che circulava il punto
dov´ io era:
poi ch´è tanto di là da
nostra usanza,
quanto di là dal mover
de la Chiana
si move il ciel che
tutti li altri avanza.
Lì si cantò non Bacco,
non Peana,
ma tre persone in
divina natura,
e in una persona essa e
l´umana.
Compié ´l cantare e ´l
volger sua misura;
e attesersi a noi quei
santi lumi,
felicitando sé di cura
in cura.
Ruppe il silenzio ne´
concordi numi
poscia la luce in che
mirabil vita
del poverel di Dio
narrata fumi,
e disse: "Quando l´una
paglia è trita,
quando la sua semenza è
già riposta,
a batter l´altra dolce
amor m´invita.
Tu credi che nel petto
onde la costa
si trasse per formar la
bella guancia
il cui palato a tutto ´l
mondo costa,
e in quel che, forato
da la lancia,
e prima e poscia tanto
sodisfece,
che d´ogne colpa vince
la bilancia,
quantunque a la natura
umana lece
aver di lume, tutto
fosse infuso
da quel valor che l´uno
e l´altro fece;
e però miri a ciò ch´io
dissi suso,
quando narrai che non
ebbe ´l secondo
lo ben che ne la quinta
luce è chiuso.
Or apri li occhi a quel
ch´io ti rispondo,
e vedräi il tuo credere
e ´l mio dire
nel vero farsi come
centro in tondo.
Ciò che non more e ciò
che può morire
non è se non splendor
di quella idea
che partorisce, amando,
il nostro Sire;
ché quella viva luce
che sì mea
dal suo lucente, che
non si disuna
da lui né da l´amor ch´a
lor s´intrea,
per sua bontate il suo
raggiare aduna,
quasi specchiato, in
nove sussistenze,
etternalmente
rimanendosi una.
Quindi discende a l´ultime
potenze
giù d´atto in atto,
tanto divenendo,
che più non fa che
brevi contingenze;
e queste contingenze
essere intendo
le cose generate, che
produce
con seme e sanza seme
il ciel movendo.
La cera di costoro e
chi la duce
non sta d´un modo; e
però sotto ´l segno
idëale poi più e men
traluce.
Ond´ elli avvien ch´un
medesimo legno,
secondo specie, meglio
e peggio frutta;
e voi nascete con
diverso ingegno.
Se fosse a punto la
cera dedutta
e fosse il cielo in sua
virtù supprema,
la luce del suggel
parrebbe tutta;
ma la natura la dà
sempre scema,
similemente operando a
l´artista
ch´a l´abito de l´arte
ha man che trema.
Però se ´l caldo amor
la chiara vista
de la prima virtù
dispone e segna,
tutta la perfezion
quivi s´acquista.
Così fu fatta già la
terra degna
di tutta l´animal
perfezïone;
così fu fatta la
Vergine pregna;
sì ch´io commendo tua
oppinïone,
che l´umana natura mai
non fue
né fia qual fu in quelle
due persone.
Or s´i´ non procedesse
avanti piùe,
`Dunque, come
costui fu sanza pare?´
comincerebber le parole
tue.
Ma perché paia ben ciò
che non pare,
pensa chi era, e la
cagion che ´l mosse,
quando fu detto
"Chiedi", a dimandare.
Non ho parlato sì, che
tu non posse
ben veder ch´el fu re,
che chiese senno
acciò che re sufficïente
fosse;
non per sapere il
numero in che enno
li motor di qua sù, o
se necesse
con contingente mai
necesse fenno;
non si est dare primum
motum esse,
o se del mezzo cerchio
far si puote
trïangol sì ch´un retto
non avesse.
Onde, se ciò ch´io
dissi e questo note,
regal prudenza è quel
vedere impari
in che lo stral di mia
intenzion percuote;
e se al
"surse" drizzi li occhi chiari,
vedrai aver solamente
respetto
ai regi, che son molti,
e ´ buon son rari.
Con questa distinzion
prendi ´l mio detto;
e così puote star con
quel che credi
del primo padre e del
nostro Diletto.
E questo ti sia sempre
piombo a´ piedi,
per farti mover lento
com´ uom lasso
e al sì e al no che tu
non vedi:
ché quelli è tra li
stolti bene a basso,
che sanza distinzione
afferma e nega
ne l´un così come ne l´altro
passo;
perch´ elli ´ncontra
che più volte piega
l´oppinïon corrente in
falsa parte,
e poi l´affetto l´intelletto
lega.
Vie più che ´ndarno da
riva si parte,
perché non torna tal
qual e´ si move,
chi pesca per lo vero e
non ha l´arte.
E di ciò sono al mondo
aperte prove
Parmenide, Melisso e
Brisso e molti,
li quali andaro e non
sapëan dove;
sì fé Sabellio e Arrio
e quelli stolti
che furon come spade a
le Scritture
in render torti li
diritti volti.
Non sien le genti,
ancor, troppo sicure
a giudicar, sì come
quei che stima
le biade in campo pria
che sien mature;
ch´i´ ho veduto tutto ´l
verno prima
lo prun mostrarsi
rigido e feroce,
poscia portar la rosa
in su la cima;
e legno vidi già dritto
e veloce
correr lo mar per tutto
suo cammino,
perire al fine a l´intrar
de la foce.
Non creda donna Berta e
ser Martino,
per vedere un furare,
altro offerere,
vederli dentro al
consiglio divino;
ché quel può surgere, e
quel può cadere".
Dal centro al cerchio,
e sì dal cerchio al centro
movesi l´acqua in un
ritondo vaso,
secondo ch´è percosso fuori
o dentro:
ne la mia mente fé sùbito
caso
questo ch´io dico, sì
come si tacque
la glorïosa vita di
Tommaso,
per la similitudine che
nacque
del suo parlare e di
quel di Beatrice,
a cui sì cominciar,
dopo lui, piacque:
"A costui fa
mestieri, e nol vi dice
né con la voce né
pensando ancora,
d´un altro vero andare
a la radice.
Diteli se la luce onde
s´infiora
vostra sustanza, rimarrà
con voi
etternalmente sì com´
ell´ è ora;
e se rimane, dite come,
poi
che sarete visibili
rifatti,
esser porà ch´al veder
non vi nòi".
Come, da più letizia
pinti e tratti,
a la fïata quei che
vanno a rota
levan la voce e
rallegrano li atti,
così, a l´orazion
pronta e divota,
li santi cerchi mostrar
nova gioia
nel torneare e ne la
mira nota.
Qual si lamenta perché
qui si moia
per viver colà sù, non
vide quive
lo refrigerio de l´etterna
ploia.
Quell´ uno e due e tre
che sempre vive
e regna sempre in tre e
´n due e ´n uno,
non circunscritto, e
tutto circunscrive,
tre volte era cantato da
ciascuno
di quelli spirti con
tal melodia,
ch´ad ogne merto saria
giusto muno.
E io udi´ ne la luce più
dia
del minor cerchio una
voce modesta,
forse qual fu da l´angelo
a Maria,
risponder: "Quanto
fia lunga la festa
di paradiso, tanto il nostro
amore
si raggerà dintorno
cotal vesta.
La sua chiarezza séguita
l´ardore;
l´ardor la visïone, e
quella è tanta,
quant´ ha di grazia
sovra suo valore.
Come la carne glorïosa
e santa
fia rivestita, la
nostra persona
più grata fia per esser
tutta quanta;
per che s´accrescerà ciò
che ne dona
di gratüito lume il
sommo bene,
lume ch´a lui veder ne
condiziona;
onde la visïon crescer
convene,
crescer l´ardor che di
quella s´accende,
crescer lo raggio che
da esso vene.
Ma sì come carbon che
fiamma rende,
e per vivo candor
quella soverchia,
sì che la sua parvenza
si difende;
così questo folgór che
già ne cerchia
fia vinto in apparenza
da la carne
che tutto dì la terra
ricoperchia;
né potrà tanta luce
affaticarne:
ché li organi del corpo
saran forti
a tutto ciò che potrà
dilettarne".
Tanto mi parver sùbiti
e accorti
e l´uno e l´altro coro
a dicer "Amme!",
che ben mostrar disio d´i
corpi morti:
forse non pur per lor,
ma per le mamme,
per li padri e per li
altri che fuor cari
anzi che fosser
sempiterne fiamme.
Ed ecco intorno, di
chiarezza pari,
nascere un lustro sopra
quel che v´era,
per guisa d´orizzonte
che rischiari.
E sì come al salir di
prima sera
comincian per lo ciel
nove parvenze,
sì che la vista pare e
non par vera,
parvemi lì novelle
sussistenze
cominciare a vedere, e
fare un giro
di fuor da l´altre due
circunferenze.
Oh vero sfavillar del
Santo Spiro!
come si fece sùbito e
candente
a li occhi miei che,
vinti, nol soffriro!
Ma Bëatrice sì bella e
ridente
mi si mostrò, che tra
quelle vedute
si vuol lasciar che non
seguir la mente.
Quindi ripreser li
occhi miei virtute
a rilevarsi; e vidimi
translato
sol con mia donna in più
alta salute.
Ben m´accors´ io ch´io
era più levato,
per l´affocato riso de
la stella,
che mi parea più roggio
che l´usato.
Con tutto ´l core e con
quella favella
ch´è una in tutti, a
Dio feci olocausto,
qual conveniesi a la
grazia novella.
E non er´ anco del mio
petto essausto
l´ardor del sacrificio,
ch´io conobbi
esso litare stato
accetto e fausto;
ché con tanto lucore e
tanto robbi
m´apparvero splendor
dentro a due raggi,
ch´io dissi: "O Elïòs
che sì li addobbi!".
Come distinta da minori
e maggi
lumi biancheggia tra ´
poli del mondo
Galassia sì, che fa
dubbiar ben saggi;
sì costellati facean
nel profondo
Marte quei raggi il
venerabil segno
che fan giunture di
quadranti in tondo.
Qui vince la memoria
mia lo ´ngegno;
ché quella croce
lampeggiava Cristo,
sì ch´io non so trovare
essempro degno;
ma chi prende sua croce
e segue Cristo,
ancor mi scuserà di
quel ch´io lasso,
vedendo in quell´ albor
balenar Cristo.
Di corno in corno e tra
la cima e ´l basso
si movien lumi,
scintillando forte
nel congiugnersi
insieme e nel trapasso:
così si veggion qui
diritte e torte,
veloci e tarde,
rinovando vista,
le minuzie d´i corpi,
lunghe e corte,
moversi per lo raggio
onde si lista
talvolta l´ombra che,
per sua difesa,
la gente con ingegno e
arte acquista.
E come giga e arpa, in
tempra tesa
di molte corde, fa
dolce tintinno
a tal da cui la nota
non è intesa,
così da´ lumi che lì m´apparinno
s´accogliea per la
croce una melode
che mi rapiva, sanza
intender l´inno.
Ben m´accors´ io ch´elli
era d´alte lode,
però ch´a me venìa
"Resurgi" e "Vinci"
come a colui che non
intende e ode.
ïo m´innamorava tanto
quinci,
che ´nfino a lì non fu
alcuna cosa
che mi legasse con sì
dolci vinci.
Forse la mia parola par
troppo osa,
posponendo il piacer de
li occhi belli,
ne´ quai mirando mio
disio ha posa;
ma chi s´avvede che i
vivi suggelli
d´ogne bellezza più
fanno più suso,
e ch´io non m´era lì
rivolto a quelli,
escusar puommi di quel
ch´io m´accuso
per escusarmi, e
vedermi dir vero:
ché ´l piacer santo non
è qui dischiuso,
perché si fa, montando,
più sincero.
Benigna volontade in
che si liqua
sempre l´amor che
drittamente spira,
come cupidità fa ne la
iniqua,
silenzio puose a quella
dolce lira,
e fece quïetar le sante
corde
che la destra del cielo
allenta e tira.
Come saranno a´ giusti
preghi sorde
quelle sustanze che,
per darmi voglia
ch´io le pregassi, a
tacer fur concorde?
Bene è che sanza
termine si doglia
chi, per amor di cosa
che non duri
etternalmente, quello
amor si spoglia.
Quale per li seren
tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito
foco,
movendo li occhi che
stavan sicuri,
e pare stella che
tramuti loco,
se non che da la parte
ond´ e´ s´accende
nulla sen perde, ed
esso dura poco:
tale dal corno che ´n
destro si stende
a piè di quella croce
corse un astro
de la costellazion che
lì resplende;
né si partì la gemma
dal suo nastro,
ma per la lista radïal
trascorse,
che parve foco dietro
ad alabastro.
Sì pïa l´ombra d´Anchise
si porse,
se fede merta nostra
maggior musa,
quando in Eliso del
figlio s´accorse.
"O sanguis meus, o
superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi
cui
bis unquam celi ianüa
reclusa?".
Così quel lume: ond´ io
m´attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia
donna il viso,
e quinci e quindi
stupefatto fui;
ché dentro a li occhi
suoi ardeva un riso
tal, ch´io pensai co´
miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del
mio paradiso.
Indi, a udire e a veder
giocondo,
giunse lo spirto al suo
principio cose,
ch´io non lo ´ntesi, sì
parlò profondo;
né per elezïon mi si
nascose,
ma per necessità, ché ´l
suo concetto
al segno d´i mortal si
soprapuose.
E quando l´arco de l´ardente
affetto
fu sì sfogato, che ´l
parlar discese
inver´ lo segno del
nostro intelletto,
la prima cosa che per
me s´intese,
"Benedetto sia
tu", fu, "trino e uno,
che nel mio seme se´
tanto cortese!".
E seguì: "Grato e
lontano digiuno,
tratto leggendo del
magno volume
du´ non si muta mai
bianco né bruno,
solvuto hai, figlio,
dentro a questo lume
in ch´io ti parlo, mercè
di colei
ch´a l´alto volo ti
vestì le piume.
Tu credi che a me tuo
pensier mei
da quel ch´è primo, così
come raia
da l´un, se si conosce,
il cinque e ´l sei;
e però ch´io mi sia e
perch´ io paia
più gaudïoso a te, non
mi domandi,
che alcun altro in
questa turba gaia.
Tu credi ´l vero; ché i
minori e ´ grandi
di questa vita miran ne
lo speglio
in che, prima che
pensi, il pensier pandi;
ma perché ´l sacro
amore in che io veglio
con perpetüa vista e
che m´asseta
di dolce disïar, s´adempia
meglio,
la voce tua sicura,
balda e lieta
suoni la volontà, suoni
´l disio,
a che la mia risposta è
già decreta!".
Io mi volsi a Beatrice,
e quella udio
pria ch´io parlassi, e
arrisemi un cenno
che fece crescer l´ali
al voler mio.
Poi cominciai così:
"L´affetto e ´l senno,
come la prima equalità
v´apparse,
d´un peso per ciascun
di voi si fenno,
però che ´l sol che v´allumò
e arse,
col caldo e con la luce
è sì iguali,
che tutte simiglianze
sono scarse.
Ma voglia e argomento
ne´ mortali,
per la cagion ch´a voi è
manifesta,
diversamente son
pennuti in ali;
ond´ io, che son
mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però
non ringrazio
se non col core a la
paterna festa.
Ben supplico io a te,
vivo topazio
che questa gioia prezïosa
ingemmi,
perché mi facci del tuo
nome sazio".
"O fronda mia in
che io compiacemmi
pur aspettando, io fui
la tua radice":
cotal principio,
rispondendo, femmi.
Poscia mi disse:
"Quel da cui si dice
tua cognazione e che
cent´ anni e piùe
girato ha ´l monte in
la prima cornice,
mio figlio fu e tuo
bisavol fue:
ben si convien che la
lunga fatica
tu li raccorci con l´opere
tue.
Fiorenza dentro da la
cerchia antica,
ond´ ella toglie ancora
e terza e nona,
si stava in pace,
sobria e pudica.
Non avea catenella, non
corona,
non gonne contigiate,
non cintura
che fosse a veder più
che la persona.
Non faceva, nascendo,
ancor paura
la figlia al padre, che
´l tempo e la dote
non fuggien quinci e
quindi la misura.
Non avea case di
famiglia vòte;
non v´era giunto ancor
Sardanapalo
a mostrar ciò che ´n
camera si puote.
Non era vinto ancora
Montemalo
dal vostro Uccellatoio,
che, com´ è vinto
nel montar sù, così sarà
nel calo.
Bellincion Berti vid´
io andar cinto
di cuoio e d´osso, e
venir da lo specchio
la donna sua sanza ´l
viso dipinto;
e vidi quel d´i Nerli e
quel del Vecchio
esser contenti a la
pelle scoperta,
e le sue donne al fuso
e al pennecchio.
Oh fortunate! ciascuna
era certa
de la sua sepultura, e
ancor nulla
era per Francia nel
letto diserta.
L´una vegghiava a
studio de la culla,
e, consolando, usava l´idïoma
che prima i padri e le
madri trastulla;
l´altra, traendo a la
rocca la chioma,
favoleggiava con la sua
famiglia
d´i Troiani, di Fiesole
e di Roma.
Saria tenuta allor tal
maraviglia
una Cianghella, un Lapo
Salterello,
qual or saria
Cincinnato e Corniglia.
A così riposato, a così
bello
viver di cittadini, a
così fida
cittadinanza, a così
dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata
in alte grida;
e ne l´antico vostro
Batisteo
insieme fui cristiano e
Cacciaguida.
Moronto fu mio frate ed
Eliseo;
mia donna venne a me di
val di Pado,
e quindi il sopranome
tuo si feo.
Poi seguitai lo ´mperador
Currado;
ed el mi cinse de la
sua milizia,
tanto per bene ovrar li
venni in grado.
Dietro li andai
incontro a la nequizia
di quella legge il cui
popolo usurpa,
per colpa d´i pastor,
vostra giustizia.
Quivi fu´ io da quella
gente turpa
disviluppato dal mondo
fallace,
lo cui amor molt´ anime
deturpa;
e venni dal martiro a
questa pace".
O poca nostra nobiltà
di sangue,
se glorïar di te la
gente fai
qua giù dove l´affetto
nostro langue,
mirabil cosa non mi sarà
mai:
ché là dove appetito
non si torce,
dico nel cielo, io me
ne gloriai.
Ben se´ tu manto che
tosto raccorce:
sì che, se non s´appon
di dì in die,
lo tempo va dintorno
con le force.
Dal `voi´ che
prima a Roma s´offerie,
in che la sua famiglia
men persevra,
ricominciaron le parole
mie;
onde Beatrice, ch´era
un poco scevra,
ridendo, parve quella
che tossio
al primo fallo scritto
di Ginevra.
Io cominciai: "Voi
siete il padre mio;
voi mi date a parlar
tutta baldezza;
voi mi levate sì, ch´i´
son più ch´io.
Per tanti rivi s´empie
d´allegrezza
la mente mia, che di sé
fa letizia
perché può sostener che
non si spezza.
Ditemi dunque, cara mia
primizia,
quai fuor li vostri
antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in
vostra püerizia;
ditemi de l´ovil di San
Giovanni
quanto era allora, e
chi eran le genti
tra esso degne di più
alti scanni".
Come s´avviva a lo
spirar d´i venti
carbone in fiamma, così
vid´ io quella
luce risplendere a´
miei blandimenti;
e come a li occhi miei
si fé più bella,
così con voce più dolce
e soave,
ma non con questa
moderna favella,
dissemi: "Da quel
dì che fu detto `Ave´
al parto in che mia
madre, ch´è or santa,
s´allevïò di me ond´
era grave,
al suo Leon cinquecento
cinquanta
e trenta fiate venne
questo foco
a rinfiammarsi sotto la
sua pianta.
Li antichi miei e io
nacqui nel loco
dove si truova pria l´ultimo
sesto
da quei che corre il
vostro annüal gioco.
Basti d´i miei maggiori
udirne questo:
chi ei si fosser e onde
venner quivi,
più è tacer che
ragionare onesto.
Tutti color ch´a quel
tempo eran ivi
da poter arme tra Marte
e ´l Batista,
eran il quinto di quei
ch´or son vivi.
Ma la cittadinanza, ch´è
or mista
di Campi, di Certaldo e
di Fegghine,
pura vediesi ne l´ultimo
artista.
Oh quanto fora meglio
esser vicine
quelle genti ch´io
dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver
vostro confine,
che averle dentro e
sostener lo puzzo
del villan d´Aguglion,
di quel da Signa,
che già per barattare
ha l´occhio aguzzo!
Se la gente ch´al mondo
più traligna
non fosse stata a
Cesare noverca,
ma come madre a suo
figlio benigna,
tal fatto è fiorentino
e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a
Simifonti,
là dove andava l´avolo
a la cerca;
sariesi Montemurlo
ancor de´ Conti;
sarieno i Cerchi nel
piovier d´Acone,
e forse in Valdigrieve
i Buondelmonti.
Sempre la confusion de
le persone
principio fu del mal de
la cittade,
come del vostro il cibo
che s´appone;
e cieco toro più avaccio
cade
che cieco agnello; e
molte volte taglia
più e meglio una che le
cinque spade.
Se tu riguardi Luni e
Orbisaglia
come sono ite, e come
se ne vanno
di retro ad esse Chiusi
e Sinigaglia,
udir come le schiatte
si disfanno
non ti parrà nova cosa
né forte,
poscia che le cittadi
termine hanno.
Le vostre cose tutte
hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi
in alcuna
che dura molto, e le
vite son corte.
E come ´l volger del
ciel de la luna
cuopre e discuopre i
liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la
Fortuna:
per che non dee parer
mirabil cosa
ciò ch´io dirò de li
alti Fiorentini
onde è la fama nel
tempo nascosa.
Io vidi li Ughi e vidi
i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni
e Alberichi,
già nel calare,
illustri cittadini;
e vidi così grandi come
antichi,
con quel de la
Sannella, quel de l´Arca,
e Soldanieri e Ardinghi
e Bostichi.
Sovra la porta ch´al
presente è carca
di nova fellonia di
tanto peso
che tosto fia iattura
de la barca,
erano i Ravignani, ond´
è disceso
il conte Guido e
qualunque del nome
de l´alto Bellincione
ha poscia preso.
Quel de la Pressa
sapeva già come
regger si vuole, e avea
Galigaio
dorata in casa sua già
l´elsa e ´l pome.
Grand´ era già la
colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti
e Barucci
e Galli e quei ch´arrossan
per lo staio.
Lo ceppo di che
nacquero i Calfucci
era già grande, e già
eran tratti
a le curule Sizii e
Arrigucci.
Oh quali io vidi quei
che son disfatti
per lor superbia! e le
palle de l´oro
fiorian Fiorenza in
tutt´ i suoi gran fatti.
Così facieno i padri di
coloro
che, sempre che la
vostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando
a consistoro.
L´oltracotata schiatta
che s´indraca
dietro a chi fugge, e a
chi mostra ´l dente
o ver la borsa, com´
agnel si placa,
già venìa sù, ma di
picciola gente;
sì che non piacque ad
Ubertin Donato
che poï il suocero il fé
lor parente.
Già era ´l Caponsacco
nel mercato
disceso giù da Fiesole,
e già era
buon cittadino Giuda e
Infangato.
Io dirò cosa incredibile
e vera:
nel picciol cerchio s´entrava
per porta
che si nomava da quei
de la Pera.
Ciascun che de la bella
insegna porta
del gran barone il cui
nome e ´l cui pregio
la festa di Tommaso
riconforta,
da esso ebbe milizia e
privilegio;
avvegna che con popol
si rauni
oggi colui che la
fascia col fregio.
Già eran Gualterotti e
Importuni;
e ancor saria Borgo più
quïeto,
se di novi vicin fosser
digiuni.
La casa di che nacque
il vostro fleto,
per lo giusto disdegno
che v´ha morti
e puose fine al vostro
viver lieto,
era onorata, essa e
suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto
mal fuggisti
le nozze süe per li
altrui conforti!
Molti sarebber lieti,
che son tristi,
se Dio t´avesse
conceduto ad Ema
la prima volta ch´a
città venisti.
Ma conveniesi a quella
pietra scema
che guarda ´l ponte,
che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace
postrema.
Con queste genti, e con
altre con esse,
vid´ io Fiorenza in sì
fatto riposo,
che non avea cagione
onde piangesse.
Con queste genti vid´io
glorïoso
e giusto il popol suo,
tanto che ´l giglio
non era ad asta mai
posto a ritroso,
né per divisïon fatto
vermiglio".
Qual venne a Climenè,
per accertarsi
di ciò ch´avëa incontro
a sé udito,
quei ch´ancor fa li
padri ai figli scarsi;
tal era io, e tal era
sentito
e da Beatrice e da la
santa lampa
che pria per me avea
mutato sito.
Per che mia donna
"Manda fuor la vampa
del tuo disio", mi
disse, "sì ch´ella esca
segnata bene de la
interna stampa:
non perché nostra
conoscenza cresca
per tuo parlare, ma
perché t´ausi
a dir la sete, sì che l´uom
ti mesca".
"O cara piota mia
che sì t´insusi,
che, come veggion le
terrene menti
non capere in trïangol
due ottusi,
così vedi le cose
contingenti
anzi che sieno in sé,
mirando il punto
a cui tutti li tempi
son presenti;
mentre ch´io era a
Virgilio congiunto
su per lo monte che l´anime
cura
e discendendo nel mondo
defunto,
dette mi fuor di mia
vita futura
parole gravi, avvegna
ch´io mi senta
ben tetragono ai colpi
di ventura;
per che la voglia mia
saria contenta
d´intender qual fortuna
mi s´appressa:
ché saetta previsa vien
più lenta".
Così diss´ io a quella
luce stessa
che pria m´avea
parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia
confessa.
Né per ambage, in che
la gente folle
già s´inviscava pria
che fosse anciso
l´Agnel di Dio che le
peccata tolle,
ma per chiare parole e
con preciso
latin rispuose quello
amor paterno,
chiuso e parvente del
suo proprio riso:
"La contingenza,
che fuor del quaderno
de la vostra matera non
si stende,
tutta è dipinta nel
cospetto etterno;
necessità però quindi
non prende
se non come dal viso in
che si specchia
nave che per torrente
giù discende.
Da indi, sì come viene
ad orecchia
dolce armonia da
organo, mi viene
a vista il tempo che ti
s´apparecchia.
Qual si partio Ipolito
d´Atene
per la spietata e
perfida noverca,
tal di Fiorenza partir
ti convene.
Questo si vuole e
questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a
chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì
si merca.
La colpa seguirà la
parte offensa
in grido, come suol; ma
la vendetta
fia testimonio al ver
che la dispensa.
Tu lascerai ogne cosa
diletta
più caramente; e questo
è quello strale
che l´arco de lo essilio
pria saetta.
Tu proverai sì come sa
di sale
lo pane altrui, e come è
duro calle
lo scendere e ´l salir
per l´altrui scale.
E quel che più ti
graverà le spalle,
sarà la compagnia
malvagia e scempia
con la qual tu cadrai
in questa valle;
che tutta ingrata,
tutta matta ed empia
si farà contr´ a te;
ma, poco appresso,
ella, non tu, n´avrà
rossa la tempia.
Di sua bestialitate il
suo processo
farà la prova; sì ch´a
te fia bello
averti fatta parte per
te stesso.
Lo primo tuo refugio e ´l
primo ostello
sarà la cortesia del
gran Lombardo
che ´n su la scala
porta il santo uccello;
ch´in te avrà sì
benigno riguardo,
che del fare e del
chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra
li altri è più tardo.
Con lui vedrai colui
che ´mpresso fue,
nascendo, sì da questa
stella forte,
che notabili fier l´opere
sue.
Non se ne son le genti
ancora accorte
per la novella età, ché
pur nove anni
son queste rote intorno
di lui torte;
ma pria che ´l Guasco l´alto
Arrigo inganni,
parran faville de la
sua virtute
in non curar d´argento
né d´affanni.
Le sue magnificenze
conosciute
saranno ancora, sì che ´
suoi nemici
non ne potran tener le
lingue mute.
A lui t´aspetta e a´
suoi benefici;
per lui fia trasmutata
molta gente,
cambiando condizion
ricchi e mendici;
e portera´ne scritto ne
la mente
di lui, e nol
dirai"; e disse cose
incredibili a quei che
fier presente.
Poi giunse:
"Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu
detto; ecco le ´nsidie
che dietro a pochi giri
son nascose.
Non vo´ però ch´a´ tuoi
vicini invidie,
poscia che s´infutura
la tua vita
vie più là che ´l punir
di lor perfidie".
Poi che, tacendo, si
mostrò spedita
l´anima santa di metter
la trama
in quella tela ch´io le
porsi ordita,
io cominciai, come
colui che brama,
dubitando, consiglio da
persona
che vede e vuol
dirittamente e ama:
"Ben veggio, padre
mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per
colpo darmi
tal, ch´è più grave a
chi più s´abbandona;
per che di provedenza è
buon ch´io m´armi,
sì che, se loco m´è
tolto più caro,
io non perdessi li
altri per miei carmi.
Giù per lo mondo sanza
fine amaro,
e per lo monte del cui
bel cacume
li occhi de la mia
donna mi levaro,
e poscia per lo ciel,
di lume in lume,
ho io appreso quel che
s´io ridico,
a molti fia sapor di
forte agrume;
e s´io al vero son
timido amico,
temo di perder viver
tra coloro
che questo tempo
chiameranno antico".
La luce in che rideva
il mio tesoro
ch´io trovai lì, si fé
prima corusca,
quale a raggio di sole
specchio d´oro;
indi rispuose:
"Coscïenza fusca
o de la propria o de l´altrui
vergogna
pur sentirà la tua
parola brusca.
Ma nondimen, rimossa
ogne menzogna,
tutta tua visïon fa
manifesta;
e lascia pur grattar
dov´ è la rogna.
Ché se la voce tua sarà
molesta
nel primo gusto, vital
nodrimento
lascerà poi, quando sarà
digesta.
Questo tuo grido farà
come vento,
che le più alte cime più
percuote;
e ciò non fa d´onor
poco argomento.
Però ti son mostrate in
queste rote,
nel monte e ne la valle
dolorosa
pur l´anime che son di
fama note,
che l´animo di quel ch´ode,
non posa
né ferma fede per
essempro ch´aia
la sua radice incognita
e ascosa,
né per altro argomento
che non paia".
Già si godeva solo del
suo verbo
quello specchio beato,
e io gustava
lo mio, temprando col
dolce l´acerbo;
e quella donna ch´a Dio
mi menava
disse: "Muta
pensier; pensa ch´i´ sono
presso a colui ch´ogne
torto disgrava".
Io mi rivolsi a l´amoroso
suono
del mio conforto; e
qual io allor vidi
ne li occhi santi amor,
qui l´abbandono:
non perch´ io pur del
mio parlar diffidi,
ma per la mente che non
può redire
sovra sé tanto, s´altri
non la guidi.
Tanto poss´ io di quel
punto ridire,
che, rimirando lei, lo
mio affetto
libero fu da ogne altro
disire,
fin che ´l piacere
etterno, che diretto
raggiava in Bëatrice,
dal bel viso
mi contentava col
secondo aspetto.
Vincendo me col lume d´un
sorriso,
ella mi disse:
"Volgiti e ascolta;
ché non pur ne´ miei
occhi è paradiso".
Come si vede qui alcuna
volta
l´affetto ne la vista,
s´elli è tanto,
che da lui sia tutta l´anima
tolta,
così nel fiammeggiar
del folgór santo,
a ch´io mi volsi,
conobbi la voglia
in lui di ragionarmi
ancora alquanto.
El cominciò: "In
questa quinta soglia
de l´albero che vive de
la cima
e frutta sempre e mai
non perde foglia,
spiriti son beati, che
giù, prima
che venissero al ciel,
fuor di gran voce,
sì ch´ogne musa ne
sarebbe opima.
Però mira ne´ corni de
la croce:
quello ch´io nomerò, lì
farà l´atto
che fa in nube il suo
foco veloce".
Io vidi per la croce un
lume tratto
dal nomar Iosuè, com´
el si feo;
né mi fu noto il dir
prima che ´l fatto.
E al nome de l´alto
Macabeo
vidi moversi un altro
roteando,
e letizia era ferza del
paleo.
Così per Carlo Magno e
per Orlando
due ne seguì lo mio
attento sguardo,
com´ occhio segue suo
falcon volando.
Poscia trasse
Guiglielmo e Rinoardo
e ´l duca Gottifredi la
mia vista
per quella croce, e
Ruberto Guiscardo.
Indi, tra l´altre luci
mota e mista,
mostrommi l´alma che m´avea
parlato
qual era tra i cantor
del cielo artista.
Io mi rivolsi dal mio
destro lato
per vedere in Beatrice
il mio dovere,
o per parlare o per
atto, segnato;
e vidi le sue luci
tanto mere,
tanto gioconde, che la
sua sembianza
vinceva li altri e l´ultimo
solere.
E come, per sentir più
dilettanza
bene operando, l´uom di
giorno in giorno
s´accorge che la sua
virtute avanza,
sì m´accors´ io che ´l
mio girare intorno
col cielo insieme avea
cresciuto l´arco,
veggendo quel miracol
più addorno.
E qual è ´l trasmutare
in picciol varco
di tempo in bianca
donna, quando ´l volto
suo si discarchi di
vergogna il carco,
tal fu ne li occhi
miei, quando fui vòlto,
per lo candor de la
temprata stella
sesta, che dentro a sé
m´avea ricolto.
Io vidi in quella giovïal
facella
lo sfavillar de l´amor
che lì era
segnare a li occhi miei
nostra favella.
E come augelli surti di
rivera,
quasi congratulando a
lor pasture,
fanno di sé or tonda or
altra schiera,
sì dentro ai lumi sante
creature
volitando cantavano, e
faciensi
or D, or I, or L in sue
figure.
Prima, cantando, a sua
nota moviensi;
poi, diventando l´un di
questi segni,
un poco s´arrestavano e
taciensi.
O diva Pegasëa che li ´ngegni
fai glorïosi e rendili
longevi,
ed essi teco le cittadi
e ´ regni,
illustrami di te, sì ch´io
rilevi
le lor figure com´ io l´ho
concette:
paia tua possa in
questi versi brevi!
Mostrarsi dunque in
cinque volte sette
vocali e consonanti; e
io notai
le parti sì, come mi
parver dette.
`DILIGITE
IUSTITIAM´, primai
fur verbo e nome di
tutto ´l dipinto;
`QUI
IUDICATIS TERRAM´, fur sezzai.
Poscia ne l´emme del
vocabol quinto
rimasero ordinate; sì
che Giove
pareva argento lì d´oro
distinto.
E vidi scendere altre
luci dove
era il colmo de l´emme,
e lì quetarsi
cantando, credo, il ben
ch´a sé le move.
Poi, come nel percuoter
d´i ciocchi arsi
surgono innumerabili
faville,
onde li stolti sogliono
agurarsi,
resurger parver quindi
più di mille
luci e salir, qual
assai e qual poco,
sì come ´l sol che l´accende
sortille;
e quïetata ciascuna in
suo loco,
la testa e ´l collo d´un´aguglia
vidi
rappresentare a quel
distinto foco.
Quei che dipinge lì,
non ha chi ´l guidi;
ma esso guida, e da lui
si rammenta
quella virtù ch´è forma
per li nidi.
L´altra bëatitudo, che
contenta
pareva prima d´ingigliarsi
a l´emme,
con poco moto seguitò
la ´mprenta.
O dolce stella, quali e
quante gemme
mi dimostraro che
nostra giustizia
effetto sia del ciel
che tu ingemme!
Per ch´io prego la
mente in che s´inizia
tuo moto e tua virtute,
che rimiri
ond´ esce il fummo che ´l
tuo raggio vizia;
sì ch´un´altra fïata
omai s´adiri
del comperare e vender
dentro al templo
che si murò di segni e
di martìri.
O milizia del ciel cu´
io contemplo,
adora per color che
sono in terra
tutti svïati dietro al
malo essemplo!
Già si solea con le
spade far guerra;
ma or si fa togliendo
or qui or quivi
lo pan che ´l pïo Padre
a nessun serra.
Ma tu che sol per
cancellare scrivi,
pensa che Pietro e
Paulo, che moriro
per la vigna che
guasti, ancor son vivi.
Ben puoi tu dire:
"I´ ho fermo ´l disiro
sì a colui che volle
viver solo
e che per salti fu
tratto al martiro,
ch´io non conosco il
pescator né Polo".
Parea dinanzi a me con
l´ali aperte
la bella image che nel
dolce frui
liete facevan l´anime
conserte;
parea ciascuna
rubinetto in cui
raggio di sole ardesse
sì acceso,
che ne´ miei occhi
rifrangesse lui.
E quel che mi convien
ritrar testeso,
non portò voce mai, né
scrisse incostro,
né fu per fantasia già
mai compreso;
ch´io vidi e anche udi´
parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e
"io" e "mio",
quand´ era nel concetto
e `noi´ e `nostro´.
E cominciò: "Per
esser giusto e pio
son io qui essaltato a
quella gloria
che non si lascia
vincere a disio;
e in terra lasciai la
mia memoria
sì fatta, che le genti
lì malvage
commendan lei, ma non
seguon la storia".
Così un sol calor di
molte brage
si fa sentir, come di
molti amori
usciva solo un suon di
quella image.
Ond´ io appresso:
"O perpetüi fiori
de l´etterna letizia,
che pur uno
parer mi fate tutti
vostri odori,
solvetemi, spirando, il
gran digiuno
che lungamente m´ha
tenuto in fame,
non trovandoli in terra
cibo alcuno.
Ben so io che, se ´n
cielo altro reame
la divina giustizia fa
suo specchio,
che ´l vostro non l´apprende
con velame.
Sapete come attento io
m´apparecchio
ad ascoltar; sapete
qual è quello
dubbio che m´è digiun
cotanto vecchio".
Quasi falcone ch´esce
del cappello,
move la testa e con l´ali
si plaude,
voglia mostrando e
faccendosi bello,
vid´ io farsi quel
segno, che di laude
de la divina grazia era
contesto,
con canti quai si sa
chi là sù gaude.
Poi cominciò:
"Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo,
e dentro ad esso
distinse tanto occulto
e manifesto,
non poté suo valor sì
fare impresso
in tutto l´universo,
che ´l suo verbo
non rimanesse in
infinito eccesso.
E ciò fa certo che ´l
primo superbo,
che fu la somma d´ogne
creatura,
per non aspettar lume,
cadde acerbo;
e quinci appar ch´ogne
minor natura
è corto recettacolo a
quel bene
che non ha fine e sé
con sé misura.
Dunque vostra veduta,
che convene
esser alcun de´ raggi
de la mente
di che tutte le cose
son ripiene,
non pò da sua natura
esser possente
tanto, che suo
principio discerna
molto di là da quel che
l´è parvente.
Però ne la giustizia
sempiterna
la vista che riceve il
vostro mondo,
com´ occhio per lo
mare, entro s´interna;
che, ben che da la
proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e
nondimeno
èli, ma cela lui l´esser
profondo.
Lume non è, se non vien
dal sereno
che non si turba mai;
anzi è tenèbra
od ombra de la carne o
suo veleno.
Assai t´è mo aperta la
latebra
che t´ascondeva la
giustizia viva,
di che facei question
cotanto crebra;
ché tu dicevi: "Un
uom nasce a la riva
de l´Indo, e quivi non è
chi ragioni
di Cristo né chi legga
né chi scriva;
e tutti suoi voleri e
atti buoni
sono, quanto ragione
umana vede,
sanza peccato in vita o
in sermoni.
Muore non battezzato e
sanza fede:
ov´ è questa giustizia
che ´l condanna?
ov´ è la colpa sua, se
ei non crede?".
Or tu chi se´, che vuo´
sedere a scranna,
per giudicar di lungi
mille miglia
con la veduta corta d´una
spanna?
Certo a colui che meco
s´assottiglia,
se la Scrittura sovra
voi non fosse,
da dubitar sarebbe a
maraviglia.
Oh terreni animali! oh
menti grosse!
La prima volontà, ch´è
da sé buona,
da sé, ch´è sommo ben,
mai non si mosse.
Cotanto è giusto quanto
a lei consuona:
nullo creato bene a sé
la tira,
ma essa, radïando, lui
cagiona".
Quale sovresso il nido
si rigira
poi c´ha pasciuti la
cicogna i figli,
e come quel ch´è pasto
la rimira;
cotal si fece, e sì leväi
i cigli,
la benedetta imagine,
che l´ali
movea sospinte da tanti
consigli.
Roteando cantava, e
dicea: "Quali
son le mie note a te,
che non le ´ntendi,
tal è il giudicio
etterno a voi mortali".
Poi si quetaro quei
lucenti incendi
de lo Spirito Santo
ancor nel segno
che fé i Romani al
mondo reverendi,
esso ricominciò:
"A questo regno
non salì mai chi non
credette ´n Cristo,
né pria né poi ch´el si
chiavasse al legno.
Ma vedi: molti gridan
"Cristo, Cristo!",
che saranno in giudicio
assai men prope
a lui, che tal che non
conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà
l´Etïòpe,
quando si partiranno i
due collegi,
l´uno in etterno ricco
e l´altro inòpe.
Che poran dir li Perse
a´ vostri regi,
come vedranno quel
volume aperto
nel qual si scrivon
tutti suoi dispregi?
Lì si vedrà, tra l´opere
d´Alberto,
quella che tosto moverà
la penna,
per che ´l regno di
Praga fia diserto.
Lì si vedrà il duol che
sovra Senna
induce, falseggiando la
moneta,
quel che morrà di colpo
di cotenna.
Lì si vedrà la superbia
ch´asseta,
che fa lo Scotto e l´Inghilese
folle,
sì che non può soffrir
dentro a sua meta.
Vedrassi la lussuria e ´l
viver molle
di quel di Spagna e di
quel di Boemme,
che mai valor non
conobbe né volle.
Vedrassi al Ciotto di
Ierusalemme
segnata con un i la sua
bontate,
quando ´l contrario
segnerà un emme.
Vedrassi l´avarizia e
la viltate
di quei che guarda l´isola
del foco,
ove Anchise finì la
lunga etate;
e a dare ad intender
quanto è poco,
la sua scrittura fian
lettere mozze,
che noteranno molto in
parvo loco.
E parranno a ciascun l´opere
sozze
del barba e del fratel,
che tanto egregia
nazione e due corone
han fatte bozze.
E quel di Portogallo e
di Norvegia
lì si conosceranno, e
quel di Rascia
che male ha visto il
conio di Vinegia.
Oh beata Ungheria, se
non si lascia
più malmenare! e beata
Navarra,
se s´armasse del monte
che la fascia!
E creder de´ ciascun che
già, per arra
di questo, Niccosïa e
Famagosta
per la lor bestia si
lamenti e garra,
che dal fianco de l´altre
non si scosta".
Quando colui che tutto ´l
mondo alluma
de l´emisperio nostro sì
discende,
che ´l giorno d´ogne parte
si consuma,
lo ciel, che sol di lui
prima s´accende,
subitamente si rifà
parvente
per molte luci, in che
una risplende;
e questo atto del ciel
mi venne a mente,
come ´l segno del mondo
e de´ suoi duci
nel benedetto rostro fu
tacente;
però che tutte quelle
vive luci,
vie più lucendo,
cominciaron canti
da mia memoria labili e
caduci.
O dolce amor che di
riso t´ammanti,
quanto parevi ardente
in que´ flailli,
ch´avieno spirto sol di
pensier santi!
Poscia che i cari e
lucidi lapilli
ond´ io vidi ingemmato
il sesto lume
puoser silenzio a li
angelici squilli,
udir mi parve un
mormorar di fiume
che scende chiaro giù
di pietra in pietra,
mostrando l´ubertà del
suo cacume.
E come suono al collo
de la cetra
prende sua forma, e sì
com´ al pertugio
de la sampogna vento
che penètra,
così, rimosso d´aspettare
indugio,
quel mormorar de l´aguglia
salissi
su per lo collo, come
fosse bugio.
Fecesi voce quivi, e
quindi uscissi
per lo suo becco in
forma di parole,
quali aspettava il core
ov´ io le scrissi.
"La parte in me
che vede e pate il sole
ne l´aguglie
mortali", incominciommi,
"or fisamente
riguardar si vole,
perché d´i fuochi ond´
io figura fommi,
quelli onde l´occhio in
testa mi scintilla,
e´ di tutti lor gradi
son li sommi.
Colui che luce in mezzo
per pupilla,
fu il cantor de lo
Spirito Santo,
che l´arca traslatò di
villa in villa:
ora conosce il merto
del suo canto,
in quanto effetto fu
del suo consiglio,
per lo remunerar ch´è
altrettanto.
Dei cinque che mi fan
cerchio per ciglio,
colui che più al becco
mi s´accosta,
la vedovella consolò
del figlio:
ora conosce quanto caro
costa
non seguir Cristo, per
l´esperïenza
di questa dolce vita e
de l´opposta.
E quel che segue in la
circunferenza
di che ragiono, per l´arco
superno,
morte indugiò per vera
penitenza:
ora conosce che ´l
giudicio etterno
non si trasmuta, quando
degno preco
fa crastino là giù de l´odïerno.
L´altro che segue, con
le leggi e meco,
sotto buona intenzion
che fé mal frutto,
per cedere al pastor si
fece greco:
ora conosce come il mal
dedutto
dal suo bene operar non
li è nocivo,
avvegna che sia ´l
mondo indi distrutto.
E quel che vedi ne l´arco
declivo,
Guiglielmo fu, cui
quella terra plora
che piagne Carlo e
Federigo vivo:
ora conosce come s´innamora
lo ciel del giusto
rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa
vedere ancora.
Chi crederebbe giù nel
mondo errante
che Rifëo Troiano in
questo tondo
fosse la quinta de le
luci sante?
Ora conosce assai di
quel che ´l mondo
veder non può de la
divina grazia,
ben che sua vista non
discerna il fondo".
Quale allodetta che ´n
aere si spazia
prima cantando, e poi
tace contenta
de l´ultima dolcezza
che la sazia,
tal mi sembiò l´imago
de la ´mprenta
de l´etterno piacere,
al cui disio
ciascuna cosa qual ell´
è diventa.
E avvegna ch´io fossi
al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo
color ch´el veste,
tempo aspettar tacendo
non patio,
ma de la bocca,
"Che cose son queste?",
mi pinse con la forza
del suo peso:
per ch´io di coruscar
vidi gran feste.
Poi appresso, con l´occhio
più acceso,
lo benedetto segno mi
rispuose
per non tenermi in
ammirar sospeso:
"Io veggio che tu
credi queste cose
perch´ io le dico, ma
non vedi come;
sì che, se son credute,
sono ascose.
Fai come quei che la
cosa per nome
apprende ben, ma la sua
quiditate
veder non può se altri
non la prome.
Regnum celorum vïolenza
pate
da caldo amore e da
viva speranza,
che vince la divina
volontate:
non a guisa che l´omo a
l´om sobranza,
ma vince lei perché
vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua
beninanza.
La prima vita del
ciglio e la quinta
ti fa maravigliar,
perché ne vedi
la regïon de li angeli
dipinta.
D´i corpi suoi non
uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani,
in ferma fede
quel d´i passuri e quel
d´i passi piedi.
Ché l´una de lo ´nferno,
u´ non si riede
già mai a buon voler,
tornò a l´ossa;
e ciò di viva spene fu
mercede:
di viva spene, che mise
la possa
ne´ prieghi fatti a Dio
per suscitarla,
sì che potesse sua
voglia esser mossa.
L´anima glorïosa onde
si parla,
tornata ne la carne, in
che fu poco,
credette in lui che potëa
aiutarla;
e credendo s´accese in
tanto foco
di vero amor, ch´a la
morte seconda
fu degna di venire a
questo gioco.
L´altra, per grazia che
da sì profonda
fontana stilla, che mai
creatura
non pinse l´occhio
infino a la prima onda,
tutto suo amor là giù
pose a drittura:
per che, di grazia in
grazia, Dio li aperse
l´occhio a la nostra
redenzion futura;
ond´ ei credette in
quella, e non sofferse
da indi il puzzo più
del paganesmo;
e riprendiene le genti
perverse.
Quelle tre donne li fur
per battesmo
che tu vedesti da la
destra rota,
dinanzi al battezzar più
d´un millesmo.
O predestinazion,
quanto remota
è la radice tua da
quelli aspetti
che la prima cagion non
veggion tota!
E voi, mortali,
tenetevi stretti
a giudicar: ché noi,
che Dio vedemo,
non conosciamo ancor
tutti li eletti;
ed ènne dolce così
fatto scemo,
perché il ben nostro in
questo ben s´affina,
che quel che vole
Iddio, e noi volemo".
Così da quella imagine
divina,
per farmi chiara la mia
corta vista,
data mi fu soave
medicina.
E come a buon cantor
buon citarista
fa seguitar lo guizzo
de la corda,
in che più di piacer lo
canto acquista,
sì, mentre ch´e´ parlò,
sì mi ricorda
ch´io vidi le due luci
benedette,
pur come batter d´occhi
si concorda,
con le parole mover le
fiammette.
Già eran li occhi miei
rifissi al volto
de la mia donna, e l´animo
con essi,
e da ogne altro intento
s´era tolto.
E quella non ridea; ma
"S´io ridessi",
mi cominciò, "tu
ti faresti quale
fu Semelè quando di
cener fessi:
ché la bellezza mia,
che per le scale
de l´etterno palazzo più
s´accende,
com´ hai veduto, quanto
più si sale,
se non si temperasse,
tanto splende,
che ´l tuo mortal
podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che
trono scoscende.
Noi sem levati al
settimo splendore,
che sotto ´l petto del
Leone ardente
raggia mo misto giù del
suo valore.
Ficca di retro a li
occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi
a la figura
che ´n questo specchio
ti sarà parvente".
Qual savesse qual era
la pastura
del viso mio ne l´aspetto
beato
quand´ io mi trasmutai
ad altra cura,
conoscerebbe quanto m´era
a grato
ubidire a la mia
celeste scorta,
contrapesando l´un con
l´altro lato.
Dentro al cristallo che
´l vocabol porta,
cerchiando il mondo,
del suo caro duce
sotto cui giacque ogne
malizia morta,
di color d´oro in che raggio
traluce
vid´ io uno scaleo
eretto in suso
tanto, che nol seguiva
la mia luce.
Vidi anche per li gradi
scender giuso
tanti splendor, ch´io
pensai ch´ogne lume
che par nel ciel,
quindi fosse diffuso.
E come, per lo natural
costume,
le pole insieme, al
cominciar del giorno,
si movono a scaldar le
fredde piume;
poi altre vanno via
sanza ritorno,
altre rivolgon sé onde
son mosse,
e altre roteando fan
soggiorno;
tal modo parve me che
quivi fosse
in quello sfavillar che
´nsieme venne,
sì come in certo grado
si percosse.
E quel che presso più
ci si ritenne,
si fé sì chiaro, ch´io
dicea pensando:
`Io veggio
ben l´amor che tu m´accenne.
Ma quella ond´ io
aspetto il come e ´l quando
del dire e del tacer,
si sta; ond´ io,
contra ´l disio, fo ben
ch´io non dimando´.
Per ch´ella, che vedëa
il tacer mio
nel veder di colui che
tutto vede,
mi disse: "Solvi
il tuo caldo disio".
E io incominciai:
"La mia mercede
non mi fa degno de la
tua risposta;
ma per colei che ´l chieder
mi concede,
vita beata che ti stai
nascosta
dentro a la tua
letizia, fammi nota
la cagion che sì presso
mi t´ha posta;
e dì perché si tace in
questa rota
la dolce sinfonia di
paradiso,
che giù per l´altre
suona sì divota".
"Tu hai l´udir
mortal sì come il viso",
rispuose a me;
"onde qui non si canta
per quel che Bëatrice
non ha riso.
Giù per li gradi de la
scala santa
discesi tanto sol per
farti festa
col dire e con la luce
che mi ammanta;
né più amor mi fece
esser più presta,
ché più e tanto amor
quinci sù ferve,
sì come il fiammeggiar
ti manifesta.
Ma l´alta carità, che
ci fa serve
pronte al consiglio che
´l mondo governa,
sorteggia qui sì come
tu osserve".
"Io veggio
ben", diss´ io, "sacra lucerna,
come libero amore in
questa corte
basta a seguir la
provedenza etterna;
ma questo è quel ch´a
cerner mi par forte,
perché predestinata
fosti sola
a questo officio tra le
tue consorte".
Né venni prima a l´ultima
parola,
che del suo mezzo fece
il lume centro,
girando sé come veloce
mola;
poi rispuose l´amor che
v´era dentro:
"Luce divina sopra
me s´appunta,
penetrando per questa
in ch´io m´inventro,
la cui virtù, col mio
veder congiunta,
mi leva sopra me tanto,
ch´i´ veggio
la somma essenza de la
quale è munta.
Quinci vien l´allegrezza
ond´ io fiammeggio;
per ch´a la vista mia,
quant´ ella è chiara,
la chiarità de la
fiamma pareggio.
Ma quell´ alma nel ciel
che più si schiara,
quel serafin che ´n Dio
più l´occhio ha fisso,
a la dimanda tua non satisfara,
però che sì s´innoltra
ne lo abisso
de l´etterno statuto
quel che chiedi,
che da ogne creata
vista è scisso.
E al mondo mortal,
quando tu riedi,
questo rapporta, sì che
non presumma
a tanto segno più mover
li piedi.
La mente, che qui luce,
in terra fumma;
onde riguarda come può
là giùe
quel che non pote perché
´l ciel l´assumma".
Sì mi prescrisser le
parole sue,
ch´io lasciai la
quistione e mi ritrassi
a dimandarla umilmente
chi fue.
"Tra ´ due liti d´Italia
surgon sassi,
e non molto distanti a
la tua patria,
tanto che ´ troni assai
suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si
chiama Catria,
di sotto al quale è
consecrato un ermo,
che suole esser
disposto a sola latria".
Così ricominciommi il
terzo sermo;
e poi, continüando,
disse: "Quivi
al servigio di Dio mi
fe´ sì fermo,
che pur con cibi di
liquor d´ulivi
lievemente passava
caldi e geli,
contento ne´ pensier
contemplativi.
Render solea quel
chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è
fatto vano,
sì che tosto convien
che si riveli.
In quel loco fu´ io
Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu´
ne la casa
di Nostra Donna in sul
lito adriano.
Poca vita mortal m´era
rimasa,
quando fui chiesto e
tratto a quel cappello,
che pur di male in
peggio si travasa.
Venne Cefàs e venne il
gran vasello
de lo Spirito Santo,
magri e scalzi,
prendendo il cibo da
qualunque ostello.
Or voglion quinci e
quindi chi rincalzi
li moderni pastori e
chi li meni,
tanto son gravi, e chi
di rietro li alzi.
Cuopron d´i manti loro
i palafreni,
sì che due bestie van
sott´ una pelle:
oh pazïenza che tanto
sostieni!".
A questa voce vid´ io
più fiammelle
di grado in grado
scendere e girarsi,
e ogne giro le facea più
belle.
Dintorno a questa
vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì
alto suono,
che non potrebbe qui
assomigliarsi;
né io lo ´ntesi, sì mi
vinse il tuono.
Oppresso di stupore, a
la mia guida
mi volsi, come parvol
che ricorre
sempre colà dove più si
confida;
e quella, come madre
che soccorre
sùbito al figlio palido
e anelo
con la sua voce, che ´l
suol ben disporre,
mi disse: "Non sai
tu che tu se´ in cielo?
e non sai tu che ´l
cielo è tutto santo,
e ciò che ci si fa vien
da buon zelo?
Come t´avrebbe trasmutato
il canto,
e io ridendo, mo pensar
lo puoi,
poscia che ´l grido t´ha
mosso cotanto;
nel qual, se ´nteso
avessi i prieghi suoi,
già ti sarebbe nota la
vendetta
che tu vedrai innanzi
che tu muoi.
La spada di qua sù non
taglia in fretta
né tardo, ma´ ch´al
parer di colui
che disïando o temendo
l´aspetta.
Ma rivolgiti omai
inverso altrui;
ch´assai illustri
spiriti vedrai,
se com´ io dico l´aspetto
redui".
Come a lei piacque, li
occhi ritornai,
e vidi cento sperule
che ´nsieme
più s´abbellivan con
mutüi rai.
Io stava come quei che ´n
sé repreme
la punta del disio, e
non s´attenta
di domandar, sì del
troppo si teme;
e la maggiore e la più
luculenta
di quelle margherite
innanzi fessi,
per far di sé la mia
voglia contenta.
Poi dentro a lei udi´:
"Se tu vedessi
com´ io la carità che
tra noi arde,
li tuoi concetti
sarebbero espressi.
Ma perché tu,
aspettando, non tarde
a l´alto fine, io ti
farò risposta
pur al pensier, da che
sì ti riguarde.
Quel monte a cui
Cassino è ne la costa
fu frequentato già in
su la cima
da la gente ingannata e
mal disposta;
e quel son io che sù vi
portai prima
lo nome di colui che ´n
terra addusse
la verità che tanto ci
soblima;
e tanta grazia sopra me
relusse,
ch´io ritrassi le ville
circunstanti
da l´empio cólto che ´l
mondo sedusse.
Questi altri fuochi
tutti contemplanti
uomini fuoro, accesi di
quel caldo
che fa nascere i fiori
e ´ frutti santi.
Qui è Maccario, qui è
Romoaldo,
qui son li frati miei
che dentro ai chiostri
fermar li piedi e
tennero il cor saldo".
E io a lui: "L´affetto
che dimostri
meco parlando, e la
buona sembianza
ch´io veggio e noto in
tutti li ardor vostri,
così m´ha dilatata mia
fidanza,
come ´l sol fa la rosa
quando aperta
tanto divien quant´ ell´
ha di possanza.
Però ti priego, e tu,
padre, m´accerta
s´io posso prender
tanta grazia, ch´io
ti veggia con imagine
scoverta".
Ond´ elli: "Frate,
il tuo alto disio
s´adempierà in su l´ultima
spera,
ove s´adempion tutti li
altri e ´l mio.
Ivi è perfetta, matura
e intera
ciascuna disïanza; in
quella sola
è ogne parte là ove
sempr´ era,
perché non è in loco e
non s´impola;
e nostra scala infino
ad essa varca,
onde così dal viso ti s´invola.
Infin là sù la vide il
patriarca
Iacobbe porger la
superna parte,
quando li apparve d´angeli
sì carca.
Ma, per salirla, mo
nessun diparte
da terra i piedi, e la
regola mia
rimasa è per danno de
le carte.
Le mura che solieno
esser badia
fatte sono spelonche, e
le cocolle
sacca son piene di
farina ria.
Ma grave usura tanto
non si tolle
contra ´l piacer di
Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de´
monaci sì folle;
ché quantunque la
Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per
Dio dimanda;
non di parenti né d´altro
più brutto.
La carne d´i mortali è
tanto blanda,
che giù non basta buon
cominciamento
dal nascer de la
quercia al far la ghianda.
Pier cominciò sanz´ oro
e sanz´ argento,
e io con orazione e con
digiuno,
e Francesco umilmente
il suo convento;
e se guardi ´l
principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov´
è trascorso,
tu vederai del bianco
fatto bruno.
Veramente Iordan vòlto
retrorso
più fu, e ´l mar
fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che
qui ´l soccorso".
Così mi disse, e indi
si raccolse
al suo collegio, e ´l
collegio si strinse;
poi, come turbo, in sù
tutto s´avvolse.
La dolce donna dietro a
lor mi pinse
con un sol cenno su per
quella scala,
sì sua virtù la mia
natura vinse;
né mai qua giù dove si
monta e cala
naturalmente, fu sì
ratto moto
ch´agguagliar si
potesse a la mia ala.
S´io torni mai,
lettore, a quel divoto
trïunfo per lo quale io
piango spesso
le mie peccata e ´l
petto mi percuoto,
tu non avresti in tanto
tratto e messo
nel foco il dito, in
quant´ io vidi ´l segno
che segue il Tauro e
fui dentro da esso.
O glorïose stelle, o
lume pregno
di gran virtù, dal
quale io riconosco
tutto, qual che si sia,
il mio ingegno,
con voi nasceva e s´ascondeva
vosco
quelli ch´è padre d´ogne
mortal vita,
quand´ io senti´ di
prima l´aere tosco;
e poi, quando mi fu
grazia largita
d´entrar ne l´alta rota
che vi gira,
la vostra regïon mi fu
sortita.
A voi divotamente ora
sospira
l´anima mia, per
acquistar virtute
al passo forte che a sé
la tira.
"Tu se´ sì presso
a l´ultima salute",
cominciò Bëatrice,
"che tu dei
aver le luci tue chiare
e acute;
e però, prima che tu più
t´inlei,
rimira in giù, e vedi
quanto mondo
sotto li piedi già
esser ti fei;
sì che ´l tuo cor,
quantunque può, giocondo
s´appresenti a la turba
trïunfante
che lieta vien per
questo etera tondo".
Col viso ritornai per
tutte quante
le sette spere, e vidi
questo globo
tal, ch´io sorrisi del
suo vil sembiante;
e quel consiglio per
migliore approbo
che l´ha per meno; e
chi ad altro pensa
chiamar si puote
veramente probo.
Vidi la figlia di
Latona incensa
sanza quell´ ombra che
mi fu cagione
per che già la credetti
rara e densa.
L´aspetto del tuo nato,
Iperïone,
quivi sostenni, e vidi
com´ si move
circa e vicino a lui
Maia e Dïone.
Quindi m´apparve il
temperar di Giove
tra ´l padre e ´l
figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di
lor dove;
e tutti e sette mi si
dimostraro
quanto son grandi e
quanto son veloci
e come sono in distante
riparo.
L´aiuola che ci fa
tanto feroci, volgendom´ io con li etterni Gemelli, tutta m´apparve da´ colli a
le foci;
poscia rivolsi li occhi
a li occhi belli.
Come l´augello, intra l´amate
fronde,
posato al nido de´ suoi
dolci nati
la notte che le cose ci
nasconde,
che, per veder li
aspetti disïati
e per trovar lo cibo
onde li pasca,
in che gravi labor li
sono aggrati,
previene il tempo in su
aperta frasca,
e con ardente affetto
il sole aspetta,
fiso guardando pur che
l´alba nasca;
così la donna mïa stava
eretta
e attenta, rivolta
inver´ la plaga
sotto la quale il sol
mostra men fretta:
sì che, veggendola io
sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che
disïando
altro vorria, e
sperando s´appaga.
Ma poco fu tra uno e altro
quando,
del mio attender, dico,
e del vedere
lo ciel venir più e più
rischiarando;
e Bëatrice disse:
"Ecco le schiere
del trïunfo di Cristo e
tutto ´l frutto
ricolto del girar di
queste spere!".
Pariemi che ´l suo viso
ardesse tutto,
e li occhi avea di
letizia sì pieni,
che passarmen convien
sanza costrutto.
Quale ne´ plenilunïi
sereni
Trivïa ride tra le
ninfe etterne
che dipingon lo ciel
per tutti i seni,
vid´ i´ sopra migliaia
di lucerne
un sol che tutte quante
l´accendea,
come fa ´l nostro le
viste superne;
e per la viva luce
trasparea
la lucente sustanza
tanto chiara
nel viso mio, che non
la sostenea.
Oh Bëatrice, dolce
guida e cara!
Ella mi disse:
"Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si
ripara.
Quivi è la sapïenza e
la possanza
ch´aprì le strade tra ´l
cielo e la terra,
onde fu già sì lunga
disïanza".
Come foco di nube si
diserra
per dilatarsi sì che
non vi cape,
e fuor di sua natura in
giù s´atterra,
la mente mia così, tra
quelle dape
fatta più grande, di sé
stessa uscìo,
e che si fesse
rimembrar non sape.
"Apri li occhi e
riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che
possente
se´ fatto a sostener lo
riso mio".
Io era come quei che si
risente
di visïone oblita e che
s´ingegna
indarno di ridurlasi a
la mente,
quand´ io udi´ questa
proferta, degna
di tanto grato, che mai
non si stingue
del libro che ´l
preterito rassegna.
Se mo sonasser tutte
quelle lingue
che Polimnïa con le
suore fero
del latte lor
dolcissimo più pingue,
per aiutarmi, al
millesmo del vero
non si verria, cantando
il santo riso
e quanto il santo
aspetto facea mero;
e così, figurando il
paradiso,
convien saltar lo
sacrato poema,
come chi trova suo
cammin riciso.
Ma chi pensasse il
ponderoso tema
e l´omero mortal che se
ne carca,
nol biasmerebbe se sott´
esso trema:
non è pareggio da
picciola barca
quel che fendendo va l´ardita
prora,
né da nocchier ch´a sé
medesmo parca.
"Perché la faccia
mia sì t´innamora,
che tu non ti rivolgi
al bel giardino
che sotto i raggi di
Cristo s´infiora?
Quivi è la rosa in che ´l
verbo divino
carne si fece; quivi
son li gigli
al cui odor si prese il
buon cammino".
Così Beatrice; e io,
che a´ suoi consigli
tutto era pronto,
ancora mi rendei
a la battaglia de´
debili cigli.
Come a raggio di sol,
che puro mei
per fratta nube, già
prato di fiori
vider, coverti d´ombra,
li occhi miei;
vid´ io così più turbe
di splendori,
folgorate di sù da
raggi ardenti,
sanza veder principio
di folgóri.
O benigna vertù che sì
li ´mprenti,
sù t´essaltasti, per
largirmi loco
a li occhi lì che non t´eran
possenti.
Il nome del bel fior ch´io
sempre invoco
e mane e sera, tutto mi
ristrinse
l´animo ad avvisar lo
maggior foco;
e come ambo le luci mi
dipinse
il quale e il quanto de
la viva stella
che là sù vince come
qua giù vinse,
per entro il cielo
scese una facella,
formata in cerchio a
guisa di corona,
e cinsela e girossi
intorno ad ella.
Qualunque melodia più
dolce suona
qua giù e più a sé l´anima
tira,
parrebbe nube che
squarciata tona,
comparata al sonar di
quella lira
onde si coronava il bel
zaffiro
del quale il ciel più
chiaro s´inzaffira.
"Io sono amore
angelico, che giro
l´alta letizia che
spira del ventre
che fu albergo del
nostro disiro;
e girerommi, donna del
ciel, mentre
che seguirai tuo
figlio, e farai dia
più la spera suprema
perché lì entre".
Così la circulata
melodia
si sigillava, e tutti
li altri lumi
facean sonare il nome
di Maria.
Lo real manto di tutti
i volumi
del mondo, che più
ferve e più s´avviva
ne l´alito di Dio e nei
costumi,
avea sopra di noi l´interna
riva
tanto distante, che la
sua parvenza,
là dov´ io era, ancor
non appariva:
però non ebber li occhi
miei potenza
di seguitar la coronata
fiamma
che si levò appresso
sua semenza.
E come fantolin che ´nver´
la mamma
tende le braccia, poi
che ´l latte prese,
per l´animo che ´nfin
di fuor s´infiamma;
ciascun di quei candori
in sù si stese
con la sua cima, sì che
l´alto affetto
ch´elli avieno a Maria
mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio
cospetto,
`Regina celi´
cantando sì dolce,
che mai da me non si
partì ´l diletto.
Oh quanta è l´ubertà
che si soffolce
in quelle arche
ricchissime che fuoro
a seminar qua giù buone
bobolce!
Quivi si vive e gode
del tesoro
che s´acquistò
piangendo ne lo essilio
di Babillòn, ove si
lasciò l´oro.
Quivi trïunfa, sotto l´alto
Filio
di Dio e di Maria, di
sua vittoria,
e con l´antico e col
novo concilio,
colui che tien le
chiavi di tal gloria.
"O sodalizio
eletto a la gran cena
del benedetto Agnello,
il qual vi ciba
sì, che la vostra
voglia è sempre piena,
se per grazia di Dio
questi preliba
di quel che cade de la
vostra mensa,
prima che morte tempo
li prescriba,
ponete mente a l´affezione
immensa
e roratelo alquanto:
voi bevete
sempre del fonte onde
vien quel ch´ei pensa".
Così Beatrice; e quelle
anime liete
si fero spere sopra
fissi poli,
fiammando, a volte, a
guisa di comete.
E come cerchi in tempra
d´orïuoli
si giran sì, che ´l
primo a chi pon mente
quïeto pare, e l´ultimo
che voli;
così quelle carole,
differente-
mente danzando, de la
sua ricchezza
mi facieno stimar,
veloci e lente.
Di quella ch´io notai
di più carezza
vid´ ïo uscire un foco
sì felice,
che nullo vi lasciò di
più chiarezza;
e tre fïate intorno di
Beatrice
si volse con un canto
tanto divo,
che la mia fantasia nol
mi ridice.
Però salta la penna e
non lo scrivo:
ché l´imagine nostra a
cotai pieghe,
non che ´l parlare, è
troppo color vivo.
"O santa suora mia
che sì ne prieghe
divota, per lo tuo
ardente affetto
da quella bella spera
mi disleghe".
Poscia fermato, il foco
benedetto
a la mia donna dirizzò
lo spiro,
che favellò così com´ i´
ho detto.
Ed ella: "O luce
etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor
lasciò le chiavi,
ch´ei portò giù, di
questo gaudio miro,
tenta costui di punti
lievi e gravi,
come ti piace, intorno
de la fede,
per la qual tu su per
lo mare andavi.
S´elli ama bene e bene
spera e crede,
non t´è occulto, perché
´l viso hai quivi
dov´ ogne cosa dipinta
si vede;
ma perché questo regno
ha fatto civi
per la verace fede, a
glorïarla,
di lei parlare è ben ch´a
lui arrivi".
Sì come il baccialier s´arma
e non parla
fin che ´l maestro la
question propone,
per approvarla, non per
terminarla,
così m´armava io d´ogne
ragione
mentre ch´ella dicea,
per esser presto
a tal querente e a tal
professione.
"Dì, buon
Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?". Ond´
io levai la fronte
in quella luce onde
spirava questo;
poi mi volsi a
Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch´ ïo
spandessi
l´acqua di fuor del mio
interno fonte.
"La Grazia che mi
dà ch´io mi confessi",
comincia´ io, "da
l´alto primipilo,
faccia li miei concetti
bene espressi".
E seguitai: "Come ´l
verace stilo
ne scrisse, padre, del
tuo caro frate
che mise teco Roma nel
buon filo,
fede è sustanza di cose
sperate
e argomento de le non
parventi;
e questa pare a me sua
quiditate".
Allora udi´:
"Dirittamente senti,
se bene intendi perché
la ripuose
tra le sustanze, e poi
tra li argomenti".
E io appresso: "Le
profonde cose
che mi largiscon qui la
lor parvenza,
a li occhi di là giù
son sì ascose,
che l´esser loro v´è in
sola credenza,
sopra la qual si fonda
l´alta spene;
e però di sustanza
prende intenza.
E da questa credenza ci
convene
silogizzar, sanz´ avere
altra vista:
però intenza d´argomento
tene".
Allora udi´: "Se
quantunque s´acquista
giù per dottrina, fosse
così ´nteso,
non lì avria loco
ingegno di sofista".
Così spirò di quello
amore acceso;
indi soggiunse:
"Assai bene è trascorsa
d´esta moneta già la
lega e ´l peso;
ma dimmi se tu l´hai ne
la tua borsa".
Ond´ io: "Sì ho, sì
lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla
mi s´inforsa".
Appresso uscì de la
luce profonda
che lì splendeva:
"Questa cara gioia
sopra la quale ogne
virtù si fonda,
onde ti venne?". E
io: "La larga ploia
de lo Spirito Santo, ch´è
diffusa
in su le vecchie e ´n
su le nuove cuoia,
è silogismo che la m´ha
conchiusa
acutamente sì, che ´nverso
d´ella
ogne dimostrazion mi
pare ottusa".
Io udi´ poi: "L´antica
e la novella
proposizion che così ti
conchiude,
perché l´hai tu per
divina favella?".
E io: "La prova
che ´l ver mi dischiude,
son l´opere seguite, a
che natura
non scalda ferro mai né
batte incude".
Risposto fummi: "Dì,
chi t´assicura
che quell´ opere
fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non
altri, il ti giura".
"Se ´l mondo si
rivolse al cristianesmo",
diss´ io, "sanza
miracoli, quest´ uno
è tal, che li altri non
sono il centesmo:
ché tu intrasti povero
e digiuno
in campo, a seminar la
buona pianta
che fu già vite e ora è
fatta pruno".
Finito questo, l´alta
corte santa
risonò per le spere un
`Dio laudamo´
ne la melode che là sù
si canta.
E quel baron che sì di
ramo in ramo,
essaminando, già tratto
m´avea,
che a l´ultime fronde
appressavamo,
ricominciò: "La
Grazia, che donnea
con la tua mente, la
bocca t´aperse
infino a qui come aprir
si dovea,
sì ch´io approvo ciò
che fuori emerse;
ma or convien espremer
quel che credi,
e onde a la credenza
tua s´offerse".
"O santo padre, e
spirito che vedi
ciò che credesti sì,
che tu vincesti
ver´ lo sepulcro più giovani
piedi",
comincia´ io, "tu
vuo´ ch´io manifesti
la forma qui del pronto
creder mio,
e anche la cagion di
lui chiedesti.
E io rispondo: Io credo
in uno Dio
solo ed etterno, che
tutto ´l ciel move,
non moto, con amore e
con disio;
e a tal creder non ho
io pur prove
fisice e metafisice, ma
dalmi
anche la verità che
quinci piove
per Moïsè, per profeti
e per salmi,
per l´Evangelio e per
voi che scriveste
poi che l´ardente
Spirto vi fé almi;
e credo in tre persone
etterne, e queste
credo una essenza sì
una e sì trina,
che soffera congiunto
`sono´ ed `este´.
De la profonda
condizion divina
ch´io tocco mo, la
mente mi sigilla
più volte l´evangelica
dottrina.
Quest´ è ´l principio,
quest´ è la favilla
che si dilata in fiamma
poi vivace,
e come stella in cielo
in me scintilla".
Come ´l segnor ch´ascolta
quel che i piace,
da indi abbraccia il
servo, gratulando
per la novella, tosto
ch´el si tace;
così, benedicendomi
cantando,
tre volte cinse me, sì
com´ io tacqui,
l´appostolico lume al
cui comando
io avea detto: sì nel
dir li piacqui!
Se mai continga che ´l
poema sacro
al quale ha posto mano
e cielo e terra,
sì che m´ha fatto per
molti anni macro,
vinca la crudeltà che
fuor mi serra
del bello ovile ov´ io
dormi´ agnello,
nimico ai lupi che li
danno guerra;
con altra voce omai,
con altro vello
ritornerò poeta, e in
sul fonte
del mio battesmo
prenderò ´l cappello;
però che ne la fede,
che fa conte
l´anime a Dio, quivi intra´
io, e poi
Pietro per lei sì mi
girò la fronte.
Indi si mosse un lume
verso noi
di quella spera ond´
uscì la primizia
che lasciò Cristo d´i
vicari suoi;
e la mia donna, piena
di letizia,
mi disse: "Mira,
mira: ecco il barone
per cui là giù si
vicita Galizia".
Sì come quando il
colombo si pone
presso al compagno, l´uno
a l´altro pande,
girando e mormorando, l´affezione;
così vid´ ïo l´un da l´altro
grande
principe glorïoso
essere accolto,
laudando il cibo che là
sù li prande.
Ma poi che ´l gratular
si fu assolto,
tacito coram me ciascun
s´affisse,
ignito sì che vincëa ´l
mio volto.
Ridendo allora Bëatrice
disse:
"Inclita vita per
cui la larghezza
de la nostra basilica
si scrisse,
fa risonar la spene in
questa altezza:
tu sai, che tante fiate
la figuri,
quante Iesù ai tre fé
più carezza".
"Leva la testa e
fa che t´assicuri:
che ciò che vien qua sù
del mortal mondo,
convien ch´ai nostri
raggi si maturi".
Questo conforto del
foco secondo
mi venne; ond´ io leväi
li occhi a´ monti
che li ´ncurvaron pria
col troppo pondo.
"Poi che per
grazia vuol che tu t´affronti
lo nostro Imperadore,
anzi la morte,
ne l´aula più secreta
co´ suoi conti,
sì che, veduto il ver
di questa corte,
la spene, che là giù
bene innamora,
in te e in altrui di ciò
conforte,
di´ quel ch´ell´ è, di´
come se ne ´nfiora
la mente tua, e dì onde
a te venne".
Così seguì ´l secondo
lume ancora.
E quella pïa che guidò
le penne
de le mie ali a così
alto volo,
a la risposta così mi
prevenne:
"La Chiesa
militante alcun figliuolo
non ha con più
speranza, com´ è scritto
nel Sol che raggia
tutto nostro stuolo:
però li è conceduto che
d´Egitto
vegna in Ierusalemme
per vedere,
anzi che ´l militar li
sia prescritto.
Li altri due punti, che
non per sapere
son dimandati, ma perch´
ei rapporti
quanto questa virtù t´è
in piacere,
a lui lasc´ io, ché non
li saran forti
né di iattanza; ed elli
a ciò risponda,
e la grazia di Dio ciò
li comporti".
Come discente ch´a
dottor seconda
pronto e libente in
quel ch´elli è esperto,
perché la sua bontà si
disasconda,
"Spene", diss´
io, "è uno attender certo
de la gloria futura, il
qual produce
grazia divina e
precedente merto.
Da molte stelle mi vien
questa luce;
ma quei la distillò nel
mio cor pria
che fu sommo cantor del
sommo duce.
`Sperino in
te´, ne la sua tëodia
dice, `color
che sanno il nome tuo´:
e chi nol sa, s´elli ha
la fede mia?
Tu mi stillasti, con lo
stillar suo,
ne la pistola poi; sì ch´io
son pieno,
e in altrui vostra
pioggia repluo".
Mentr´ io diceva,
dentro al vivo seno
di quello incendio
tremolava un lampo
sùbito e spesso a guisa
di baleno.
Indi spirò: "L´amore
ond´ ïo avvampo
ancor ver´ la virtù che
mi seguette
infin la palma e a l´uscir
del campo,
vuol ch´io respiri a te
che ti dilette
di lei; ed emmi a grato
che tu diche
quello che la speranza
ti ´mpromette".
E io: "Le nove e
le scritture antiche
pongon lo segno, ed
esso lo mi addita,
de l´anime che Dio s´ha
fatte amiche.
Dice Isaia che ciascuna
vestita
ne la sua terra fia di
doppia vesta:
e la sua terra è questa
dolce vita;
e ´l tuo fratello assai
vie più digesta,
là dove tratta de le
bianche stole,
questa revelazion ci
manifesta".
E prima, appresso al
fin d´este parole,
`Sperent in
te´ di sopr´ a noi s´udì;
a che rispuoser tutte
le carole.
Poscia tra esse un lume
si schiarì
sì che, se ´l Cancro
avesse un tal cristallo,
l´inverno avrebbe un
mese d´un sol dì.
E come surge e va ed
entra in ballo
vergine lieta, sol per
fare onore
a la novizia, non per
alcun fallo,
così vid´ io lo
schiarato splendore
venire a´ due che si
volgieno a nota
qual conveniesi al loro
ardente amore.
Misesi lì nel canto e
ne la rota;
e la mia donna in lor
tenea l´aspetto,
pur come sposa tacita e
immota.
"Questi è colui
che giacque sopra ´l petto
del nostro pellicano, e
questi fue
di su la croce al
grande officio eletto".
La donna mia così; né
però piùe
mosser la vista sua di
stare attenta
poscia che prima le
parole sue.
Qual è colui ch´adocchia
e s´argomenta
di vedere eclissar lo
sole un poco,
che, per veder, non
vedente diventa;
tal mi fec´ ïo a quell´
ultimo foco
mentre che detto fu:
"Perché t´abbagli
per veder cosa che qui
non ha loco?
In terra è terra il mio
corpo, e saragli
tanto con li altri, che
´l numero nostro
con l´etterno proposito
s´agguagli.
Con le due stole nel
beato chiostro
son le due luci sole
che saliro;
e questo apporterai nel
mondo vostro".
A questa voce l´infiammato
giro
si quïetò con esso il
dolce mischio
che si facea nel suon
del trino spiro,
sì come, per cessar
fatica o rischio,
li remi, pria ne l´acqua
ripercossi,
tutti si posano al
sonar d´un fischio.
Ahi quanto ne la mente
mi commossi,
quando mi volsi per
veder Beatrice,
per non poter veder,
benché io fossi
presso di lei, e nel
mondo felice!
Mentr´ io dubbiava per
lo viso spento,
de la fulgida fiamma
che lo spense
uscì un spiro che mi
fece attento,
dicendo: "Intanto
che tu ti risense
de la vista che haï in
me consunta,
ben è che ragionando la
compense.
Comincia dunque; e dì
ove s´appunta
l´anima tua, e fa
ragion che sia
la vista in te smarrita
e non defunta:
perché la donna che per
questa dia
regïon ti conduce, ha
ne lo sguardo
la virtù ch´ebbe la man
d´Anania".
Io dissi: "Al suo
piacere e tosto e tardo
vegna remedio a li
occhi, che fuor porte
quand´ ella entrò col
foco ond´ io sempr´ ardo.
Lo ben che fa contenta
questa corte,
Alfa e O è di quanta
scrittura
mi legge Amore o
lievemente o forte".
Quella medesma voce che
paura
tolta m´avea del sùbito
abbarbaglio,
di ragionare ancor mi
mise in cura;
e disse: "Certo a
più angusto vaglio
ti conviene schiarar:
dicer convienti
chi drizzò l´arco tuo a
tal berzaglio".
E io: "Per
filosofici argomenti
e per autorità che
quinci scende
cotale amor convien che
in me si ´mprenti:
ché ´l bene, in quanto
ben, come s´intende,
così accende amore, e
tanto maggio
quanto più di bontate
in sé comprende.
Dunque a l´essenza ov´ è
tanto avvantaggio,
che ciascun ben che
fuor di lei si trova
altro non è ch´un lume
di suo raggio,
più che in altra
convien che si mova
la mente, amando, di
ciascun che cerne
il vero in che si fonda
questa prova.
Tal vero a l´intelletto
mïo sterne
colui che mi dimostra
il primo amore
di tutte le sustanze
sempiterne.
Sternel la voce del
verace autore,
che dice a Moïsè, di sé
parlando:
`Io ti farò
vedere ogne valore´.
Sternilmi tu ancora,
incominciando
l´alto preconio che
grida l´arcano
di qui là giù sovra
ogne altro bando".
E io udi´: "Per
intelletto umano
e per autoritadi a lui
concorde
d´i tuoi amori a Dio
guarda il sovrano.
Ma dì ancor se tu senti
altre corde
tirarti verso lui, sì
che tu suone
con quanti denti questo
amor ti morde".
Non fu latente la santa
intenzione
de l´aguglia di Cristo,
anzi m´accorsi
dove volea menar mia
professione.
Però ricominciai:
"Tutti quei morsi
che posson far lo cor
volgere a Dio,
a la mia caritate son
concorsi:
ché l´essere del mondo
e l´esser mio,
la morte ch´el sostenne
perch´ io viva,
e quel che spera ogne
fedel com´ io,
con la predetta
conoscenza viva,
tratto m´hanno del mar
de l´amor torto,
e del diritto m´han
posto a la riva.
Le fronde onde s´infronda
tutto l´orto
de l´ortolano etterno,
am´ io cotanto
quanto da lui a lor di
bene è porto".
Sì com´ io tacqui, un
dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e
la mia donna
dicea con li altri:
"Santo, santo, santo!".
E come a lume acuto si
disonna
per lo spirto visivo
che ricorre
a lo splendor che va di
gonna in gonna,
e lo svegliato ciò che
vede aborre,
sì nescïa è la sùbita
vigilia
fin che la stimativa
non soccorre;
così de li occhi miei
ogne quisquilia
fugò Beatrice col
raggio d´i suoi,
che rifulgea da più di
mille milia:
onde mei che dinanzi
vidi poi;
e quasi stupefatto
domandai
d´un quarto lume ch´io
vidi tra noi.
E la mia donna:
"Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor
l´anima prima
che la prima virtù
creasse mai".
Come la fronda che
flette la cima
nel transito del vento,
e poi si leva
per la propria virtù
che la soblima,
fec´ io in tanto in
quant´ ella diceva,
stupendo, e poi mi
rifece sicuro
un disio di parlare ond´
ïo ardeva.
E cominciai: "O
pomo che maturo
solo prodotto fosti, o
padre antico
a cui ciascuna sposa è
figlia e nuro,
divoto quanto posso a
te supplìco
perché mi parli: tu
vedi mia voglia,
e per udirti tosto non
la dico".
Talvolta un animal
coverto broglia,
sì che l´affetto
convien che si paia
per lo seguir che face
a lui la ´nvoglia;
e similmente l´anima
primaia
mi facea trasparer per
la coverta
quant´ ella a
compiacermi venìa gaia.
Indi spirò: "Sanz´
essermi proferta
da te, la voglia tua
discerno meglio
che tu qualunque cosa t´è
più certa;
perch´ io la veggio nel
verace speglio
che fa di sé pareglio a
l´altre cose,
e nulla face lui di sé
pareglio.
Tu vuogli udir quant´ è
che Dio mi puose
ne l´eccelso giardino,
ove costei
a così lunga scala ti
dispuose,
e quanto fu diletto a
li occhi miei,
e la propria cagion del
gran disdegno,
e l´idïoma ch´usai e
che fei.
Or, figluol mio, non il
gustar del legno
fu per sé la cagion di
tanto essilio,
ma solamente il
trapassar del segno.
Quindi onde mosse tua
donna Virgilio,
quattromilia trecento e
due volumi
di sol desiderai questo
concilio;
e vidi lui tornare a
tutt´ i lumi
de la sua strada
novecento trenta
fïate, mentre ch´ïo in
terra fu´mi.
La lingua ch´io parlai
fu tutta spenta
innanzi che a l´ovra
inconsummabile
fosse la gente di Nembròt
attenta:
ché nullo effetto mai
razïonabile,
per lo piacere uman che
rinovella
seguendo il cielo,
sempre fu durabile.
Opera naturale è ch´uom
favella;
ma così o così, natura
lascia
poi fare a voi secondo
che v´abbella.
Pria ch´i´ scendessi a
l´infernale ambascia,
I s´appellava in terra
il sommo bene
onde vien la letizia
che mi fascia;
e El si chiamò poi: e
ciò convene,
ché l´uso d´i mortali è
come fronda
in ramo, che sen va e
altra vene.
Nel monte che si leva
più da l´onda,
fu´ io, con vita pura e
disonesta,
da la prim´ ora a
quella che seconda,
come ´l sol muta
quadra, l´ora sesta".
`Al Padre, al
Figlio, a lo Spirito Santo´,
cominciò,
`gloria!´, tutto ´l paradiso,
sì che m´inebrïava il
dolce canto.
Ciò ch´io vedeva mi
sembiava un riso
de l´universo; per che
mia ebbrezza
intrava per l´udire e
per lo viso.
Oh gioia! oh ineffabile
allegrezza!
oh vita intègra d´amore
e di pace!
oh sanza brama sicura
ricchezza!
Dinanzi a li occhi miei
le quattro face
stavano accese, e
quella che pria venne
incominciò a farsi più
vivace,
e tal ne la sembianza
sua divenne,
qual diverrebbe Iove, s´elli
e Marte
fossero augelli e cambiassersi
penne.
La provedenza, che
quivi comparte
vice e officio, nel
beato coro
silenzio posto avea da
ogne parte,
quand´ ïo udi´:
"Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché,
dicend´ io,
vedrai trascolorar
tutti costoro.
Quelli ch´usurpa in
terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo
mio, che vaca
ne la presenza del
Figliuol di Dio,
fatt´ ha del cimitero
mio cloaca
del sangue e de la
puzza; onde ´l perverso
che cadde di qua sù, là
giù si placa".
Di quel color che per
lo sole avverso
nube dipigne da sera e
da mane,
vid´ ïo allora tutto ´l
ciel cosperso.
E come donna onesta che
permane
di sé sicura, e per l´altrui
fallanza,
pur ascoltando, timida
si fane,
così Beatrice trasmutò
sembianza;
e tale eclissi credo
che ´n ciel fue
quando patì la supprema
possanza.
Poi procedetter le
parole sue
con voce tanto da sé
trasmutata,
che la sembianza non si
mutò piùe:
"Non fu la sposa
di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin,
di quel di Cleto,
per essere ad acquisto
d´oro usata;
ma per acquisto d´esto
viver lieto
e Sisto e Pïo e Calisto
e Urbano
sparser lo sangue dopo
molto fleto.
Non fu nostra intenzion
ch´a destra mano
d´i nostri successor
parte sedesse,
parte da l´altra del
popol cristiano;
né che le chiavi che mi
fuor concesse,
divenisser signaculo in
vessillo
che contra battezzati
combattesse;
né ch´io fossi figura
di sigillo
a privilegi venduti e
mendaci,
ond´ io sovente arrosso
e disfavillo.
In vesta di pastor lupi
rapaci
si veggion di qua sù
per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché
pur giaci?
Del sangue nostro
Caorsini e Guaschi
s´apparecchian di bere:
o buon principio,
a che vil fine convien
che tu caschi!
Ma l´alta provedenza,
che con Scipio
difese a Roma la gloria
del mondo,
soccorrà tosto, sì com´
io concipio;
e tu, figliuol, che per
lo mortal pondo
ancor giù tornerai,
apri la bocca,
e non asconder quel ch´io
non ascondo".
Sì come di vapor gelati
fiocca
in giuso l´aere nostro,
quando ´l corno
de la capra del ciel
col sol si tocca,
in sù vid´ io così l´etera
addorno
farsi e fioccar di
vapor trïunfanti
che fatto avien con noi
quivi soggiorno.
Lo viso mio seguiva i
suoi sembianti,
e seguì fin che ´l
mezzo, per lo molto,
li tolse il trapassar
del più avanti.
Onde la donna, che mi
vide assolto
de l´attendere in sù,
mi disse: "Adima
il viso e guarda come
tu se´ vòlto".
Da l´ora ch´ïo avea
guardato prima
i´ vidi mosso me per
tutto l´arco
che fa dal mezzo al
fine il primo clima;
sì ch´io vedea di là da
Gade il varco
folle d´Ulisse, e di
qua presso il lito
nel qual si fece Europa
dolce carco.
E più mi fora
discoverto il sito
di questa aiuola; ma ´l
sol procedea
sotto i mie´ piedi un
segno e più partito.
La mente innamorata,
che donnea
con la mia donna
sempre, di ridure
ad essa li occhi più
che mai ardea;
e se natura o arte fé
pasture
da pigliare occhi, per
aver la mente,
in carne umana o ne le
sue pitture,
tutte adunate,
parrebber nïente
ver´ lo piacer divin
che mi refulse,
quando mi volsi al suo
viso ridente.
E la virtù che lo
sguardo m´indulse,
del bel nido di Leda mi
divelse,
e nel ciel velocissimo
m´impulse.
Le parti sue vivissime
ed eccelse
sì uniforme son, ch´i´
non so dire
qual Bëatrice per loco
mi scelse.
Ma ella, che vedëa ´l
mio disire,
incominciò, ridendo
tanto lieta,
che Dio parea nel suo
volto gioire:
"La natura del
mondo, che quïeta
il mezzo e tutto l´altro
intorno move,
quinci comincia come da
sua meta;
e questo cielo non ha
altro dove
che la mente divina, in
che s´accende
l´amor che ´l volge e
la virtù ch´ei piove.
Luce e amor d´un
cerchio lui comprende,
sì come questo li
altri; e quel precinto
colui che ´l cinge
solamente intende.
Non è suo moto per
altro distinto,
ma li altri son
mensurati da questo,
sì come diece da mezzo
e da quinto;
e come il tempo tegna
in cotal testo
le sue radici e ne li
altri le fronde,
omai a te può esser
manifesto.
Oh cupidigia che i
mortali affonde
sì sotto te, che
nessuno ha podere
di trarre li occhi fuor
de le tue onde!
Ben fiorisce ne li
uomini il volere;
ma la pioggia continüa
converte
in bozzacchioni le
sosine vere.
Fede e innocenza son
reperte
solo ne´ parvoletti;
poi ciascuna
pria fugge che le
guance sian coperte.
Tale, balbuzïendo
ancor, digiuna,
che poi divora, con la
lingua sciolta,
qualunque cibo per
qualunque luna;
e tal, balbuzïendo, ama
e ascolta
la madre sua, che, con
loquela intera,
disïa poi di vederla
sepolta.
Così si fa la pelle
bianca nera
nel primo aspetto de la
bella figlia
di quel ch´apporta mane
e lascia sera.
Tu, perché non ti facci
maraviglia,
pensa che ´n terra non è
chi governi;
onde sì svïa l´umana
famiglia.
Ma prima che gennaio
tutto si sverni
per la centesma ch´è là
giù negletta,
raggeran sì questi
cerchi superni,
che la fortuna che
tanto s´aspetta,
le poppe volgerà u´ son
le prore,
sì che la classe correrà
diretta;
e vero frutto verrà
dopo ´l fiore".
Poscia che ´ncontro a
la vita presente
d´i miseri mortali
aperse ´l vero
quella che ´mparadisa
la mia mente,
come in lo specchio
fiamma di doppiero
vede colui che se n´alluma
retro,
prima che l´abbia in
vista o in pensiero,
e sé rivolge per veder
se ´l vetro
li dice il vero, e vede
ch´el s´accorda
con esso come nota con
suo metro;
così la mia memoria si
ricorda
ch´io feci riguardando
ne´ belli occhi
onde a pigliarmi fece
Amor la corda.
E com´ io mi rivolsi e
furon tocchi
li miei da ciò che pare
in quel volume,
quandunque nel suo giro
ben s´adocchi,
un punto vidi che
raggiava lume
acuto sì, che ´l viso
ch´elli affoca
chiuder conviensi per
lo forte acume;
e quale stella par
quinci più poca,
parrebbe luna, locata
con esso
come stella con stella
si collòca.
Forse cotanto quanto
pare appresso
alo cigner la luce che ´l
dipigne
quando ´l vapor che ´l
porta più è spesso,
distante intorno al
punto un cerchio d´igne
si girava sì ratto, ch´avria
vinto
quel moto che più tosto
il mondo cigne;
e questo era d´un altro
circumcinto,
e quel dal terzo, e ´l
terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e
poi dal sesto il quinto.
Sopra seguiva il
settimo sì sparto
già di larghezza, che ´l
messo di Iuno
intero a contenerlo
sarebbe arto.
Così l´ottavo e ´l
nono; e chiascheduno
più tardo si movea,
secondo ch´era
in numero distante più
da l´uno;
e quello avea la fiamma
più sincera
cui men distava la
favilla pura,
credo, però che più di
lei s´invera.
La donna mia, che mi
vedëa in cura
forte sospeso, disse:
"Da quel punto
depende il cielo e
tutta la natura.
Mira quel cerchio che
più li è congiunto;
e sappi che ´l suo
muovere è sì tosto
per l´affocato amore
ond´ elli è punto".
E io a lei: "Se ´l
mondo fosse posto
con l´ordine ch´io
veggio in quelle rote,
sazio m´avrebbe ciò che
m´è proposto;
ma nel mondo sensibile
si puote
veder le volte tanto più
divine,
quant´ elle son dal
centro più remote.
Onde, se ´l mio disir
dee aver fine
in questo miro e
angelico templo
che solo amore e luce
ha per confine,
udir convienmi ancor
come l´essemplo
e l´essemplare non
vanno d´un modo,
ché io per me indarno a
ciò contemplo".
"Se li tuoi diti
non sono a tal nodo
sufficïenti, non è
maraviglia:
tanto, per non tentare,
è fatto sodo!".
Così la donna mia; poi
disse: "Piglia
quel ch´io ti dicerò,
se vuo´ saziarti;
e intorno da esso t´assottiglia.
Li cerchi corporai sono
ampi e arti
secondo il più e ´l men
de la virtute
che si distende per
tutte lor parti.
Maggior bontà vuol far
maggior salute;
maggior salute maggior
corpo cape,
s´elli ha le parti
igualmente compiute.
Dunque costui che tutto
quanto rape
l´altro universo seco,
corrisponde
al cerchio che più ama
e che più sape:
per che, se tu a la
virtù circonde
la tua misura, non a la
parvenza
de le sustanze che t´appaion
tonde,
tu vederai mirabil
consequenza
di maggio a più e di
minore a meno,
in ciascun cielo, a süa
intelligenza".
Come rimane splendido e
sereno
l´emisperio de l´aere,
quando soffia
Borea da quella guancia
ond´ è più leno,
per che si purga e
risolve la roffia
che pria turbava, sì
che ´l ciel ne ride
con le bellezze d´ogne
sua paroffia;
così fec´ïo, poi che mi
provide
la donna mia del suo
risponder chiaro,
e come stella in cielo
il ver si vide.
E poi che le parole sue
restaro,
non altrimenti ferro
disfavilla
che bolle, come i
cerchi sfavillaro.
L´incendio suo seguiva
ogne scintilla;
ed eran tante, che ´l
numero loro
più che ´l doppiar de
li scacchi s´inmilla.
Io sentiva osannar di
coro in coro
al punto fisso che li
tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne´
quai sempre fuoro.
E quella che vedëa i
pensier dubi
ne la mia mente, disse:
"I cerchi primi
t´hanno mostrato Serafi
e Cherubi.
Così veloci seguono i
suoi vimi,
per somigliarsi al
punto quanto ponno;
e posson quanto a veder
son soblimi.
Quelli altri amori che ´ntorno
li vonno,
si chiaman Troni del
divino aspetto,
per che ´l primo
ternaro terminonno;
e dei saper che tutti
hanno diletto
quanto la sua veduta si
profonda
nel vero in che si
queta ogne intelletto.
Quinci si può veder
come si fonda
l´esser beato ne l´atto
che vede,
non in quel ch´ama, che
poscia seconda;
e del vedere è misura
mercede,
che grazia partorisce e
buona voglia:
così di grado in grado
si procede.
L´altro ternaro, che
così germoglia
in questa primavera
sempiterna
che notturno Arïete non
dispoglia,
perpetüalemente
`Osanna´ sberna
con tre melode, che
suonano in tree
ordini di letizia onde
s´interna.
In essa gerarcia son l´altre
dee:
prima Dominazioni, e
poi Virtudi;
l´ordine terzo di
Podestadi èe.
Poscia ne´ due
penultimi tripudi
Principati e Arcangeli
si girano;
l´ultimo è tutto d´Angelici
ludi.
Questi ordini di sù
tutti s´ammirano,
e di giù vincon sì, che
verso Dio
tutti tirati sono e
tutti tirano.
E Dïonisio con tanto
disio
a contemplar questi
ordini si mise,
che li nomò e distinse
com´ io.
Ma Gregorio da lui poi
si divise;
onde, sì tosto come li
occhi aperse
in questo ciel, di sé
medesmo rise.
E se tanto secreto ver
proferse
mortale in terra, non
voglio ch´ammiri:
ché chi ´l vide qua sù
gliel discoperse
con altro assai del ver
di questi giri".
Quando ambedue li figli
di Latona,
coperti del Montone e
de la Libra,
fanno de l´orizzonte
insieme zona,
quant´ è dal punto che ´l
cenìt inlibra
infin che l´uno e l´altro
da quel cinto,
cambiando l´emisperio,
si dilibra,
tanto, col volto di
riso dipinto,
si tacque Bëatrice,
riguardando
fiso nel punto che m´avëa
vinto.
Poi cominciò: "Io
dico, e non dimando,
quel che tu vuoli udir,
perch´ io l´ho visto
là ´ve s´appunta ogne
ubi e ogne quando.
Non per aver a sé di
bene acquisto,
ch´esser non può, ma
perché suo splendore
potesse, risplendendo,
dir "Subsisto",
in sua etternità di
tempo fore,
fuor d´ogne altro
comprender, come i piacque,
s´aperse in nuovi amor
l´etterno amore.
Né prima quasi torpente
si giacque;
ché né prima né poscia
procedette
lo discorrer di Dio
sovra quest´ acque.
Forma e materia,
congiunte e purette,
usciro ad esser che non
avia fallo,
come d´arco tricordo
tre saette.
E come in vetro, in
ambra o in cristallo
raggio resplende sì,
che dal venire
a l´esser tutto non è
intervallo,
così ´l triforme
effetto del suo sire
ne l´esser suo raggiò
insieme tutto
sanza distinzïone in
essordire.
Concreato fu ordine e
costrutto
a le sustanze; e quelle
furon cima
nel mondo in che puro
atto fu produtto;
pura potenza tenne la
parte ima;
nel mezzo strinse
potenza con atto
tal vime, che già mai
non si divima.
Ieronimo vi scrisse
lungo tratto
di secoli de li angeli
creati
anzi che l´altro mondo
fosse fatto;
ma questo vero è
scritto in molti lati
da li scrittor de lo
Spirito Santo,
e tu te n´avvedrai se
bene agguati;
e anche la ragione il
vede alquanto,
che non concederebbe
che ´ motori
sanza sua perfezion
fosser cotanto.
Or sai tu dove e quando
questi amori
furon creati e come: sì
che spenti
nel tuo disïo già son
tre ardori.
Né giugneriesi,
numerando, al venti
sì tosto, come de li
angeli parte
turbò il suggetto d´i
vostri alimenti.
L´altra rimase, e
cominciò quest´ arte
che tu discerni, con
tanto diletto,
che mai da circüir non
si diparte.
Principio del cader fu
il maladetto
superbir di colui che
tu vedesti
da tutti i pesi del
mondo costretto.
Quelli che vedi qui
furon modesti
a riconoscer sé da la
bontate
che li avea fatti a
tanto intender presti:
per che le viste lor
furo essaltate
con grazia illuminante
e con lor merto,
si c´hanno ferma e
piena volontate;
e non voglio che dubbi,
ma sia certo,
che ricever la grazia è
meritorio
secondo che l´affetto l´è
aperto.
Omai dintorno a questo
consistorio
puoi contemplare assai,
se le parole
mie son ricolte, sanz´
altro aiutorio.
Ma perché ´n terra per
le vostre scole
si legge che l´angelica
natura
è tal, che ´ntende e si
ricorda e vole,
ancor dirò, perché tu
veggi pura
la verità che là giù si
confonde,
equivocando in sì fatta
lettura.
Queste sustanze, poi
che fur gioconde
de la faccia di Dio,
non volser viso
da essa, da cui nulla
si nasconde:
però non hanno vedere
interciso
da novo obietto, e però
non bisogna
rememorar per concetto
diviso;
sì che là giù, non
dormendo, si sogna,
credendo e non credendo
dicer vero;
ma ne l´uno è più colpa
e più vergogna.
Voi non andate giù per
un sentiero
filosofando: tanto vi
trasporta
l´amor de l´apparenza e
´l suo pensiero!
E ancor questo qua sù
si comporta
con men disdegno che
quando è posposta
la divina Scrittura o
quando è torta.
Non vi si pensa quanto
sangue costa
seminarla nel mondo e
quanto piace
chi umilmente con essa
s´accosta.
Per apparer ciascun s´ingegna
e face
sue invenzioni; e
quelle son trascorse
da´ predicanti e ´l
Vangelio si tace.
Un dice che la luna si
ritorse
ne la passion di Cristo
e s´interpuose,
per che ´l lume del sol
giù non si porse;
e mente, ché la luce si
nascose
da sé: però a li Spani
e a l´Indi
come a´ Giudei tale
eclissi rispuose.
Non ha Fiorenza tanti
Lapi e Bindi
quante sì fatte favole
per anno
in pergamo si gridan
quinci e quindi:
sì che le pecorelle,
che non sanno,
tornan del pasco
pasciute di vento,
e non le scusa non
veder lo danno.
Non disse Cristo al suo
primo convento:
`Andate, e
predicate al mondo ciance´;
ma diede lor verace
fondamento;
e quel tanto sonò ne le
sue guance,
sì ch´a pugnar per
accender la fede
de l´Evangelio fero
scudo e lance.
Ora si va con motti e
con iscede
a predicare, e pur che
ben si rida,
gonfia il cappuccio e
più non si richiede.
Ma tale uccel nel
becchetto s´annida,
che se ´l vulgo il
vedesse, vederebbe
la perdonanza di ch´el
si confida:
per cui tanta stoltezza
in terra crebbe,
che, sanza prova d´alcun
testimonio,
ad ogne promession si
correrebbe.
Di questo ingrassa il
porco sant´ Antonio,
e altri assai che sono
ancor più porci,
pagando di moneta sanza
conio.
Ma perché siam digressi
assai, ritorci
li occhi oramai verso
la dritta strada,
sì che la via col tempo
si raccorci.
Questa natura sì oltre
s´ingrada
in numero, che mai non
fu loquela
né concetto mortal che
tanto vada;
e se tu guardi quel che
si revela
per Danïel, vedrai che ´n
sue migliaia
determinato numero si
cela.
La prima luce, che
tutta la raia,
per tanti modi in essa
si recepe,
quanti son li splendori
a chi s´appaia.
Onde, però che a l´atto
che concepe
segue l´affetto, d´amar
la dolcezza
diversamente in essa
ferve e tepe.
Vedi l´eccelso omai e
la larghezza
de l´etterno valor,
poscia che tanti
speculi fatti s´ha in
che si spezza,
uno manendo in sé come
davanti".
Forse semilia miglia di
lontano
ci ferve l´ora sesta, e
questo mondo
china già l´ombra quasi
al letto piano,
quando ´l mezzo del
cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal,
ch´alcuna stella
perde il parere infino
a questo fondo;
e come vien la
chiarissima ancella
del sol più oltre, così
´l ciel si chiude
di vista in vista
infino a la più bella.
Non altrimenti il trïunfo
che lude
sempre dintorno al
punto che mi vinse,
parendo inchiuso da
quel ch´elli ´nchiude,
a poco a poco al mio
veder si stinse:
per che tornar con li
occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi
costrinse.
Se quanto infino a qui
di lei si dice
fosse conchiuso tutto
in una loda,
poca sarebbe a fornir
questa vice.
La bellezza ch´io vidi
si trasmoda
non pur di là da noi,
ma certo io credo
che solo il suo fattor
tutta la goda.
Da questo passo vinto
mi concedo
più che già mai da
punto di suo tema
soprato fosse comico o
tragedo:
ché, come sole in viso
che più trema,
così lo rimembrar del
dolce riso
la mente mia da me
medesmo scema.
Dal primo giorno ch´i´
vidi il suo viso
in questa vita, infino
a questa vista,
non m´è il seguire al
mio cantar preciso;
ma or convien che mio
seguir desista
più dietro a sua
bellezza, poetando,
come a l´ultimo suo
ciascuno artista.
Cotal qual io lascio a
maggior bando
che quel de la mia
tuba, che deduce
l´ardüa sua matera
terminando,
con atto e voce di
spedito duce
ricominciò: "Noi
siamo usciti fore
del maggior corpo al
ciel ch´è pura luce:
luce intellettüal,
piena d´amore;
amor di vero ben, pien
di letizia;
letizia che trascende
ogne dolzore.
Qui vederai l´una e l´altra
milizia
di paradiso, e l´una in
quelli aspetti
che tu vedrai a l´ultima
giustizia".
Come sùbito lampo che
discetti
li spiriti visivi, sì
che priva
da l´atto l´occhio di
più forti obietti,
così mi circunfulse
luce viva,
e lasciommi fasciato di
tal velo
del suo fulgor, che
nulla m´appariva.
"Sempre l´amor che
queta questo cielo
accoglie in sé con sì
fatta salute,
per far disposto a sua
fiamma il candelo".
Non fur più tosto
dentro a me venute
queste parole brievi,
ch´io compresi
me sormontar di sopr´ a
mia virtute;
e di novella vista mi
raccesi
tale, che nulla luce è
tanto mera,
che li occhi miei non
si fosser difesi;
e vidi lume in forma di
rivera
fulvido di fulgore,
intra due rive
dipinte di mirabil
primavera.
Di tal fiumana uscian
faville vive,
e d´ogne parte si
mettien ne´ fiori,
quasi rubin che oro
circunscrive;
poi, come inebrïate da
li odori,
riprofondavan sé nel
miro gurge,
e s´una intrava, un´altra
n´uscia fori.
"L´alto disio che
mo t´infiamma e urge,
d´aver notizia di ciò
che tu vei,
tanto mi piace più
quanto più turge;
ma di quest´ acqua
convien che tu bei
prima che tanta sete in
te si sazi":
così mi disse il sol de
li occhi miei.
Anche soggiunse:
"Il fiume e li topazi
ch´entrano ed escono e ´l
rider de l´erbe
son di lor vero
umbriferi prefazi.
Non che da sé sian
queste cose acerbe;
ma è difetto da la
parte tua,
che non hai viste ancor
tanto superbe".
Non è fantin che sì sùbito
rua
col volto verso il
latte, se si svegli
molto tardato da l´usanza
sua,
come fec´ io, per far
migliori spegli
ancor de li occhi,
chinandomi a l´onda
che si deriva perché vi
s´immegli;
e sì come di lei bevve
la gronda
de le palpebre mie, così
mi parve
di sua lunghezza
divenuta tonda.
Poi, come gente stata
sotto larve,
che pare altro che
prima, se si sveste
la sembianza non süa in
che disparve,
così mi si cambiaro in
maggior feste
li fiori e le faville,
sì ch´io vidi
ambo le corti del ciel
manifeste.
O isplendor di Dio, per
cu´ io vidi
l´alto trïunfo del
regno verace,
dammi virtù a dir com´ ïo
il vidi!
Lume è là sù che
visibile face
lo creatore a quella
creatura
che solo in lui vedere
ha la sua pace.
E´ si distende in
circular figura,
in tanto che la sua
circunferenza
sarebbe al sol troppo
larga cintura.
Fassi di raggio tutta
sua parvenza
reflesso al sommo del
mobile primo,
che prende quindi
vivere e potenza.
E come clivo in acqua
di suo imo
si specchia, quasi per
vedersi addorno,
quando è nel verde e ne´
fioretti opimo,
sì, soprastando al lume
intorno intorno,
vidi specchiarsi in più
di mille soglie
quanto di noi là sù
fatto ha ritorno.
E se l´infimo grado in
sé raccoglie
sì grande lume, quanta è
la larghezza
di questa rosa ne l´estreme
foglie!
La vista mia ne l´ampio
e ne l´altezza
non si smarriva, ma
tutto prendeva
il quanto e ´l quale di
quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né
pon né leva:
ché dove Dio sanza
mezzo governa,
la legge natural nulla
rileva.
Nel giallo de la rosa
sempiterna,
che si digrada e dilata
e redole
odor di lode al sol che
sempre verna,
qual è colui che tace e
dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e
disse: "Mira
quanto è ´l convento de
le bianche stole!
Vedi nostra città quant´
ella gira;
vedi li nostri scanni sì
ripieni,
che poca gente più ci
si disira.
E ´n quel gran seggio a
che tu li occhi tieni
per la corona che già v´è
sù posta,
prima che tu a queste
nozze ceni,
sederà l´alma, che fia
giù agosta,
de l´alto Arrigo, ch´a
drizzare Italia
verrà in prima ch´ella
sia disposta.
La cieca cupidigia che
v´ammalia
simili fatti v´ha al
fantolino
che muor per fame e
caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro
divino
allora tal, che palese
e coverto
non anderà con lui per
un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio
sofferto
nel santo officio; ch´el
sarà detruso
là dove Simon mago è
per suo merto,
e farà quel d´Alagna
intrar più giuso".
In forma dunque di
candida rosa
mi si mostrava la
milizia santa
che nel suo sangue
Cristo fece sposa;
ma l´altra, che volando
vede e canta
la gloria di colui che
la ´nnamora
e la bontà che la fece
cotanta,
sì come schiera d´ape
che s´infiora
una fïata e una si
ritorna
là dove suo laboro s´insapora,
nel gran fior
discendeva che s´addorna
di tante foglie, e
quindi risaliva
là dove ´l süo amor
sempre soggiorna.
Le facce tutte avean di
fiamma viva
e l´ali d´oro, e l´altro
tanto bianco,
che nulla neve a quel
termine arriva.
Quando scendean nel
fior, di banco in banco
porgevan de la pace e
de l´ardore
ch´elli acquistavan
ventilando il fianco.
Né l´interporsi tra ´l
disopra e ´l fiore
di tanta moltitudine
volante
impediva la vista e lo
splendore:
ché la luce divina è
penetrante
per l´universo secondo
ch´è degno,
sì che nulla le puote
essere ostante.
Questo sicuro e gaudïoso
regno,
frequente in gente
antica e in novella,
viso e amore avea tutto
ad un segno.
O trina luce che ´n
unica stella
scintillando a lor
vista, sì li appaga!
guarda qua giuso a la
nostra procella!
Se i barbari, venendo
da tal plaga
che ciascun giorno d´Elice
si cuopra,
rotante col suo figlio
ond´ ella è vaga,
veggendo Roma e l´ardüa
sua opra,
stupefaciensi, quando
Laterano
a le cose mortali andò
di sopra;
ïo, che al divino da l´umano,
a l´etterno dal tempo
era venuto,
e di Fiorenza in popol
giusto e sano,
di che stupor dovea
esser compiuto!
Certo tra esso e ´l
gaudio mi facea
li bito non udire e starmi
muto.
E quasi peregrin che si
ricrea
nel tempio del suo voto
riguardando,
e spera già ridir com´
ello stea,
su per la viva luce
passeggiando,
menava ïo li occhi per
li gradi,
mo sù, mo giù e mo
recirculando.
Vedëa visi a carità süadi,
d´altrui lume fregiati
e di suo riso,
e atti ornati di tutte
onestadi.
La forma general di
paradiso
già tutta mïo sguardo
avea compresa,
in nulla parte ancor
fermato fiso;
e volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia
donna di cose
di che la mente mia era
sospesa.
Uno intendëa, e altro
mi rispuose:
credea veder Beatrice e
vidi un sene
vestito con le genti
glorïose.
Diffuso era per li
occhi e per le gene
di benigna letizia, in
atto pio
quale a tenero padre si
convene.
E "Ov´ è
ella?", sùbito diss´ io.
Ond´ elli: "A
terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del
loco mio;
e se riguardi sù nel
terzo giro
dal sommo grado, tu la
rivedrai
nel trono che suoi
merti le sortiro".
Sanza risponder, li
occhi sù levai,
e vidi lei che si facea
corona
re flettendo da sé li
etterni rai.
Da quella regïon che più
sù tona
occhio mortale alcun
tanto non dista,
qualunque in mare più
giù s´abbandona,
quanto lì da Beatrice
la mia vista;
ma nulla mi facea, ché
süa effige
non discendëa a me per
mezzo mista.
"O donna in cui la
mia speranza vige,
e che soffristi per la
mia salute
in inferno lasciar le
tue vestige,
di tante cose quant´ i´
ho vedute,
dal tuo podere e da la
tua bontate
riconosco la grazia e
la virtute.
Tu m´hai di servo
tratto a libertate
per tutte quelle vie,
per tutt´ i modi
ch e di ciò fare avei
la potestate.
La tua magnificenza in
me custodi,
sì che l´anima mia, che
fatt´ hai sana,
piacente a te dal corpo
si disnodi".
Così orai; e quella, sì
lontana
come parea, sorrise e
riguardommi;
poi si tornò a l´etterna
fontana.
E ´l santo sene:
"Acciò che tu assommi
perfettamente",
disse, "il tuo cammino,
a che priego e amor
santo mandommi,
vola con li occhi per
questo giardino;
ché veder lui t´acconcerà
lo sguardo
più al montar per lo
raggio divino.
E la regina del cielo,
ond´ ïo ardo
tutto d´amor, ne farà
ogne grazia,
pe rò ch´i´ sono il suo
fedel Bernardo".
Qual è colui che forse
di Croazia
viene a veder la
Veronica nostra,
che per l´antica fame
non sen sazia,
ma dice nel pensier,
fin che si mostra:
`Segnor mio
Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la
sembianza vostra?´;
tal era io mirando la
vivace
carità di colui che ´n
questo mondo,
contemplando, gustò di
quella pace.
"Figliuol di
grazia, quest´ esser giocondo",
cominciò elli,
"non ti sarà noto,
tenendo li occhi pur
qua giù al fondo;
ma guarda i cerchi
infino al più remoto,
tanto che veggi seder
la regina
cui questo regno è
suddito e devoto".
Io levai li occhi; e
come da mattina
la parte orïental de l´orizzonte
soverchia quella dove ´l
sol declina,
così, quasi di valle
andando a monte
con li occhi, vidi
parte ne lo stremo
vincer di lume tutta l´altra
fronte.
E come quivi ove s´aspetta
il temo
che mal guidò Fetonte,
più s´infiamma,
e quinci e quindi il
lume si fa scemo,
così quella pacifica
oriafiamma
nel mezzo s´avvivava, e
d´ogne parte
per igual modo
allentava la fiamma;
e a quel mezzo, con le
penne sparte,
vid´ io più di mille
angeli festanti,
ciascun distinto di
fulgore e d´arte.
Vidi a lor giochi quivi
e a lor canti
ridere una bellezza,
che letizia
era ne li occhi a tutti
li altri santi;
e s´io avessi in dir
tanta divizia
quanta ad imaginar, non
ardirei
lo minimo tentar di sua
delizia.
Bernardo, come vide li
occhi miei
nel caldo suo caler
fissi e attenti,
li suoi con tanto
affetto volse a lei,
che ´ miei di rimirar fé
più ardenti.
Affetto al suo piacer,
quel contemplante
libero officio di
dottore assunse,
e cominciò queste
parole sante:
"La piaga che
Maria richiuse e unse,
quella ch´è tanto bella
da´ suoi piedi
è colei che l´aperse e
che la punse.
Ne l´ordine che fanno i
terzi sedi,
siede Rachel di sotto
da costei
con Bëatrice, sì come
tu vedi.
Sarra e Rebecca, Iudìt
e colei
che fu bisava al cantor
che per doglia
del fallo disse
`Miserere mei´,
puoi tu veder così di
soglia in soglia
giù digradar, com´ io
ch´a proprio nome
vo per la rosa giù di
foglia in foglia.
E dal settimo grado in
giù, sì come
infino ad esso,
succedono Ebree,
dirimendo del fior
tutte le chiome;
perché, secondo lo
sguardo che fée
la fede in Cristo,
queste sono il muro
a che si parton le
sacre scalee.
Da questa parte onde ´l
fiore è maturo
di tutte le sue foglie,
sono assisi
quei che credettero in
Cristo venturo;
da l´altra parte onde
sono intercisi
di vòti i semicirculi,
si stanno
quei ch´a Cristo venuto
ebber li visi.
E come quinci il glorïoso
scanno
de la donna del cielo e
li altri scanni
di sotto lui cotanta
cerna fanno,
così di contra quel del
gran Giovanni,
che sempre santo ´l
diserto e ´l martiro
sofferse, e poi l´inferno
da due anni;
e sotto lui così cerner
sortiro
Francesco, Benedetto e
Augustino
e altri fin qua giù di
giro in giro.
Or mira l´alto proveder
divino:
ché l´uno e l´altro
aspetto de la fede
igualmente empierà
questo giardino.
E sappi che dal grado
in giù che fiede
a mezzo il tratto le
due discrezioni,
per nullo proprio
merito si siede,
ma per l´altrui, con
certe condizioni:
ché tutti questi son
spiriti ascolti
prima ch´avesser vere
elezïoni.
Ben te ne puoi accorger
per li volti
e anche per le voci püerili,
se tu li guardi bene e
se li ascolti.
Or dubbi tu e dubitando
sili;
ma io discioglierò ´l
forte legame
in che ti stringon li
pensier sottili.
Dentro a l´ampiezza di
questo reame
casüal punto non puote
aver sito,
se non come tristizia o
sete o fame:
ché per etterna legge è
stabilito
quantunque vedi, sì che
giustamente
ci si risponde da l´anello
al dito;
e però questa festinata
gente
a vera vita non è sine
causa
intra sé qui più e meno
eccellente.
Lo rege per cui questo
regno pausa
in tanto amore e in
tanto diletto,
che nulla volontà è di
più ausa,
le menti tutte nel suo
lieto aspetto
creando, a suo piacer
di grazia dota
diversamente; e qui
basti l´effetto.
E ciò espresso e chiaro
vi si nota
ne la Scrittura santa
in quei gemelli
che ne la madre ebber l´ira
commota.
Però, secondo il color
d´i capelli,
di cotal grazia l´altissimo
lume
degnamente convien che
s´incappelli.
Dunque, sanza mercé di
lor costume,
locati son per gradi
differenti,
sol differendo nel
primiero acume.
Bastavasi ne´ secoli
recenti
con l´innocenza, per
aver salute,
solamente la fede d´i
parenti;
poi che le prime etadi
fuor compiute,
convenne ai maschi a l´innocenti
penne
per circuncidere
acquistar virtute;
ma poi che ´l tempo de
la grazia venne,
sanza battesmo perfetto
di Cristo
tale innocenza là giù
si ritenne.
Riguarda omai ne la
faccia che a Cristo
più si somiglia, ché la
sua chiarezza
sola ti può disporre a
veder Cristo".
Io vidi sopra lei tanta
allegrezza
piover, portata ne le
menti sante
create a trasvolar per
quella altezza,
che quantunque io avea
visto davante,
di tanta ammirazion non
mi sospese,
né mi mostrò di Dio
tanto sembiante;
e quello amor che primo
lì discese,
cantando
`Ave, Maria, gratïa plena´,
dinanzi a lei le sue
ali distese.
Rispuose a la divina
cantilena
da tutte parti la beata
corte,
sì ch´ogne vista sen fé
più serena.
"O santo padre,
che per me comporte
l´esser qua giù,
lasciando il dolce loco
nel qual tu siedi per
etterna sorte,
qual è quell´ angel che
con tanto gioco
guarda ne li occhi la
nostra regina,
innamorato sì che par
di foco?".
Così ricorsi ancora a
la dottrina
di colui ch´abbelliva
di Maria,
come del sole stella
mattutina.
Ed elli a me:
"Baldezza e leggiadria
quant´ esser puote in
angelo e in alma,
tutta è in lui; e sì
volem che sia,
perch´ elli è quelli
che portò la palma
giuso a Maria, quando ´l
Figliuol di Dio
carcar si volse de la
nostra salma.
Ma vieni omai con li
occhi sì com´ io
andrò parlando, e nota
i gran patrici
di questo imperio
giustissimo e pio.
Quei due che seggon là
sù più felici
per esser
propinquissimi ad Agusta,
son d´esta rosa quasi
due radici:
colui che da sinistra
le s´aggiusta
è il padre per lo cui
ardito gusto
l´umana specie tanto
amaro gusta;
dal destro vedi quel
padre vetusto
di Santa Chiesa a cui
Cristo le chiavi
raccomandò di questo
fior venusto.
E quei che vide tutti i
tempi gravi,
pria che morisse, de la
bella sposa
che s´acquistò con la
lancia e coi clavi,
siede lungh´ esso, e
lungo l´altro posa
quel duca sotto cui
visse di manna
la gente ingrata,
mobile e retrosa.
Di contr´ a Pietro vedi
sedere Anna,
tanto contenta di mirar
sua figlia,
che non move occhio per
cantare osanna;
e contro al maggior
padre di famiglia
siede Lucia, che mosse
la tua donna
quando chinavi, a rovinar,
le ciglia.
Ma perché ´l tempo
fugge che t´assonna,
qui farem punto, come
buon sartore
che com´ elli ha del
panno fa la gonna;
e drizzeremo li occhi
al primo amore,
sì che, guardando verso
lui, penètri
quant´ è possibil per
lo suo fulgore.
Veramente, ne forse tu
t´arretri
movendo l´ali tue,
credendo oltrarti,
orando grazia conven
che s´impetri
grazia da quella che
puote aiutarti;
e tu mi seguirai con l´affezione,
sì che dal dicer mio lo
cor non parti".
E cominciò questa santa
orazione:
"Vergine Madre,
figlia del tuo figlio,
umile e alta più che
creatura,
termine fisso d´etterno
consiglio,
tu se´ colei che l´umana
natura
nobilitasti sì, che ´l
suo fattore
non disdegnò di farsi
sua fattura.
Nel ventre tuo si
raccese l´amore,
per lo cui caldo ne l´etterna
pace
così è germinato questo
fiore.
Qui se´ a noi meridïana
face
di caritate, e giuso,
intra ´ mortali,
se´ di speranza fontana
vivace.
Donna, se´ tanto grande
e tanto vali,
che qual vuol grazia e
a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar
sanz´ ali.
La tua benignità non
pur soccorre
a chi domanda, ma molte
fïate
liberamente al dimandar
precorre.
In te misericordia, in
te pietate,
in te magnificenza, in
te s´aduna
quantunque in creatura è
di bontate.
Or questi, che da l´infima
lacuna
de l´universo infin qui
ha vedute
le vite spiritali ad
una ad una,
supplica a te, per
grazia, di virtute
tanto, che possa con li
occhi levarsi
più alto verso l´ultima
salute.
E io, che mai per mio
veder non arsi
più ch´i´ fo per lo
suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che
non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li
disleghi
di sua mortalità co´
prieghi tuoi,
sì che ´l sommo piacer
li si dispieghi.
Ancor ti priego,
regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che
conservi sani,
dopo tanto veder, li
affetti suoi.
Vinca tua guardia i
movimenti umani:
vedi Beatrice con
quanti beati
per li miei prieghi ti
chiudon le mani!".
Li occhi da Dio diletti
e venerati,
fissi ne l´orator, ne
dimostraro
quanto i devoti prieghi
le son grati;
indi a l´etterno lume s´addrizzaro,
nel qual non si dee
creder che s´invii
per creatura l´occhio
tanto chiaro.
E io ch´al fine di tutt´
i disii
appropinquava, sì com´
io dovea,
l´ardor del desiderio
in me finii.
Bernardo m´accennava, e
sorridea,
perch´ io guardassi
suso; ma io era
già per me stesso tal
qual ei volea:
ché la mia vista,
venendo sincera,
e più e più intrava per
lo raggio
de l´alta luce che da sé
è vera.
Da quinci innanzi il
mio veder fu maggio
che ´l parlar mostra,
ch´a tal vista cede,
e cede la memoria a
tanto oltraggio.
Qual è colüi che
sognando vede,
che dopo ´l sogno la
passione impressa
rimane, e l´altro a la
mente non riede,
cotal son io, ché quasi
tutta cessa
mia visïone, e ancor mi
distilla
nel core il dolce che
nacque da essa.
Così la neve al sol si
disigilla;
così al vento ne le
foglie levi
si perdea la sentenza
di Sibilla.
O somma luce che tanto
ti levi
da´ concetti mortali, a
la mia mente
ripresta un poco di
quel che parevi,
e fa la lingua mia
tanto possente,
ch´una favilla sol de
la tua gloria
possa lasciare a la
futura gente;
ché, per tornare
alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in
questi versi,
più si conceperà di tua
vittoria.
Io credo, per l´acume
ch´io soffersi
del vivo raggio, ch´i´
sarei smarrito,
se li occhi miei da lui
fossero aversi.
E´ mi ricorda ch´io fui
più ardito
per questo a sostener,
tanto ch´i´ giunsi
l´aspetto mio col
valore infinito.
Oh abbondante grazia
ond´ io presunsi
ficcar lo viso per la
luce etterna,
tanto che la veduta vi
consunsi!
Nel suo profondo vidi
che s´interna,
legato con amore in un
volume,
ciò che per l´universo
si squaderna:
sustanze e accidenti e
lor costume
quasi conflati insieme,
per tal modo
che ciò ch´i´ dico è un
semplice lume.
La forma universal di
questo nodo
credo ch´i´ vidi, perché
più di largo,
dicendo questo, mi
sento ch´i´ godo.
Un punto solo m´è
maggior letargo
che venticinque secoli
a la ´mpresa
che fé Nettuno ammirar
l´ombra d´Argo.
Così la mente mia,
tutta sospesa,
mirava fissa, immobile
e attenta,
e sempre di mirar
faceasi accesa.
A quella luce cotal si
diventa,
che volgersi da lei per
altro aspetto
è impossibil che mai si
consenta;
però che ´l ben, ch´è
del volere obietto,
tutto s´accoglie in
lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch´è lì
perfetto.
Omai sarà più corta mia
favella,
pur a quel ch´io
ricordo, che d´un fante
che bagni ancor la
lingua a la mammella.
Non perché più ch´un
semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch´io
mirava,
che tal è sempre qual s´era
davante;
ma per la vista che s´avvalorava
in me guardando, una
sola parvenza,
mutandom´ io, a me si
travagliava.
Ne la profonda e chiara
sussistenza
de l´alto lume parvermi
tre giri
di tre colori e d´una
contenenza;
e l´un da l´altro come
iri da iri
parea reflesso, e ´l
terzo parea foco
che quinci e quindi
igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il
dire e come fioco
al mio concetto! e
questo, a quel ch´i´ vidi,
è tanto, che non basta
a dicer `poco´.
O luce etterna che sola
in te sidi,
sola t´intendi, e da te
intelletta
e intendente te ami e
arridi!
Quella circulazion che
sì concetta
pareva in te come lume
reflesso,
da li occhi miei
alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo
colore stesso,
mi parve pinta de la
nostra effige:
per che ´l mio viso in
lei tutto era messo.
Qual è ´l geomètra che
tutto s´affige
per misurar lo cerchio,
e non ritrova,
pensando, quel
principio ond´ elli indige,
tal era io a quella
vista nova:
veder voleva come si
convenne
l´imago al cerchio e
come vi s´indova;
ma non eran da ciò le
proprie penne:
se non che la mia mente
fu percossa
da un fulgore in che
sua voglia venne.
A l´alta fantasia qui
mancò possa;
ma già volgeva il mio
disio e ´l velle,
sì come rota ch´igualmente
è mossa,
l´amor che move il sole
e l´altre stelle.